UGUALE

Come ricorda Walter Benjamin ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, del 1936, l’arte è sempre stata riproducibile, attraverso tecniche manuali quali il conio, il calco, l’incisione – dalla xilografia alla puntasecca alla litografia. L’arte è da sempre riproducibile e anche falsificabile: come se alla creatività, alla produzione, immediatamente e profondamente si associasse una attività di ri-produzione, duplicazione, copiatura, ri-facimento. Vi è poi un enorme salto culturale dato dal passaggio dalla riproduzione manuale a quella meccanica. Se l’invenzione di Gutenberg, la stampa a caratteri mobili, rivoluziona il mondo della cultura scritta, della cultura dunque che si affida alla parola, con l’invenzione della fotografia e con quella del cinema suo figlio, le pratiche della riproduzione meccanica dell’opera d’arte mettono in atto una vera e propria mutazione dell’idea stessa di arte.

La riproduzione meccanica va enormemente oltre la riproduzione manuale delle figure. Distrugge ciò che Benjamin definisce aura: «l’apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina». Dalle antichissime rappresentazioni di animali sulle pareti delle caverne, passando dall’arte antica, da quella medioevale e rinascimentale, fino al naturalismo o al romanticismo ottocentesco, l’arte resta legata alla sfera del sacro, sia questo il dio o, nelle sue forme secolarizzate, la grandezza della natura: la ‘lontananza’ a cui l’arte dà una forma ‘vicina’ è il divino o, in senso secolarizzato, il vero. Questa dimensione di assolutezza conferisce all’arte una autorità fondata sulla tradizione, una sorta di inavvicinabilità, e un forte carattere epifanico. Ma il mondo dell’industria – generato dalla modernità e maturato nell’Ottocento, che porta con sé l’invenzione della fotografia, quella subito successiva del cinema e poi di tutte le altre tecniche di riproduzione – è un mondo carico di cambiamenti economici, sociali, culturali che tendono ad erodere e poi a rendere superfluo l’ambito del sacro: per il pragmatismo e la produttività della civiltà industriale nulla più pare intoccabile né inavvicinabile. Questo radicale mutamento di visione del mondo è il terreno su cui nasce la riproducibilità tecnica dell’arte: l’unicità aristocratica viene superata dall’idea che di ogni cosa non conti il valore assoluto, ma quello relativo, terreno.

Giungendo alla nostra contemporaneità, l’idea di riproducibilità dell’opera d’arte (opposta all’unicità) e quella di merce (opposta alla cosa in sé) si intrecciano sempre di più, venendo a costituire un insieme complesso e solidale. L’opera d’arte riprodotta non ha più nulla di assoluto né trascendentale, ha perso l’aura e diviene, dunque, contingente e mortale, come ogni altra cosa e, soprattutto, come ogni merce. Come Benjamin insegna, al valore cultuale dell’opera si sostituisce il valore espositivo, e questo costituisce un elemento di riduzione dell’arte stessa, che non appartiene più al mondo dell’autorità e, appunto, del sacro, ma diventa qualcosa di più vicino e alla portata di tutti, diffuso nella società, tangibile, fruibile. Un processo di democratizzazione da un lato, l’affermarsi di un tipo di fruizione non più basata sulla contemplazione (l’assoluto, il profondo) ma sulla distrazione (l’effimero, il temporaneo, il frammentato) dall’altro. La moltiplicazione degli oggetti artistici, la loro diffusione, il progressivo ampliamento del numero delle attività umane ascrivibili al campo dell’arte, annientano l’aura ma al tempo stesso la resuscitano nella forma del feticcio-merce, nuova divinità della civiltà della riproduzione assoluta e dello scambio totale.

Il tendenziale raggiungimento della perfezione nella riproducibilità tecnica sembra incarnarsi nel processo di clonazione generato e messo in pratica dall’immagine digitale: dalla ‘semplice’ moltiplicazione alla proliferazione. Jean Baudrillard definisce lo stato di affollamento di immagini uguali tra loro che nascono l’una dall’altra «regime seriale dominante». Finita l’era delle matrici, calcografiche o fotografiche che fossero, numericità e serialità segnano il destino dell’incommensurabile esercito delle immagini presenti, annidate, sparse, abitanti o solo viaggianti nella comunicazione contemporanea. Se con Marcel Duchamp (il disincanto dadaista unito alla coscienza dell’impatto dell’industria sull’arte) e Andy Warhol (l’immersione nella serialità delle merci come condizione esistenziale) il senso della serialità e della reiterazione meccanica tocca il suo culmine artistico restando ancora in qualche modo legato all’ordine della rappresentazione delle cose e del mondo, le arti digitali appartengono alla categoria della segmentazione e della proliferazione, di processi di propagazione somiglianti a metastasi. Le immagini si succedono e si sostituiscono l’una all’altra, si ripetono, velocemente si autogenerano in un allineamento, uno schiacciamento che le rende davvero uguali. Una nuova, nuovissima, visione e percezione del mondo sottomette ogni cosa a un unico programma, a una ‘pixellizzazione universale’. Uno spargimento automatico di immagini sul mondo, nel mondo, nella rete, nell’energia, nei gesti, nell’aria. Polvere di immagini.

Dalla lontananza legata al sacro, con la riproduzione tecnica siamo passati prima a un’arte sempre più diffusa e vicina, poi alla congiunzione profonda tra arte e comunicazione, per giungere oggi forse a un altro tipo di distanza: la strana distanza, l’alterità – pur nella somiglianza/identicità delle cose clonate e di quelle virtuali – che la tecnologia esprime, nonostante la sua presenza quotidiana e intima nelle nostre vite seriali, ripetitive, globalizzate, immerse come l’arte in un processo di clonazione.

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