UGUALE
Omologazione e duplicazione del paesaggio
di Mauro Pascolini
Luoghi, spazi, visioni, percezioni: il nostro incontro quotidiano con il paesaggio è un continuo susseguirsi di frammenti che vanno a comporre lo sfondo in cui ci muoviamo, in cui dipaniamo la nostra esistenza, in cui sviluppiamo incontri, relazioni, lavoro, ma pure silenzi, solitudini, angosce. Una percezione strettamente legata, oggi, allo spostarsi veloce, allo scorrere repentino, confuso e sfuocato degli elementi del paesaggio: si intravede ma non si vede, si guarda ma non si osserva, si percepisce ma non si comprende. Dall’auto, dall’autobus, dal treno, dall’aereo, dalla metro, dal correre, dal camminare stesso. Un paesaggio complicato, fatto ancora di eccellenze che convivono con mediocrità, di interi che si sfaldano in frammenti, in piccole particelle che conservano barlumi di identità, di colore che sfuma in un continuo grigiore, di naturalità che diventa artificialità.
Alcune questioni preliminari vanno poste quando si affronta il tema del paesaggio e dei suoi rapidi cambiamenti nella società attuale e, soprattutto, della sua ripetibilità, omologazione, duplicazione e della sua scarsa caratterizzazione, nel tentativo di uscire dalla ovvietà e dalla semplificazione del ‘bello-brutto’ spesso accompagnata da altre antinomie – ‘rurale-industriale’, ‘naturale-artificiale’, ‘pubblico-privato’ –, solo per ricordarne alcune di un lungo elenco. Innanzitutto di quale paesaggio parliamo? Quale idea, quali immaginari, quali sensazioni ci vengono alla mente quando pronunciamo questo termine? Il paesaggio della natura, il paesaggio costruito dall’uomo che si declina nelle infinite varianti date dall’aggettivo che ne specifica la tipologia – urbano, industriale, rurale, del turismo, del commercio, delle metropoli, delle periferie… – o ancora quello che introduce la dimensione culturale, nella sua particolare accezione di risultato stratificato delle azioni delle società umane, o quello virtuale che prende corpo ormai in maniera sempre più diffusa nel nostro spazio quotidiano, o quello che noi percepiamo come nostro, in una dimensione privata ed assoluta? La questione non è di poco conto se vogliamo riflettere su una idea di per sé senza senso: l’uguale nel paesaggio, se per uguale intendiamo una ‘copia’ fedele, ripetuta una o infinite volte nella dimensione territoriale del nostro pianeta.
Esistono quindi paesaggi uguali? E come li possiamo identificare, individuare, catalogare? In che termini affrontiamo la ricerca e a quale scala?
Bella complicazione la questione della scala! Se sfogliamo infatti un vecchio atlante troviamo nella parte finale i planisferi tematici delle tipologie di paesaggio che suddividono in grandi aree il pianeta, uniformandole con colori diversi. Uguaglianza? Omologazione? O, piuttosto, tentativo di classificazione sulla scorta dei primi geografi umani che, in qualche modo, dovevano riportare ad unità le grandi diversità che andavano leggendo sulla terra e che non erano riconducibili a fattori solamente fisici o climatici? Cambiando la scala, il colore uniforme svanisce e lascia spazio ad un mosaico di situazioni che fondono dimensioni tipicamente naturali a quelle proprie dell’uomo. Anche in questo caso la scelta della scala è fondamentale e per molto tempo i geografi hanno considerato la scala regionale come quella in grado di definire con maggior precisione aree paesaggisticamente omogenee, nel tentativo di cercare l’unità, la parte più piccola, originale ed unica del paesaggio. Aspirazione vana ed illusoria: la dimensione regionale non era adeguata e così, all’interno della regione pensata omogenea, si individuavano delle sub-regioni, delle micro regioni che portavano poi a frammentare i paesaggi, ad esempio nel caso della montagna, di vallata, di versante, di borgo, di insediamento, di fazzoletti di orto…
Oggi tutto questo ci sembra superfluo: con il computer di casa, facilmente e senza penetrare il paesaggio, ci possiamo muovere all’interno della scala geografica; basta utilizzare quei programmi informatici che da una visione esterna della Terra ci fanno giungere rapidamente, come risucchiati da un vortice, all’immagine della nostra abitazione, del nostro paesaggio individuale, costruito spesso al di là delle funzioni, solo come affermazione del proprio status. L’insieme del paesaggio si frantuma, la nozione stessa di paesaggio inteso come unità culturale che esprime il progetto spaziale di una società svanisce, demolita in tante piccole celle costruite su committenza da progettisti senza orizzonte e senza storia.
Ed ecco quindi che diventa difficile, oggi, una lettura del nostro paesaggio in chiave di originalità: è molto più semplice leggerlo nella direzione di una omologazione diffusa o, come dice Mauro Varotto, di una «privatizzazione spinta degli spazi abitativi che si traduce nella fine di scenari condivisi», nella chiusura definitiva di un orizzonte che si apriva dagli spazi abitati fino a comprendere i luoghi, il territorio, le viste lontane. Non si guarda oltre lo spazio costruito, sempre più limitato e privo di legami con il contesto territoriale.
Un paesaggio tristemente uguale.
Ad essere uguale non è tanto la singola abitazione o le isole abitative fatte da villettopoli replicanti, o ancora il susseguirsi illogico di pochi vuoti a fronte di un esasperato ‘orror vacui’ che vede occupare in un disordine estremo il territorio da fabbriche, centri commerciali, strade con una irresponsabile ed ingiustificata nuova edificazione che lascia alle spalle, come in una drammatica guerra, macerie, rovine e degrado, dando vita ad un paesaggio retorico e spettacolare. È uguale il modo in cui tutto questo si è propagato, si è organizzato, si è impadronito del territorio. Le case, le strade, le fabbriche, i centri commerciali, i luoghi del tempo libero, i finti giardini, l’arredo urbano non sono uguali, ma uguale è il paesaggio che hanno creato, un paesaggio che non è più la storia del rapporto dell’uomo con il suo territorio, ma solo la storia individuale, di committenza, di economie, di fratture e di grigiore.
Ma non ci basta l’aver creato paesaggi privi di anima nel nostro contesto, li vogliamo ritrovare anche negli altri spazi della nostra quotidianità o nell’alterità. Ed ecco quindi nascere la riproduzione dei luoghi che si considerano archetipi del ‘bel paesaggio’ e quindi fiorire le città in miniatura, o la Venezia di Las Vegas, o i parchi tematici dove la finzione diventa realtà e il luogo viene vissuto in un ‘non luogo’ così come definito da Marc Augé. E allora il bisogno del paesaggio originale si cerca non nella realtà e nel recupero di una funzione collettiva dell’organizzazione dello spazio, ma nei suoi surrogati: si cerca la piazza nella nave da crociera, il vicolo nel centro commerciale, i paesaggi nei villaggi turistici che devono riprodurre tipologie note, ma con tocco esotico. Non si deve conoscere l’altrove, ma l’altrove deve essere uguale al vicino.
Per conoscere i luoghi innevati del paesaggio montano non ci si reca nelle valli alpine, difficili da comprendere, ma si preferisce andare al Dubai Ski Dome Resort, dove si può sciare al coperto nel deserto e guardare quel paesaggio fatto di palme, riprese anche nella forma delle isole artificiali, che si stanno edificando con la suggestione di quelle familiari di colore arancione fluorescente sorte nelle periferie urbane e lungo villaggi di strada, segnali indelebili del nostro paesaggio futuro.