VECCHIO NUOVO
Epidemiologia e vecchiaia
di Annibale Biggeri e Dolores Catelan
La ragion d’essere del moderno epidemiologo, cioè di quel particolare ricercatore divenuto popolare dalla fine degli anni Settanta per averci afflitto con sempre nuove notizie sulle conseguenze nefaste delle nostre più piacevoli abitudini (dal fumo allo zampone), sta nella necessità di una coscienza critica riguardo la relazione di causa-effetto in medicina. Un rompiscatole moralista e inconcludente.
Si comincia subito male: epidemiologia della vecchiaia. La vecchiaia non è una malattia ma una condizione fisiologica. Includerla nella sfera delle competenze mediche è un’operazione ideologica. Sottrae una parte della nostra vita e la isola nel contesto artificiale, inumano, della tecnologia medica, degli ambulatori, degli ospedali, delle case di cura.
Non c’è dunque una epidemiologia della vecchiaia come non c’è una epidemiologia dell’infanzia. L’epidemiologia geriatrica studia le cause delle malattie che ci affliggono quando siamo anziani. Ma, come nel secolo scorso si discuteva della questione giovanile e due secoli fa della questione sociale, oggi si discute di quella che possiamo dire la ‘questione senile’.
Lo sviluppo economico e il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione si sono accompagnati, da un lato, ad una riduzione del tasso di fecondità e, dall’altro, ad un allungamento della vita media. Nel periodo 1981-85 in Italia si hanno 7 milioni quattrocentoduemila persone sopra i 65 anni contro i 10 milioni seicentoquarantaseimila del periodo 1997-2001: un aumento di più di tre milioni di persone, pari al 43%.
Fermiamoci a guardare alcune cifre. Usiamo i dati di mortalità dell’ISTAT che sono disponibili dal 1981 al 2001. Tra i 65 e i 74 anni di età il tasso di mortalità era di 29,2 per mille nei primi anni Ottanta contro il 19,4 per mille a cavallo dell’anno Duemila: una straordinaria riduzione della frequenza di malattia e morte, pari al 33%.
Dove sono finiti questi ultra65enni che non sono morti?
Tra le persone con più di 85 anni di età la mortalità era del 199,5 per mille nel periodo 1981-85 mentre risultava del 145,6 per mille nel quinquennio 1997-2001: una diminuzione più contenuta, pari al 27%.
La conseguenza di tale dinamica è la maggior percentuale di persone anziane, e di persone anziane ‘fragili’, che richiedono particolare attenzione sia dal punto di vista medico che di sanità pubblica intesa nel senso più generale del termine. Infatti, il numero assoluto di decessi nelle persone con più di 85 anni di età è aumentato del 46% negli ultimi vent’anni (da 486mila nel quinquennio 1981-85 a 903mila in quello 1997-2001). Se consideriamo che gran parte della spesa sanitaria è consumata nel corso dell’ultimo anno di vita, ne deriva l’urgenza della ‘questione senile’ anche per i conti dello Stato.
L’economia è una gran molla. Ci si chiede: chi sono questi anziani ‘fragili’?
L’ovvia definizione, i ‘non morti prima’, contiene implicito il concetto della sopravvivenza di chi è più resistente alle noxae e agli accidenti della vita, e quindi della presenza nella popolazione di una mescolanza di soggetti con grado diverso di vulnerabilità. Il miglioramento delle condizioni di vita attenua la pressione selettiva permettendo ai soggetti meno resistenti di invecchiare, non sperimentando più una mortalità precoce.
Il concetto di fragilità è mal definito sia nella letteratura italiana che in quella straniera. Numerosi studi identificano le variabili che connotano una persona vulnerabile, definiscono le misure di fragilità dell’anziano e stimano la proporzione dei fragili sulle persone anziane (vedi C. Powell, Frailty: help or hindrance, in «Journal of the Royal Society of Medicine», 1997, e l’editoriale di Morley et al., Something about Frailty, in «Journal of Gerontology», 2002).
Data l’impostazione scientista della nostra cultura stiamo pian piano corrodendo la naturalità dell’invecchiare conquistando spazi alla prevenzione in senso medico, alla diagnosi, alle terapie profilattiche e alle nuove patologie (dalla ipercolesterolemia alla sarcopenia). Secondo alcuni studi il 7% degli anziani è fragile e il 50% delle persone tra gli 80 e gli 82 anni è affetto da sarcopenia. Bandeen-Roche et al. (Phenotype of Frailty: Characterization in the Women’s Health and Aging Studies, in «Journal of Gerontology», 2006) hanno definito operativamente la fragilità come una sindrome medica, una precisa configurazione di segni e sintomi, e nel loro studio hanno stimato che circa l’11% delle donne americane tra i 70 e i 79 anni di età ne siano affette.
Se oggi in Italia ci sono circa dieci milioni di anziani (cioè sopra i 65 anni di età), allora abbiamo un mercato di dimensioni comprese tra circa settecentomila e un milione e mezzo di anziani fragili.
Ma gli anziani non si dividono in fragili e robusti. L’Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali ha cercato di meglio quantificare l’area della non autosufficienza medio-grave e grave a partire dai dati ISTAT ed è giunta ad una stima pari a circa il 10,9% della popolazione anziana. Siamo quindi a poco più di un milione. Qui, ai fragili, vanno in parte aggiunti coloro che sono connotati da un certo grado di disabilità sociale e di non autosufficienza. Molto più alta la stima che si ottiene dall’indagine Multiscopo ISTAT 1999-2000: a mano a mano che si invecchia, cresce il tasso di disabilità che passa dal 19,6% negli ultra65enni al 33,4% negli ultra75enni e arriva al 47,5% tra gli ultra80enni.
Ma non si muore con la stessa frequenza tra gli anziani del nostro paese: ci sono differenziali importanti tutti a svantaggio delle regioni meridionali, in particolare della Campania principalmente per effetto di una sovramortalità precoce. Vi sono alcune eccezioni: la bassa mortalità in Abruzzo e Molise e, al nord, la più alta mortalità in Piemonte e Liguria. Anche le stime relative al tasso di disabilità tra gli anziani evidenziano uno svantaggio delle regioni meridionali: 24% per il Sud, 18% per il Centro e 16% per il Nord-Ovest e il Nord-Est.
Vi sono pertanto nel nostro paese importanti differenze di bisogno.
I costi da sostenere dipendono invece dal numero assoluto, vuoi di decessi che di anziani.
Confrontando le sopravvivenze da 65 a oltre 85 anni e il costo in unità di persone o malati per regione tra gli anni 1997-2001, si nota come a parità di sopravvivenza vi è un larghissimo spettro di costi – com’è giusto che sia per la differente dimensione demografica della popolazione – tra Valle d’Aosta, Molise e Basilicata da un lato, e Lombardia dall’altro (si va da meno di cinquantamila a più di duecentocinquantamila unità). Ciò che sorprende è che a parità di unità si hanno variazioni molto alte nella sopravvivenza, con minimi in Campania e Sicilia, valori intermedi in Toscana e Lazio, e valori alti in Veneto ed Emilia. E la percentuale di anziani spiega solo parzialmente queste differenze, passando da più del 20% in Toscana ed Emilia, a valori del 16% in Veneto e del 13% in Campania.
Nel finanziamento delle Regioni per la spesa sanitaria la ‘questione senile’ entra solo come quota capitaria, cioè come numero di anziani presenti. Non fa molta differenza considerare anche i decessi o la percentuale di fragili, data la forte correlazione esistente. La Lombardia stacca nettamente le altre regioni pur avendo una percentuale di anziani più bassa di quella delle regioni del Centro. Ciò che sorprende è la differenza del tasso di mortalità, particolarmente tra i più anziani. Cosa si nasconde dietro questa maggior forza di mortalità? Differenziali sociali, isolamento (l’impoverimento delle regioni montane delle alpi piemontesi, deprivazione materiale al Sud e supporto sociale nelle città medio-piccole dell’Emilia e del Veneto), l’arrivo recente di coorti di più fragili (nelle aree meridionali, dove si è registrato un incremento della sopravvivenza, diversamente dalla Lombardia)?
E non dovremmo tenerne conto nella redistribuzione delle risorse sociali e sanitarie alle Regioni?
È interessante notare che secondo stime della Regione Emilia il numero di anziani disabili che non beneficia di servizi è compreso tra i settecentomila e il milione: una minor copertura da imputare presumibilmente alle regioni del Sud.
La vecchiaia entra quindi di buon diritto nei temi di politica assistenziale, laddove si pone la questione del supporto sociale e sanitario all’anziano. Sottolineiamo sociale, oltre che sanitario. Forse qui si deve recuperare il senso più ampio dell’esperienza umana, sfuggendo la scorciatoia, economicamente redditizia, della medicalizzazione e privatizzazione del problema, che passa attraverso la sindrome della fragilità dell’anziano, e ponendo l’attenzione sulle condizioni di disuguaglianza sociale e di salute così evidenti nel nostro paese.