UGUALE

Intervista di Marco Iob a Riccardo Petrella

Marco Iob. Il 2008 è l’anno del 60° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani: in essa sono sanciti i diritti individuali, civili, politici, economici, sociali e culturali di ogni persona. Rappresenta di fatto il ‘manifesto dell’uguaglianza’ tra le persone del mondo. Ma ciò che è uguale per una persona, una comunità, un popolo è uguale anche per altri, di altre culture e di altri luoghi?

Riccardo Petrella. È chiaro che la caratteristica fondamentale di qualsiasi specie vivente è la sua unicità; ciascuno di noi è unico, non ripetibile: per questo si può dire che la storia umana è diversa quando tu, Marco, ci sei rispetto a quando non ci sei. Come diceva Ibsen, ciascuno di noi è una parola di Dio che non si ripete più e che non si ripete mai.

Da un punto di vista biologico, o ‘della natura’, la diversità è dunque la caratteristica fondamentale. Aggregazioni di individui unici diventano però tra loro uguali nei confronti di altre aggregazioni, per cui noi siamo uguali tra umani e diversi rispetto ad altre specie.
Per quanto riguarda i diritti, è importante sottolineare che essi sono delle costruzioni sociali sia per ciò che attiene alla loro definizione, alla loro esistenza e alla loro pertinenza riguardo agli esseri umani, sia rispetto alle esperienze e alla loro concretizzazione pratica. Per cui, ad esempio, si può affermare che il diritto alla libertà è una costruzione sociale e, di conseguenza, che il soggetto che ha costruito il concetto di libertà è stato un determinato gruppo sociale. Ci sono società che hanno costruito delle definizioni di libertà fra loro diverse a livello teorico. La costruzione sociale del concetto di diritto e la sua concretizzazione varia da società a società e questo è l’elemento di diversità. Noi siamo diversi ma il diritto in sé non è diverso.

Partendo dal concetto che in natura siamo tutti diversi, non si pone sufficiente attenzione al fatto che tutti i diritti sono delle costruzioni sociali.
È dunque pericoloso appoggiare la teoria che sostiene che, siccome i diritti sono dati e sono acquisiti, colui che li ha dati può anche toglierli e colui che li ha acquisiti può perderli in conseguenza di determinate condizioni, prescrizioni, ecc. L’insidia che si insinua è quella della disuguaglianza ed io non faccio parte di quelli che sostengono che i diritti umani e sociali sono acquisiti; ritengo invece che una volta che la società li ha costruiti essi non possano essere reversibili.
Coloro che sono contrari ai diritti ma non possono negarne l’esistenza, li relativizzano.
Eppure, se le condizioni di accesso alla soddisfazione del diritto –  che sono ancor più socialmente determinate e storicizzate – possono essere modificate, ciò che non si può modificare è il carattere di universalità, di indivisibilità e di imprescrittibilità del diritto.

Marco Iob. Dieci anni fa, quando insieme al gruppo di Lisbona hai redatto e promosso il ‘Manifesto dell’acqua’, questo tema non era ancora al centro del dibattito, delle scelte politiche e delle crisi ambientali così come lo è attualmente.
Gli scenari futuri prevedono una crisi globale dell’acqua ed oggi è in atto una vera e propria corsa all’appropriazione di questo prezioso bene da parte delle potenze economiche e geopolitiche. Possiamo dunque considerare la battaglia per il diritto all’acqua come una prova di civiltà sulla quale si misurerà la tenuta delle moderne democrazie e dunque di tutti gli altri diritti conquistati fino ad ora?

Riccardo Petrella. Sono convinto che la battaglia per il diritto all’acqua rappresenti effettivamente il crinale di due versanti, la cui differenziazione deve partire prima di tutto dalla demistificazione dei presupposti che sono oggi alla base della crisi mondiale dell’acqua.
Fino al ‘Manifesto di Lisbona’ tale crisi era considerata semplicemente in termini di un crescente ‘mismatch’ tra il continuo aumento della domanda di acqua – dovuto all’incremento della popolazione, alla crescita economica, al miglioramento delle condizioni di vita, ecc. – e l’offerta di acqua. Il problema della crisi non era dunque rappresentato dai milioni di persone che non vi hanno accesso.
Questa interpretazione era mistificatoria nella misura in cui non considerava che l’offerta di acqua è comunque inadeguata di fronte a prelievi eccessivi, non giustificati e non sostenibili: si aumentano i prezzi perché aumenta sempre di più il costo per poter offrire acqua in quantità sempre maggiore.
Dieci anni fa si è trattato dunque di affermare il diritto all’acqua per demistificare questa concezione puramente produttivistica ed economica, legata esclusivamente al concetto di risorsa produttiva in risposta ai bisogni generati da una cattiva modalità dello sviluppo economico.

Oggi la demistificazione che è necessario fare sulla crisi mondiale dell’acqua è quella legata al cambiamento climatico.
Ci si dimentica infatti che tale cambiamento non è dovuto alla natura bensì alla pressione antropica del nostro modello di sviluppo. La strategia diventata ora priorità mondiale è quella della mitigazione. Ovvero: bisogna mitigare la densità, l’intensità e la rapidità del cambiamento climatico, bisogna mitigarne gli effetti negativi, che in ogni caso ci saranno. La strategia della mitigazione è una strategia vincente.
Su questo punto il diritto all’acqua diventa problematico per il sistema dominante perché pone il seguente quesito: «Come faccio a garantire il diritto all’acqua per tutti?». Un’economia forte ha bisogno di acqua in quanto risorsa strategica: essa diventa di conseguenza fondamentale per la sicurezza economica, militare e per la capacità di essere una grande potenza; quindi che diritto si può garantire?
Per raggiungere questi obiettivi è necessario sviluppare strategie di innovazione tecnologica che siano in grado di aumentare l’offerta d’acqua; in questo caso la soluzione è il dissalamento dell’acqua di mare. Ma chi paga il dissalamento? La finanza privata. Ma tutti i Paesi poveri che non possono pagare, come faranno?
Ecco perché il diritto all’acqua diventa oggi di nuovo discriminante per una scelta di civiltà.

Marco Iob. «L’acqua è uguale per tutti!». Questo slogan l’abbiamo coniato insieme e in questi anni l’abbiamo promosso in tutto il mondo, dai Forum sociali mondiali dell’America latina, dell’Africa e dell’Asia, all’Assemblea mondiale dei cittadini e degli eletti per l’acqua; è stato efficace nel voler affermare l’assoluta necessità di garantire l’accesso all’acqua per tutti. Ma non corriamo forse il rischio di appiattire le diverse concezioni che ogni cultura ha dell’acqua su un ideale paradigma di uguaglianza?

Riccardo Petrella. Non sono convinto che l’affermazione di un diritto uguale per tutti comporti fenomeni di omogeneizzazione e di standardizzazione; si sa benissimo che esistono diverse maniere di concepire l’acqua ma non ci sono maniere diverse di pensare che l’acqua è essenziale per la vita.

Marco Iob. È un concetto universale!

Riccardo Petrella. Certo, in tutte le civiltà si sa che senza acqua non si vive e che l’acqua è vita. Ci sono molti modi, ad esempio, di considerare la sacralità dell’acqua; consacrare qualcosa avviene sempre in rapporto al divino e se ci sono concezioni diverse del divino ci sono anche concezioni diverse della sacralità; la sacralità, però, in se stessa è comune. Se, per ipotesi, imponessimo a tutti la sacralità dell’acqua, le differenti divinità o forme di credenze sul divino manterrebbero le diversità nel modo di esercitare tale sacralità.
In modo analogo, il diritto all’acqua deriva dalla coscienza delle persone che riconoscono che tutti hanno diritto alla vita. La cultura dell’acqua è una cultura che si esplica principalmente negli usi e dunque nelle diverse modalità di applicare il diritto.
Per poter effettuare il passaggio al diritto positivo, ovvero affermato e costruito, è necessario il riconoscimento che il diritto alla vita sia per tutti. Se non si accetta ciò, è chiaro che il diritto all’acqua sarà relativizzato e differenziato e, in sostanza, non riconosciuto.
L’acqua è dunque un diritto uguale per tutti.

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