VECCHIO NUOVO
Anziani in Africa
di Marco Aime e Stefano Allovio
Roberta Altin intervista Marco Aime e Stefano Allovio
Altin. «In Africa ogni anziano che muore è una biblioteca che brucia». Partirei da questa affermazione di Amadou Hampâté Ba, per chiedervi cosa ne pensate di questa rappresentazione degli anziani come depositari e custodi della tradizione in una cultura prevalentemente orale.
Aime. C’è del vero nelle parole di Hampâté Ba, ma molte cose stanno cambiando anche in Africa. Innanzitutto non dobbiamo dimenticare che questo continente possiede ormai una memoria scritta lunga oltre un secolo per quanto riguarda l’aspetto coloniale, e molto più lunga in certe regioni islamizzate dal Mille. Inoltre nelle città i rapporti stanno mutando, anche molto rapidamente, e tra giovani e anziani le relazioni sono spesso ambigue: da un lato si vuole spezzare il cordone della tradizione, che lega i giovani al passato, dall’altro c’è una sorta di timore che la presunta modernità delle realtà urbane non sembra avere cancellato. Ricordo, per esempio, una studentessa di Ouagadougou che dopo aver passato alcune ore a criticare le superstizioni degli anziani del villaggio, mi disse che suo fratello era stato ucciso proprio dagli anziani, con la magia, per aver osato aiutare una donna che era stata ripudiata dal marito.
Allovio. È una frase molto fortunata: coglie la centralità di ogni singolo individuo e della sua esperienza di vita nel conservare e comunicare i saperi all’interno di culture orali. È ovvio che non è soltanto una questione legata alla mancanza (in realtà, mai assoluta) di supporti della memoria e neppure alla pervasiva oralità. La questione è legata anche alla tipologia dei saperi che la ricerca antropologica è interessata a raccogliere e interpretare: spesso sono i saperi della vita, della manualità, delle modalità di stare nel mondo che ogni individuo possiede attraverso un’esperienza di vita prolungata. Benché gli anziani siano visti come i depositari delle pratiche e dei saperi, non bisogna pensare che ne siano gli unici depositari. A volte sono loro stessi che si pongono ai membri della società e agli osservatori esterni come i depositari del sapere nel tentativo di rafforzare e ribadire un ruolo di potere e prestigio all’interno della società. In tal modo l’osservatore esterno cade nella rete di un’antropologia implicita molto diffusa nelle società umane: «noi maschi adulti siamo molto più autorevoli e sappiamo molte più cose delle faccende della vita rispetto ai giovani e alle donne». Inoltre l’immagine classica dell’antropologo che studia le ‘tradizioni’ non fa altro che rafforzare questo prestigio.
Altin. Ciascuno di voi ha lavorato a lungo come ricercatore sul campo in Africa: com’è stato il vostro rapporto personale con gli anziani? Li avete considerati degli interlocutori e degli informatori privilegiati?
Aime. Nel caso delle mie ricerche tra i tangba del Benin direi di sì, anche perché erano gli unici che potevano portare una testimonianza viva di come alcuni aspetti della società fossero mutati nel tempo. Nella ricerca che sto conducendo attualmente a Timbuctu, in Mali, la cosa è diversa, perché mi occupo di associazioni d’età e i miei interlocutori hanno, per l’appunto, età differenti in quanto mi interessa vedere come tali associazioni sono percepite dalle diverse generazioni.
Allovio. Anch’io, durante i miei soggiorni di ricerca in Burundi e nell’attuale Repubblica Democratica del Congo, ho sempre considerato gli anziani come interlocutori privilegiati. Sono le stesse società visitate che ti invitano a rivolgersi a loro ed è evidente il senso di rispetto nei confronti di ciò che gli anziani dicono. Questo non significa che nelle società africane (per quanto ho potuto verificare) si riscontra una maggiore adesione agli insegnamenti e ai valori trasmessi dalle generazioni più anziane. Un conto è il rispetto per ciò che gli anziani dicono, altra questione è ciò che i più giovani fanno all’interno di arene politiche e scenari economici in continua trasformazione.
Altin. L’età come fattore di categorizzazione degli individui e di organizzazione sociale ha ancora un peso rilevante nelle società che avete studiato? Il potere, inteso come accesso e controllo alle risorse materiali o simboliche, resta in mano agli anziani?
Aime. Questo sì, lo si può notare nelle relazioni sociali come nella gestione della politica. In molti sistemi tradizionali le classi d’età costituiscono l’ossatura stessa della società. Infatti, tali sistemi mettono in diretta connessione l’età biologica dell’individuo con quella sociale, assegnando a ogni periodo della vita determinati diritti e doveri. Non a caso si parla di gerontocrazia a proposito di certe società tradizionali. Anche l’accesso alle risorse è in mano agli anziani i quali, in molti casi, ritardando il pagamento del prezzo della sposa, trattengono più a lungo i figli nella casa paterna, posticipandone il matrimonio. Cosa che provoca, però, non poche tensioni tra padri e figli.
Allovio. È vero che l’età ha ancora un peso rilevante, tuttavia alcune trasformazioni sociali, come per esempio l’introduzione nella prima metà del Novecento di lavori salariali, hanno fortemente spostato il controllo delle risorse materiali in mano ai più giovani. È sicuramente un argomento di forte interesse nelle ricerche antropologiche lo studio di come gli anziani manipolino le risorse simboliche in modo da mantenere il potere nella gestione delle risorse materiali. Gli studi in questo ambito nell’africanistica sono davvero numerosi.
Altin. Come funziona la trasmissione intergenerazionale e l’inculturazione oggi?
Aime. Sebbene risulti un continente ancora scarsamente alfabetizzato, oggi in molte parti dell’Africa l’apprendimento è delegato alla scuola. Ciò non toglie che esista una forte e viva catena di saperi che passano di generazione in generazione. Penso, per esempio, ai ragazzini peul, i quali all’età di tredici-quattordici anni già conducono una piccola mandria di buoi al pascolo, avendo osservato fin da piccoli il padre. A volte, certi interventi di aiuto allo sviluppo finiscono per istituzionalizzare il sapere, spezzando le catene di trasmissione. Ho visto io stesso, nel Benin settentrionale, centri di formazione istituiti dall’Unione Europea dove si tengono corsi di diciotto mesi per insegnare ai giovani a condurre i buoi. Gli stessi che i ragazzini peul guidano per i pascoli della regione, senza aver mai fatto il corso.
Allovio. I sistemi di trasmissione intergenerazionale sono nella maggior parte dei casi improntati su modelli occidentali che spesso agiscono nel determinare anche le gerarchie e il prestigio nel mondo urbano e nella gestione delle risorse economiche. Tuttavia, esiste in molti contesti un mondo parallelo, quello della ‘tradizione’ (capi tradizionali, operatori rituali ecc.) dove le carriere e la trasmissione del sapere seguono percorsi collaudati da tempo.
Altin. La vecchiaia è l’ultimo passaggio esistenziale verso la morte: come viene rappresentata e vissuta nelle società che avete analizzato e quali sono le differenze più evidenti con la nostra idea occidentale di ‘terza età’?
Aime. I proverbi africani sono una finestra significativa sulla percezione che si ha della vecchiaia. Eccone alcuni: «Gli anziani e Dio non sono compagni, ma sono stati molto tempo assieme»; «La saggezza è come il fungo, cresce solo nella stagione avanzata»; «Le parole di un anziano non cadono mai per terra». Da queste parole si evince la visione impregnata di rispetto che la gente ha nei confronti della vecchiaia. Come ho detto prima, molte cose stanno cambiando, ma nell’immagine africana un anziano è persona degna di rispetto. Ricordo che una sera, in una chiacchierata con gente del villaggio dove soggiornavo in Benin, mi venne chiesto se era vero che da noi gli anziani venivano messi negli ospizi. Dissi che in alcuni casi era vero. Ci fu una discussione accesa, molti scuotevano la testa in segno di disapprovazione, fino a quando un signore si è alzato e indicandomi, a nome dell’intera razza bianca, mi ha detto, indignato: «E voi siete venuti qui a portare la civiltà?».
Allovio. L’uscita dal ciclo produttivo non implica, come spesso accade nella nostra società, una perdita di status o una diminuzione di potere. Tuttavia gli anziani africani sono fortemente consapevoli che la vita della società è vissuta altrove, fuori dalle loro capanne e dai loro cortili. Ancora una volta la manifestazione del prestigio dell’anziano serve a dissimulare i veri rapporti di forza spesso del tutto consapevoli e fortemente esistenziali, come testimonia questo aneddoto: nella società samburu del Kenya, per diventare pienamente uomini adulti occorre seguire un lungo percorso antropo-poietico che ha come tappa cruciale il lungo periodo di moranato (essere giovani guerrieri al servizio del gruppo): solo alla fine si possiede nkanyt, il senso del rispetto, e si può dire di aver concluso la lunga fase di formazione. Nonostante ciò – racconta l’antropologo Spencer – «una volta chiesi a un anziano se potevo fotografarlo, egli replicò: ‘non fotografare me, io sono morto! Va’ e fai una fotografia ai moran’».