UGUALE

La volgarizzazione del concetto di virtuale, quella snaturata che applichiamo allegramente a quanto accade nei network digitali, è una delle superstizioni più pericolose che abbiamo nella nostra società contemporanea. Seconda, forse, solo all’illusione naturalistica dell’‘esportazione della democrazia’ e sullo stesso piano di certe applicazioni della finanza avventurosa.

È un punto di partenza parossistico, certo. Ma ci sono alcuni dati di fatto che non possiamo trascurare. Il primo è che attualmente non possiamo più dire di conoscere il funzionamento delle nostre culture. Zygmunt Bauman, nella sua lucidità divulgativa, raccontava che i viaggiatori e le distanze ridotte avevano avviato un processo di globalizzazione che tutto modifica. Clifford Geertz osservava che non c’è più una cultura legata agli stati nazionali e, in generale, non c’è più una cultura davvero omogenea su cui converge il consenso di tutti i membri. Marshall McLuhan e le diverse generazioni successive di massmediologi hanno ridipinto a colori vividi un villaggio globale in cui la nostra conoscenza del mondo è quasi totalmente di seconda mano, ‘mediata’ direbbero loro.

Poi, per una buffa coincidenza, proprio al volgere del millennio c’è stata un’accelerazione fortissima, uno sbalzo radicale, un cambiamento di paradigmi. Abbiamo innestato all’interno delle nostre società un’infrastruttura di comunicazione che mette in contatto direttamente gli individui, consente loro di scambiarsi conoscenza, di creare relazioni, di organizzarsi in gruppi. E dato che tutti gli assetti sociali umani si sono sempre riorganizzati in base alla capacità che avevano di gestire informazioni e conoscenza, le nostre culture stanno cambiando ad un livello profondo, quello che i semiologi chiamano ‘asse paradigmatico o di sistema’. Ovvero proprio il livello attraverso cui noi riconosciamo il funzionamento di una cultura e attraverso cui decidiamo come muoverci e comportarci al suo interno.

È ancora abbastanza presto per prendere le misure del cambiamento. Alcuni fatti di superficie sono già visibili ad occhio nudo: è cambiato il consumo musicale, la politica sta cominciando lentamente a riconoscere che nel ‘sistema’ è stato innestato un nuovo spazio pubblico, il mercato ha preso atto che la comunicazione con il consumatore è improvvisamente diventata bidirezionale. Ogni individuo, nel normale sistema operativo del suo computer, ha già l’abilitazione tecnologica (non ancora i linguaggi espressivi) per produrre, montare e distribuire video, comporre musica, fare informazione, costruire opinioni. E si potrebbero fare mille altri piccoli esempi.

Il secondo dato di fatto è riconoscibile ad un livello più profondo. Il numero di cose che possiamo fare prescindendo dalla nostra ‘massa biologica’ e dal suo movimento nello spazio è sempre maggiore. E il peso di queste attività nelle nostre vite è sempre più importante. Non si tratta solo di piccole semplificazioni alla complessità quotidiana (comprare libri online, fare un bonifico senza andare in banca), quanto piuttosto di un radicale redesign delle nostre reti sociali e relazionali. Il concetto di ‘locale’ (i nostri amici, i nostri colleghi di lavoro, l’ambiente geograficamente possibile in cui ci muoviamo) si dilata. E cambiano le regole di aggregazione, di scelta reciproca. Non sono più obbligato a scegliere i miei amici (o mia moglie) tra coloro che il destino ha fatto nascere nella mia stessa zona o che mi ha fatto incontrare all’interno dei circoli sociali che riesco a frequentare, con la forzata logica euristica che conosciamo bene. Nei network il ‘legame’ si propaga per connessione, seguendo il filo degli interessi reciproci e delle affinità. La grammatica culturale delle reti, si dice, è interest driven: semplicemente facendo ciò che mi serve o mi piace, fatalmente finirò per stabilire relazioni con persone che hanno una maggiore area di intersezione e compatibilità con la mia personalità.

I fisici teorici hanno dimostrato che in una situazione simile (immettendo maggiori informazioni all’interno di una società) non solo aumentano le possibilità di scelta, ma crescono anche le aspettative. I sociologi stanno cominciando ad osservare che, essendo tutti noi portatori di diversi interessi ed entrando in contatto più frequentemente ed in maniera più efficace, abilitiamo continuamente processi creativi da import-export. E, ce ne siamo accorti, il risultato è che tutto cambia molto rapidamente. Prima prendevamo piccoli pezzi di realtà (ad esempio reperti archeologici) e li mettevamo dentro ‘acceleratori culturali’ (i musei, le mostre) per facilitarne la comprensione. Oggi abbiamo messo un acceleratore sociale dentro la società. E appena entreranno nella società attiva i ‘nativi’, ovvero coloro che – a differenza nostra – non devono confrontare il mondo con le abitudini passate, sarà tutto ancora più veloce.

In tutto questo, la nostra tendenza a definire virtuale ciò che è ‘immateriale’ è un segnale preoccupante. Oltre che sbagliato: il primo passo verso la possibilità di agire senza presenza biologica, in fondo, è stato il telefono. Ma la componente immateriale delle nostre vite non cessa di essere reale, esattamente come quando facciamo un bonifico dalla nostra banca sul web e i soldi spariscono dal nostro conto. Se il concetto di uomo è sempre stato culturalmente determinato, dobbiamo cominciare a fare i conti con un modo nuovo di pensarci che preveda una vita non più necessariamente collegata alla materia e allo spazio fisico, esattamente come il diritto sta cominciando a tutelare la nostra persona digitale (si pensi alla privacy e alla tutela dei dati personali) accanto a quella fisica.

E, come al solito, quando qualcosa cambia ci sono una notizia buona e una cattiva. Quella buona è che, a quanto pare, l’aumento delle possibilità e delle aspettative individuali non prevede affatto la mortificazione delle tradizionali abitudini sociali e biologiche. Se è più facile conoscerci, frequentarci, fare cose insieme e confrontarci all’interno della rete, tutto poi porta a convergere verso una pizza, un aperitivo, un barcamp o persino (leggendo i dati) verso un matrimonio. Non si tratta di due umanità contrapposte e in competizione: quella biologica e quella digitale sono un’unica forma compatibile e compenetrata. Io la chiamo ‘umanità accresciuta’.

La cattiva notizia, invece, è che venendo da una cultura che riconoscevamo bene e svegliandoci una mattina in una che funziona in maniera diversa, abbiamo cominciato a liquidare molti processi sociali come ‘virtuali’. Soprattutto perché, se togliamo realtà alle nostre attività immateriali, ci verrà complicatissimo associare ad esse un concetto importante che dagli ‘effetti reali’ deriva: la responsabilità. Che è prima di tutto nostra, poiché stiamo disegnando, spesso per tentativi ed errori, regole e visioni etiche per il mondo che abiteranno i nostri figli ed i giovani di domani.

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