UGUALE

Quest’inverno partecipai a T. ad una conferenza sul tema delle prossime integrazioni europee e regionali nei Balcani. Parlai brevemente, sottolineando alcune delle attuali problematiche sociali e culturali, riguardanti soprattutto la Bosnia.
Alla fine notai di non aver soddisfatto le aspettative degli organizzatori. No, non mi dissero niente, ma parlavano i loro sguardi, pure i loro sorrisi, un po’ acidi. Scherzai, chiedendo se meritavo la cena.
Ma che domanda!

Cenammo in uno dei ristoranti di T., in cui ad un semplice mortale pare che le posate siano in più, in cui l’ospite non deve versare il vino da solo perché spetta ai camerieri, discreti, quasi invisibili che, con una scopetta minuscola, puliscono ogni briciola sul tovagliolo. L’atmosfera al tavolo era di quelle sterili, con i sorrisi ufficiosi dei volti che sapevano di dimenticarsi reciprocamente forse già dopodomani. Mi sedevo, al fondo del tavolo, accanto ad un professore di Roma. Durante la cena scambiammo alcune parole di gentilezza. Poi seppi che eravamo sistemati nello stesso albergo. Mi disse che era abituato a bere un tè dopo cena. Se avessi voluto, mi domandò, potevo fargli compagnia. Accettai e partimmo verso le piazzette deserte di T. sperando che ci fosse un bar aperto.

Disse improvvisamente che era rimasto inquieto dalla mia relazione. Mi giudicava pessimista. Dalla caduta del Muro si occupa dell’Est Europa, spesso anche dei Balcani. Come sociologo si interessa di tutti i fenomeni sociopolitici importanti che attraversano la realtà dell’Est europeo. Sia dell’antieuropeismo che dell’euroscetticismo della maggioranza dei giovani, soprattutto in Bosnia, non sapeva nulla. Lui è un convinto europeista, crede nella crescita della Grande Casa d’Europa. Essendo tale gli fa piacere leggere le informazioni sui successi del governo internazionale in Bosnia. «Ma – esclamò – del problema del regime dei visti in quelle informazioni non si parla». Né di altre cose che io avevo sottolineato nella mia relazione, prima fra tutte la forte diseguaglianza sociale causata dal sistema neocapitalista; o le inefficienze del sistema degli aiuti internazionali, i cui due terzi finiscono per tenere in piedi lo stesso apparato di pace e di governo internazionale. Era rimasto colpito dal fatto che le scuole in Bosnia sono divise su base etnica e religiosa.

«Le scuole divise, i giovani divisi», ripetei. Ed è una ciliegia amara sulla torta della quadratura del cerchio di un paese in cui ormai sono più che visibili i risultati dell’errore più grave del periodo seguente agli accordi di Dayton. Avendo accettato l’orientamento nazionalista di tutte e tre le parti etniche per quanto riguarda la divisione delle scuole, credo che i pacificatori non abbiano capito la questione cruciale del futuro di un paese appena uscito dalla follia di una guerra civile assurda. Oggi, in Bosnia, i giovani sono doppiamente vittime: degli adulti etnicamente divisi e della porta chiusa della Grande Casa d’Europa.

Il professore, quasi scosso dalla mia reazione, mi disse che secondo lui anche per la Bosnia si tratta di un periodo transitorio, come per il resto dell’Est europeo. Bisogna aver fede nel progetto europeo, bisogna essere più ottimisti.

«La fede è buona se non è un dogma», dissi, aggiungendo che in Bosnia per i giovani non è facile immaginarsi uguali ai propri coetanei del resto d’Europa. Là è drammatica ogni intenzione di visitare Milano, Vienna, Praga, Parigi… Ah, come gli risponderanno i diplomatici, gli impiegati? No, loro sono uguali a coloro per cui questo atteggiamento è parte della normalità. Poi, l’ottimismo non è una questione retorica, ma è anche l’effetto delle circostanze sociali. Quei giovani vivono in un regime di visti in molti casi paragonabile a quello del rilascio dei fogli di via nel periodo che Hannah Arendt chiamò «i tempi del buio». Ma non è così soltanto a Sarajevo, perché molto differente non è né a Belgrado, né a Skopje… Davanti alla porta della Grande Casa d’Europa questi giovani si sentono diversi, disuguali. Dentro, forse, abita una loro matrigna, severa e poco comprensiva.

Ecco, finalmente trovammo un bar aperto. Fummo soli sotto le luci torbidogialle, con le tazze di tè diversi; lui beveva green tea, io tè ai frutti di bosco. Mi disse di non aver preso come oggettivo ciò che io avevo espresso su «i tempi del buio». Per lui si trattava dei punti deboli delle burocrazie dei paesi europei. In qualche modo io, secondo lui, semplificando le cose – forse perché era costretto a vedermi in una luce antiaccademica – esprimevo le mie amarezze. Si interessò a come mi sentivo in Italia, nell’Occidente. Uguale agli altri? Oppure diverso? Essendo straniero…

No, caro professore, non sono amareggiato. Non credo siano amareggiati coloro che ricercano le ragioni delle proprie amarezze e di quelle altrui. Poi, nella chiave a me cara, quella lucreziana, più volentieri parlerei de rerum natura, delle cose che dei sentimenti. Quindi di ciò che penso. E ciò è vicino alla riflessione di Aimé Césaire, poeta, sulla nigrizia. Per lui la nigrizia rappresentava il riconoscimento del fatto che un uomo è nero, cioè l’accettazione del destino del nero, nella sua cultura e nella sua storia. Penso che essere neri voglia dire essere anche più visibili fra coloro che già sono diversi.

E per quanto riguarda la diversità, mi sono già abituato a portare numerose etichette. Prima di essere diverso in Friuli, in Italia, nell’Occidente, diventai diverso nel mio paese, nell’ex Jugoslavia. Quindi, nel paese che, inconsciamente, una volta dicevo essere il mio. La mia patria. In Bosnia, quella prima del 1992, che non c’è più e che poteva essere esempio di convivenza pacifica fra diverse culture, religioni e costumi, dopo una notte lunga, tutti coloro che lottavano per la pace e per le ragioni della convivenza diventarono diversi rispetto alle masse etniche allora già omogeneizzate dal nazionalismo. Diventò diverso chiunque pensava che il nazionalismo è amore falso per il proprio popolo, come nell’Occidente la xenofobia è paura infondata di chi si considera indigeno, proiettata contro quelli che arrivano. E più diverso diventai insieme a coloro che hanno rifiutato le armi e le divise. Venimmo chiamati disertori, poi fuggiaschi e vigliacchi. Quando arrivai (per forza) in Italia, a queste etichette ne vennero aggiunte altre: extracomunitario e profugo. Ma le portavo e le porto sinora con leggerezza, un po’ ironica, un po’ provocatoria, anche perché l’etichettatore non sa che si rispecchia nelle etichette che incolla agli altri. L’etichettatore giudica, non tende mai a comprendere. Ebbi allora la fortuna di essere accolto dal Centro ‘Balducci’ di Zugliano, isola felice dell’arcipelago friulano della pace e della solidarietà, dove si cammina con tutte le tribù della terra, con gli oppressi e con le vittime della storia in movimento. Tuttavia, non credo di avere la necessità di convincere nessuno che la mia cultura sia innanzitutto europea. Nessuno può privarmi di essa, né dell’utopia, che è anche delle persone che oggi, in Europa, anche se non numerose, riescono a resistere nel cammino per la pace. Cioè…?

Voglio credere che verrà un giorno – se non sarà tardi? – in cui la cultura europea si incontrerà con dei meccanismi di guerra di cui non è priva, che maschera sotto il velo della lotta contro il terrorismo oppure in nome della giustizia delle guerre umanitarie. Che verrà un giorno in cui gli abitanti della Grande Casa d’Europa riusciranno ad immaginarsi nelle scarpe degli abitanti di Baghdad, delle popolazioni dell’Africa e del Sud America, pensando che la giustizia, la legalità, la pace, l’uguaglianza e la salvaguardia del creato non siano doni soltanto per una parte del mondo. Che le sfide del domani non siano da decidere solo dai più potenti di questo globo terrestre, con le loro formule magiche della global security e del new world order, ovverossia con la cultura della distruzione e della morte. È difficile immaginare un grande tavolo a cui si siederanno, come nel sogno di un utopista, il direttore della General Motors, il cacciatore siberiano, il presidente degli USA, il rappresentante degli eschimesi, il titolare della Gazprom e un sindacalista africano ed altri, molti altri? Diversi, ma uguali nella volontà di umanizzare ciò che chiamiamo la nostra esistenza?

«È tardi – disse il professore – pare intendano spegnere le luci». Poi, aggiunse, «utopisti o realisti, bisogna andare a letto».

multiverso

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