UGUALE

Alle prese con Fichte
Io=Io è un’identità. Certamente. Ma non è un’eguaglianza nonostante sia proprio questo il segno che indica sopra la relazione tra i suoi elementi.

La questione si propone prepotentemente in età romantica e idealistica nel confronto polemico tra uno dei pensatori più astrusi e geniali della stagione idealistica, Johann Gottlieb Fichte, e due grandi poeti-filosofi come Hölderlin e Novalis. Si tratta di un confronto molto tecnico e strutturato nel lessico filosofico contemporaneo ma anche denso di implicazioni sul piano esistenziale e non privo di attualità.

A chi, come Johann Gottlieb Fichte, propone l’identità a se stesso dell’Io quale fondamento della filosofia, della sua Dottrina della scienza, i due contrappongono l’obiezione che si tratta di un’identità vuota, sostanzialmente astratta che prescinde dalle peculiarità della soggettività vivente. In effetti – è stato un grande studioso del Romanticismo come Manfred Frank a rilevarlo – potremmo essere davvero identici a noi stessi se non vivessimo nel tempo. L’identità over time non consente neppure per un momento di essere pensata come eguaglianza: nessuno di noi può intendersi come eguale a ciò che era nella più minuta frazione di tempo precedente proprio perché – anche ammesso che null’altro sia cambiato – il tempo non è più il medesimo. È – come si vede – un cammino che al peso teoretico dell’essere contrappone la responsabilità anche morale dell’esistenza destinata a ‘sporcarsi’ con l’incoercibile pluralità (anche contraddittoria) di noi stessi e del mondo.

Tutto ciò ha per la filosofia di età romantica un immenso rilievo poiché significa che non possiamo, o meglio: non dobbiamo, essere idealisti sia per motivi teorici sia per motivi squisitamente ‘pratici’. Se l’idealismo (in questo caso quello di Fichte) costituisce la filosofia che cerca il fondamento primo nella soggettività la quale si propone come il principio inconcusso da cui tutto deriva – ecco che nel momento stesso nel quale ci si propone un progetto così ardito ci si trova anche a dover fare i conti con le contraddizioni proposte dall’esistenza. Il supremo fondamento non è in realtà così inconcusso e stabile come si vorrebbe: è bensì segnato da una discontinuità profonda che lo fa decadere dai cieli delle certezze metafisiche nella polvere dell’empiria. L’autocoscienza – come ben vedrà nuovamente Sartre quasi un secolo e mezzo dopo – non è pura ma è attraversata dal nulla che la contamina e la mette a contatto con il mondo. La questione non riguarda dunque solo gli addetti ai lavori, ma ha un peso sostanziale, concerne la concreta consapevolezza di sé di ogni individuo. A più riprese Novalis e Hölderlin verranno sulla questione per dimostrare l’insussistenza degli assunti fichtiani e avanzare la tesi che l’identità dell’Io può essere pensata non nella chiave dell’eguaglianza ma secondo una modalità ‘simbolica’ sulla quale si verrà tra breve.

Eguale o Identico?
Gli ultimi anni del Settecento filosofico in Germania sono stati metaforicamente definiti da un grande studioso come Dieter Henrich, in termini fisici e astronomici, come l’esplosione di una supernova che ha dato luogo ad un’immensa costellazione. Un immane potenziale speculativo – paragonabile solo (forse per difetto) a quanto è avvenuto nell’Atene del quinto secolo a.C. – si è così diffuso nella forma di frammenti, idee, elaborazioni intellettuali che sono andate individualizzandosi in molte menti.

È quanto si può ricavare anche dalla polemica relazione che Novalis e Hölderlin stabiliscono nei confronti di Fichte. Entrambi, da questo punto di vista – e indipendentemente dal fatto che solo il primo può essere detto romantico in senso proprio –, appartengono a un unico stream epocale, sono frammenti intellettuali che derivano da un unico nucleo. L’idea di autocoscienza che i due elaborano non va intesa soltanto, da questo punto di vista, come una geniale prospettiva personale. Essa va piuttosto accolta anche come la risposta ad un’epoca improntata all’imperativo del nuovo, all’ideale del moderno; si tratta, in altri termini, di un’epoca che cerca se stessa sempre, costantemente e solo nel proprio oltre. Il sé non è entro di sé, non è cioè l’eguale. Entro questo orizzonte l’autocoscienza non può confondersi con le antiche sicure sembianze dell’essere. Bisogna dunque rischiare e affermare – secondo un percorso che conduce nei chiaroscuri della modernità romantica – che l’autocoscienza è distinta dall’essere poiché non è eguale a se stessa. Se fosse invece eguale a se stessa andrebbe incontro a rischi gravissimi: sarebbe per esempio priva di domani. L’equilibrio moderno è dunque dinamico e approfitta dei suoi dislivelli. Un altro grande protagonista intellettuale di questi anni, Friedrich Schlegel, lo rammenta sia pure in un’altra prospettiva quando scrive: «Proprio le nostre mancanze sono le nostre speranze».

La partita si delinea a questo punto quanto ai suoi obiettivi: bisogna trarre vantaggio dalle situazioni di mancanza e di squilibrio. Il Romanticismo nel suo complesso (e non solo Hölderlin e Novalis), da questo punto di vista, mette capo ad un modello entropico che fa del vuoto, della stessa non-identità con sé, un motivo positivo del procedere pratico e speculativo.
Proprio a questo proposito Hölderlin e Novalis producono una teoria dell’autocoscienza sorprendentemente affine, una teoria per la quale l’autocoscienza non coincide con l’essere, ma è segnata da un’originaria frattura o dissimmetria.
Nella primavera del 1795 Hölderlin scrive un frammento rimasto famoso e oggetto di grande attenzione da parte degli interpreti, dal titolo Giudizio ed essere. Qui egli afferma che l’autocoscienza non è identità con se stessi; di conseguenza l’Io non può costituire il principio primo della filosofia:

Essere. Essere esprime l’unione assoluta di soggetto e oggetto.
Laddove soggetto e oggetto sono assolutamente e non solo parzialmente unificati, al punto che non può essere effettuata nessuna partizione senza violare l’essenza di ciò che deve essere separato, qui e in nessun altro luogo si può parlare di un
essere in assoluto, come accade nell’intuizione intellettuale.
Non dobbiamo però confondere questo essere con l’identità. Se dico: Io sono Io, il soggetto (Io) e l’oggetto (Io) non sono unificati in modo tale che non possa essere operata alcuna separazione senza violare l’essenza di ciò deve essere separato; al contrario l’Io è possibile solo in virtù di questa separazione dell’Io dall’Io. Come posso dire: Io! Senza autocoscienza? Ma come è possibile l’autocoscienza? È possibile per il fatto che mi contrappongo a me stesso, mi separo da me stesso e nonostante questa separazione mi conosco come lo stesso nell’opposto. [...] L’identità non è quindi un’unificazione di oggetto e soggetto che avviene in modo assoluto; dunque l’identità non è=all’essere assoluto.

L’autocoscienza non è dunque, secondo Hölderlin, identica all’essere e con ciò l’Io non può essere eguale a se stesso. A conclusioni analoghe perveniva proprio nello stesso periodo Novalis, il quale in un appassionante confronto con Fichte affermava che la coscienza è dotata di uno statuto ontologico singolare. Essa partecipa dell’essere che rappresenta e del quale si fa dunque testimone ma non è questo stesso essere. Le conclusioni di Novalis a questo proposito sono quanto mai sorprendenti e interessanti. La coscienza è ai suoi occhi un’immagine:

La coscienza è un essere al di fuori dell’essere nell’essere.
Che cos’è però ciò?
Il fuori dell’essere non dev’essere un vero essere.
Un essere non vero fuori dell’essere è un’immagine – dunque quel fuori dell’essere dev’essere un’immagine dell’essere nell’essere.

Resta da definire – agli occhi di Novalis – quali siano lo spazio e il tempo di quella singolare immagine che è la coscienza (e ciò vale anche per la coscienza di sé, per l’autocoscienza). Per larga parte il lavoro successivo di Novalis sarà dedicato a questo tema e giungerà a conclusioni che anche per noi restano impegnative e degne della massima attenzione. L’identità della coscienza si rivelerà in questo quadro come un’identità analogica e simbolica, un’identità che rinvia cioè a un tessuto di rapporti tra il soggetto con sé medesimo e con il mondo non fondate sul segno dell’eguale ma su di un rapporto di somiglianza e affinità. All’eguale si sostituisce in questo quadro il simile, quelle ‘somiglianze di famiglia’ – per riprendere il lessico di Ludwig Wittgenstein – entro le quali s’intesse la vita reale degli individui che è attraversata dal nulla (dalla non identità assoluta) non solo quale elemento negativo, non soltanto quale cammino verso la dissoluzione dell’essere. Il nulla è qui principio della distinzione ma anche della relazione che attraversa i distinti e che consente che il mondo si prospetti in tutta la sua molteplicità e ricchezza. Privi di questa identità analogica, attraversata dal nulla e dai mille percorsi della nostra esistenza, saremmo ridotti a spaesate presenze metafisiche, simili alle piazze o ai manichini di De Chirico. Saremmo persino incapaci di dire di noi stessi se siamo o ci riteniamo migliori o peggiori di un tempo. Un vero guaio… In breve: è certamente meglio non essere eguali a se stessi!

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