UGUALE

La richiesta formulata ad un giudice, soprattutto se non più giovane, di rendere conto della concreta applicazione del principio di eguaglianza di fronte alla legge, potrebbe apparire una provocazione; quasi una richiesta della ammissione di una sconfitta accettata.

Naturalmente, nessuno ha mai dubitato che gli uomini o anche solo i cittadini siano non uguali, ma diversi tra loro; per sopravvivere in comunità organizzate essi hanno dovuto ammettere come necessaria la pratica (e la compiuta teorizzazione) del principio di esclusione come limite esterno, e di quello di subordinazione come limite interno alla eguaglianza. Del resto la stessa previsione di amministrazione della giustizia, con il richiedere che vadano risolti i conflitti e puniti gli autori dei reati, presuppone come dato acquisito che tra le parti in causa una sia portatrice di interessi diversi dall’altra e per questo meritevoli di tutela, e tra un innocente ed un colpevole vi sia una irriducibile differenza. L’applicazione diffusa ed indifferente del principio di uguaglianza sarebbe in contrasto con la stessa aspirazione all’applicazione della giustizia, come ricordava Ugo Betti con le parole: «Quando anche tu avrai dimenticato, quel che è stato sarà uguale a quello che non è stato».

Ma il principio che il giudice dovrebbe applicare è o dovrebbe essere semplice: anche in una società competitiva, fondata perciò sul valore delle disparità, le regole secondo le quali la competizione deve svolgersi dovrebbero essere eguali per tutti; perché solo questa è la ragione che fonda il consenso di tutti i cittadini a concorrere al funzionamento del sistema, che pure per molti di essi è oppressivo e fiscale. La società occidentale in cui viviamo oggi è più uguale, libera e colta di ogni altra che sia mai stata sperimentata dalla storia; non è disposta a riconoscere la legittimità del Potere in quanto tale, sia esso giustificato da un richiamo trascendente o dal suo fondamento formalmente rappresentativo. A ragione dell’ubbidienza collettiva vi è solo la ricerca consapevole di un significato della propria esistenza in comune con gli altri; essa perciò richiede esercizio razionale del potere, responsabilità in chi lo detiene e, soprattutto, regole uguali per tutti.

Proprio a questo scopo, del resto, è stata elaborata nell’esperienza di migliaia di anni di storia la stessa nozione di un sistema di leggi che, con opera lenta e faticosa, ha sostituito l’applicazione dei crudi meccanismi della faida tribale, del richiamo ad una sacralità riposta nella conoscenza di ceti privilegiati, e della discrezione ‘graziosa’ del sovrano; ed ormai negli ordinamenti moderni l’amministrazione della giustizia si fonda sul presupposto, affermato almeno in via di principio, che di fronte alla legge i cittadini sono uguali, e che anzi è compito sia del legislatore (dove esso esiste) che del giudice realizzare proprio tale principio.

Limitando il discorso all’esperienza del sistema in vigore oggi in Italia, la legge disciplina in via astratta le materie più diverse non solo in modo uguale per tutti i cittadini, ma anzi introducendo norme di tutela per quelli di loro che siano in posizione contrattuale più debole (si pensi ad esempio alle materie del diritto del lavoro o del consumo), assicurando loro tutela anche al di fuori delle previsioni contrattuali, per garantire un trattamento tendenzialmente uguale anche in assenza di condizioni uguali di potere concreto.

A sua volta il giudice dovrebbe intervenire curando che l’esito dei processi non sia il semplice risultato di un rapporto di forza, ma discenda dall’applicazione della regola scritta al caso controverso, in termini tali da non risentire delle condizioni diverse delle parti quanto alla disponibilità di mezzi e strumenti di tutela; egli diviene così un necessario protagonista dell’attività di accertamento dei fatti oggetto di causa, ed anche di una interpretazione della norma in armonia con il principio costituzionale di uguaglianza.

Eppure, già nella semplice impostazione teorica questa rappresentazione è contestata; ricordando i contenuti del principio di indeterminazione (per cui, se partecipa all’accertamento del fatto, il giudice viene a modificare la sua ricostruzione), i filosofi del diritto affermano che il processo in un ordinamento democratico è una sorta di contesa sportiva, che ha bisogno solo di un arbitro imparziale; vincerà chi ha maggior forza muscolare o, se si preferisce, maggiori argomenti da spendere.

Più concretamente, in Italia come altrove, impedire che la legge venga applicata è il tratto comune dell’azione propria di tutte le forze economiche, politiche e culturali emergenti, anche se non sempre dominanti. La cultura di sinistra e di destra convergono in tale risultato; l’una si appaga dell’apparenza di trasgressione e sovversione che sembra premiare una tradizione di lotte sociali; l’altra ottiene nei fatti l’abrogazione del principio di eguaglianza, ed in tal modo il predominio dei diritti dei più forti e dei più furbi.

Ricordo che oltre trenta anni fa un noto attore di teatro, saputo che ero diventato magistrato, mi chiese: «Perché ti sei scelto questo mestiere di m…?». Eppure la vicenda dell’assassinio dell’avvocato Ambrosoli dimostra che l’unica trasgressione reale, in Italia, consiste nell’applicazione nei confronti di tutti delle regole scritte e tradizionali, nell’adempimento quotidiano dei doveri, nel rispetto dell’autorità istituzionale, nella persecuzione delle responsabilità. Ogni giorno di più, viene dimenticata la parola del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, messa in bocca ad un vecchio di Palermo: «Volete applicare davvero la legge uguale per tutti? Ma voi volete fare la rivoluzione!».

Alcuni esempi possono essere richiamati facilmente. I trasportatori bloccano le autostrade rivendicando diritti di oscuro contenuto, o i cittadini di disparate località della Campania manifestano per impedire lo smaltimento dei rifiuti? Il Governo non trova di meglio che cedere ai ricatti. I detenuti sono troppi? Si programma con l’indulto la loro scarcerazione, seguendo lo stesso criterio dell’espulsione dei bambini dalla scuola. I magistrati perseguono i politici corrotti? Si progetta non di migliorare la politica, ma di anestetizzare la magistratura con nuove regole nel processo e nell’ordinamento giudiziario.

Molti sono i fattori che concorrono a tale risultato. Lo stato sociale ha trasformato i cittadini da potenziali combattenti in assistiti; e questi adottano a misura delle loro pretese non la comune e limitata disponibilità di risorse, ma i loro appetiti (o, se si preferisce, i loro bisogni indotti); in tal modo si è contribuito allo sfaldamento delle coscienze, all’indifferenza per il bene comune; alle prerogative di una casta fa riflesso la richiesta di privilegi delle altre. Hanno sempre più importanza decisiva l’energia con cui viene agitata una pretesa e la forza contrattuale della parte interessata ad una soluzione, e quindi viene meno il principio del rispetto delle regole, e con esse dei diritti comuni ad ogni cittadino; ci si abitua a ritenere che non esistano più regole generali, ma solo situazioni particolari da risolvere caso per caso.

Tale conclusione è condivisa nella sostanza anche dai giudici, che non sono affatto dei romantici paladini del principio di eguaglianza. Un esempio di come la cultura del narcisismo e del desiderio di potere effettivo (e quindi discrezionale) possa condizionare le scelte del giudice può essere trovato nella evoluzione della materia del risarcimento del danno per lesioni, nella quale la magistratura ha assunto un ruolo determinante. Prima degli anni ’70 la giurisprudenza liquidava il danno da lesioni personali con conseguenze permanenti in proporzione al reddito del danneggiato, oppure (se si trattava di bambini) a quello che si poteva presumere sarebbe stato il loro reddito futuro, con risultati di evidente ingiustizia; alla fine di quel decennio è stato introdotto il criterio del danno biologico, come tale uguale per tutti. Ma, nonostante il tempo trascorso, esso ancora oggi viene liquidato sulla base di tabelle diverse tra i vari tribunali d’Italia; le gelosie ed i narcisismi dei magistrati hanno impedito di unificare i criteri di liquidazione, ed anche soltanto di discutere serenamente del problema. Con la conseguenza che chi abbia subito un grave danno alla persona o ai propri affetti verrà risarcito con somme molto diverse a seconda del giudice che deciderà sul suo caso: si è realizzata l’eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi ad un certo giudice, ma non anche quella dinanzi alla legge. Da alcuni anni, poi, si è introdotta la nozione ulteriore del danno esistenziale, necessariamente diverso da persona a persona; e la liquidazione viene sempre più a dipendere da un lato dalla discrezione del giudice, dall’altro dalla diseguale capacità della parte di portare prove, addurre argomenti, pagare avvocati, attendere il tempo dovuto per ottenere una sentenza favorevole.

Dunque, il principio di eguaglianza non è altro che semplice principio astratto, luogo di una destinazione che non verrà mai raggiunta, sconfessato dalla cultura del processo e dalla pratica applicazione degli istituti. Del resto, anche la democrazia e la libertà sono un fiore raro, determinate da un periodo storico di favorevole rapporto tra le risorse a disposizione e una popolazione che abbia escluso altri dalla loro fruizione; e per giunta frutto di lotte e conquiste che non sono mai definitivamente acquisite. Allo stesso modo, la giustizia come trattamento eguale per tutti non sarà mai un principio che possa trovare attuazione, ma solo una aspirazione diffusa; e la ‘sete di giustizia’ sarà un desiderio destinato a rimanere sempre inappagato, e tuttavia anche per questo sempre più destinato a suscitare desiderio, speranze, impegno, coraggio, forse anche ragione di aggregazione e consenso.

Solo per questa ultima ragione credo valga ancora la pena di rispondere a quell’attore che la mia scelta non era sbagliata allora, e ancora oggi può essere valida, se solo in essa si ripone speranza e fiducia; anche da parte sua.

multiverso

6