UGUALE
Lo studio sperimentale dell’identità fenomenica
di Giovanni Bruno Vicario
Introduzione
Le premesse necessarie ad un breve resoconto come il presente si possono leggere nei diversi articoli contenuti nel volume L’identità empirica pubblicato da Ugo Savardi e Ivana Bianchi (Franco Angeli, 2005).
Le premesse riguardano il modo di intendere termini come ‘identità’, ‘eguaglianza’, ‘somiglianza’ in almeno tre discipline: filosofia, psicologia e linguistica. Per capire in qual misura certi problemi siano difficili, basti pensare ad uno solo: l’identità tra due oggetti si può predicare soltanto se i due oggetti sono differenti in almeno un particolare. Prendiamo il caso di due monete identiche, M1 e M2. Se sono messe sul tavolo, il particolare è che M1 occupa un certo posto nello spazio, e M2 un altro. Se sul tavolo metto soltanto M1, ed in seguito la sostituisco con M2, il particolare è che M1 occupava una certa posizione nel tempo, e M2 un’altra. Non c’è scampo: una perfetta identità è impossibile.
Qui mi limiterò a descrivere due fatti studiati in psicologia sperimentale, i quali lasciano intendere che certi problemi, insolubili in teoria, possono invece essere indagati in pratica: il movimento stroboscopico e la permanenza fenomenica.
Il movimento stroboscopico
Si guardi la figura 1, che traggo da un numero della rivista «Le Scienze» (347, luglio 1997).
Siano l1 e l2 due LED inizialmente spenti (t0 – t1). Nell’istante t1 si accende l1, che resta acceso fino all’istante t2 (l’ampiezza di questo intervallo di tempo non conta, ai fini del fenomeno). Successivamente entrambi i LED sono di nuovo spenti, nell’intervallo t2 – t3 (questo intervallo è invece cruciale, come vedremo; di solito si aggira intorno ai 50 msec). Si accende ora l2, che resta acceso nell’intervallo t3 – t4 (ed anche la durata di questo intervallo non conta). Alla fine entrambi i LED sono spenti come all’inizio (t4 – t5).
Ecco quello che si osserva. Se l’intervallo t2 – t3 è sufficientemente lungo (da 1 sec in avanti), si vedono due punti luminosi che si accendono e si spengono alternatamente, uno sulla sinistra e l’altro sulla destra, mantenendo fissa la loro posizione nello spazio. Se l’intervallo t2 – t3 è sufficientemente breve (al di sotto di 10 msec), si vedono due punti luminosi contemporaneamente presenti e fermi, uno sulla sinistra e l’altro sulla destra. Se l’intervallo t2 – t3 è ottimale (intorno ai 50 msec – questa quantità dipende dalla distanza tra i punti, dalla loro grandezza e dalla loro luminosità), si vede un solo punto, che per di più si muove dalla posizione di sinistra a quella di destra. Questo è il movimento stroboscopico.
Nel citato articolo de «Le Scienze» sono presentati tutti i problemi che il fenomeno pone alla logica ed alla neurofisiologia, riassumibili nel fatto che l1 comincia a muoversi verso l2 quando l1 è già spento. Come si verifichi ciò nessuno lo sa, ma si sa benissimo che sia il cinema che la televisione si fondano su tale fenomeno per far vedere un movimento dove (sullo schermo) fisicamente non c’è. Ma non è questo il fatto che qui interessa mettere in luce. Il fatto è che, soltanto variando l’intervallo t2 – t3, si passa dalla visione di due punti luminosi alla visione di un solo punto luminoso e di nuovo alla visione di due punti luminosi. Che cosa ha a che fare un intervallo di tempo con il numero di cose viste?
E noi osserviamo non soltanto che il numero delle cose viste cambia, ma anche che il punto che arriva alla posizione di destra è lo stesso che era partito dalla posizione di sinistra. C’è identità tra due oggetti che sono diversi, sia nello spazio (uno era sulla sinistra, l’altro sulla destra) come nel tempo (una luce è accesa nel tempo t, e l’altra nel tempo t + 50 msec). Com’è possibile che una caratteristica qualitativa (il fatto di essere ‘lo stesso’) dipenda da una caratteristica quantitativa (il numero di millisecondi)? Spiegare l’esistenza di un fenomeno come il movimento stroboscopico è difficile. Una spiegazione che mi sembra accettabile l’ho già esposta (Vicario & Kiritani, Gestalt Theory, 1999, 21, 100-121), e qui la riporto in forma abbreviata.
In poche parole, il sistema percettivo prenderebbe nota della presenza di un oggetto (il punto luminoso l1) in un certo luogo del campo visivo, e successivamente di un altro oggetto (il punto luminoso l2) in un altro luogo del campo visivo. Siccome i due oggetti sono simili per grandezza, forma, colore, luminosità, il sistema percettivo conclude che si tratta della stessa cosa (assunzione di identità). Ma c’è un problema: i due oggetti occupano luoghi diversi nello spazio. Il sistema percettivo, essendo predisposto a sostenere che si tratta di un solo oggetto, trova la soluzione: fa muovere il punto da un luogo all’altro.
Non posso qui enumerare i molti dettagli che questa spiegazione del fenomeno deve chiarire. Basti pensare al fatto che il movimento tra i punti si verifica anche quando il secondo non è esattamente eguale al primo. E questo richiama un altro fenomeno, che illustro nel prossimo paragrafo.
La permanenza fenomenica
La tendenza degli oggetti percepiti a rimanere se stessi anche quando gli stimoli fisici ed i processi fisiologici che li hanno generati cambiano nel tempo si definisce come permanenza fenomenica. Si pensi a quello che succede quando un’automobile viene verso di noi. Tutto cambia nell’immagine retinica: la grandezza, il numero di dettagli visibili, la chiarezza dei colori, perfino la forma – se l’avvicinamento non è rettilineo – ma l’auto è sempre ‘la stessa’. È stato però Alex Michotte a mettere in luce, con alcune osservazioni sperimentali, che la permanenza fenomenica ha dei limiti nel numero delle trasformazioni imposte all’oggetto della percezione (Acta Psychologica, 1950, 7, 293-322; una traduzione dell’articolo di Michotte si può trovare in Vicario & Zambianchi, La percezione degli eventi, Guerini 1998).
Le osservazioni di Michotte possono essere illustrate come si vede nella figura 2.
Se proiettiamo su uno schermo un disco bianco, e di seguito proiettiamo nello stesso punto un disco bianco piú piccolo, quello che si vede è lo stesso disco che diventa piú piccolo. Se dopo il disco bianco viene proiettato un quadrato bianco di pari grandezza, si vede lo stesso disco che cambia forma. Se dopo il disco bianco proiettiamo un disco nero di pari grandezza, vediamo lo stesso disco che cambia colore. Se dopo il disco bianco viene proiettato un quadrato piccolo e nero, non vediamo più lo stesso disco che cambia in qualche modo, ma vediamo un disco che scompare ed un quadrato piccolo e nero che lo rimpiazza.
C’è dunque un limite alle trasformazioni che possiamo imporre alle caratteristiche percettive degli oggetti perché si abbia la loro permanenza nel campo visivo, ad onta delle trasformazioni che subiscono. Se quel limite viene superato, il secondo oggetto non è ‘lo stesso’ che il primo, ma un altro. La permanenza dell’oggetto cede il luogo ad un’altra percezione: la sostituzione del primo oggetto con un altro oggetto. Tutte cose di cui ci si può rendere conto usando gli attuali programmi di morphing per immagini al computer.
Conclusione
La conclusione che si può trarre da questi due esempi di studio sperimentale dell’identità fenomenica è che una cosa sono le parole con le quali noi denotiamo certi fatti dell’esperienza, ed un’altra le esperienze medesime. Tra termini come ‘identità’, ‘eguaglianza’, ‘somiglianza’ eccetera, sussistono relazioni di tipo logico e linguistico che spesso non trovano alcun riscontro nella concreta esperienza percettiva. Nel primo caso qui esposto, il fatto di essere ‘lo stesso’ oppure ‘un altro’ dipende da pochi millisecondi di intervallo tra due stimolazioni; nel secondo caso, dal numero di caratteristiche che vengono trasformate. Ed è palese che, a rigor di logica, tempi e numeri non hanno nulla a che fare con enunciazioni necessariamente rigide come quelle che danno ordine al pensiero. È perciò inutile discuterne in astratto. Ciò che separa ‘identico’ da ‘diverso’ nel pensiero è una mutua esclusione, mentre nella percezione è una faccenda di gradi in parametri estranei e, fino ad un certo punto, impensabili.
La logica nasce da un sommario di esperienze fenomeniche, ma non si può usare la logica per fare esatte previsioni su altre esperienze fenomeniche. Prendiamo una situazione stimolo qualsiasi, in cui ci siano due oggetti, e descriviamo la situazione in termini fisico-geometrici, e magari aggiungiamo le nostre conoscenze di fisiologia degli organi di senso. Per sapere se uno degli oggetti sarà percepito come ‘eguale’ o ‘diverso’ dall’altro, non si può procedere per induzione o per deduzione: bisogna provare. Questo è il caposaldo di una miriade di ricerche sperimentali sulla percezione, stabilito da Carl Stumpf (1848-1936) alla fine dell’Ottocento, caposaldo all’origine dei molteplici successi ottenuti dalla Gestaltpsychologie in tutto il Novecento ed oltre.