VECCHIO NUOVO
Età biologica ed età cartacea. La vecchiaia nel fumetto
di Davide Barzi e Gianni Bono
Il mito non invecchia. L’eroe non invecchia. L’eroe dei fumetti men che meno. Figlio e schiavo della reiterazione e della serialità, nasce più o meno a trent’anni (o magari adolescente, per scelta diversa di target) e lì rimane a vita, riproponendo se stesso ipoteticamente per sempre. Se è vecchio, di solito, è perché nasce vecchio. Se invecchia, è perché si avvicina alla fine, non nel senso fintamente biologico del termine della sua vita fittizia, bensì in quello ben più reale dell’ultimo anelito dell’esistenza editoriale. Oppure, semplicemente, invecchia per avere modo di riflettere su se stesso e sulla sua carriera. E poi, a meno che non si tratti di una storia fuori continuità e fine a se stessa, appunto finire.
A memoria d’uomo, o più prosaicamente a memoria di lettore di fumetti, non c’è un titolare di testata che abbia più di settant’anni. I comprimari si sprecano, già a partire dai primi decenni di storia della narrazione per immagini. Nella serie The Katzenjammers Kids (da noi Bibì e Bibò) di Rudolph Dirks, datata 1897, uno dei personaggi di contorno più ricorrenti è l’anziano e barbuto Captain (Capitan Cocoricò), lupo di mare ormai in pensione ma che non per questo rinuncia a indossare la sua divisa. Siccome il fumetto popolare vive non di rado di alcune semplificazioni, anche – se non soprattutto – iconiche, dei concetti (che purtroppo hanno valso all’aggettivo ‘fumettistico’ una connotazione negativa e banalizzante), è interessante notare che le persone di una certa età portano non di rado una lunga barba bianca. Questo perché alla terza età è spesso associata anche la saggezza e il rispetto del resto della comunità. L’esempio più chiaro in tal senso è il Grande Puffo: ideato nel 1958 da Peyo, non solo ha un pelame albino sul volto, ma addirittura vestiti di colore diverso dal resto degli abitanti del villaggio. È invece un’invenzione di qualche anno dopo, e relativa ai soli cartoni animati, Nonno Puffo, anziano giramondo che torna al villaggio dopo cinquecento anni. Il fatto che il personaggio sia ancora più in età del suo omologo vestito di rosso è reso evidente da un escamotage grafico che ne accentua il carattere iconico peculiare: una barba decisamente più lunga di quella del capo villaggio.
Barba lunghissima e arte del comando sono invece una prerogativa del Numero Uno, «Il capo della banda / è quello che comanda / il gruppo TNT», come spiega la sigla del cartone animato composta da Franco Godi. Apparso per la prima volta nel numero 11 della collana a fumetti Alan Ford (1970), sembra inizialmente un raro esempio di rappresentazione purtroppo verosimile di coacervo delle patologie che colgono l’essere umano dopo una certa età. Apparentemente infermo e demente, il personaggio si rivela ben presto per quel che è: non deambula se non con una sedia a rotelle, è vero, eppure è talmente padrone del suo mezzo di locomozione da apparire dinamico come e più dei suoi sottoposti su due gambe. Il morbo di Alzheimer, invece, è una copertura per celare la sua sapienza e furbizia, per un’età mentale inversamente proporzionale ai centimetri di barba che arrivano fin quasi a toccare terra. Insomma, è uno di quei personaggi che di vecchio hanno solo il carapace, mentre lo spirito battagliero e baldanzoso è quello di un ventenne. Un po’ come Nonna Abelarda, ideata nel 1955 da Giulio Chierchini e Giovan Battista Carpi. Negli anni Sessanta la nonna del piccolo Soldino acquista una tale popolarità che per traslato il suo nome diventa sinonimo di vecchietta tenace e arzilla.
Passando invece in rassegna i personaggi abitualmente noti per la loro giovanile vigoria, analizzando le storie che ne ipotizzano un futuro prossimo alla fine, risulta davvero emblematico il trattamento riservato alla figura del super eroe. Il più importante e celebre esempio di character invecchiato è il Batman rappresentato da Frank Miller nella saga Il ritorno del cavaliere oscuro. Qui Bruce Wayne è ormai un sessantenne dal fisico in parziale decadimento e dallo spirito disilluso dalle tante battaglie e dalla degenerazione sociale che vede attorno a sé. Prigioniero di un mondo che non riconosce e non gli appartiene più, si è ormai ritirato a vita privata. Alcuni eventi, però, lo portano a indossare di nuovo il suo costume. In questo caso l’anziano diventa ancora una volta lampante esempio per le nuove generazioni, con schiere di ragazzi pronti a seguire l’uomo pipistrello nella sua battaglia. In questo senso – per quanto possa suonare blasfemo a un lettore di comics americani –, nel Grande Pipistrello si può notare qualche punto di contatto con il carisma e la naturale leadership del Grande Puffo.
Ancora più amaro il ciclo di storie ideato dalla Marvel Comics sotto il titolo «The end». Si tratta di albi o cicli di albi in cui diversi autori raccontano ‘l’ultima storia’ dei personaggi più noti della casa editrice. Ci si trova quindi al cospetto di un Wolverine vecchio, debole e disilluso, opera di Paul Jenkins e del nostro Claudio Castellini. O di un Punitore sbattuto violentemente contro la sua stessa morte dagli iconoclasti Garth Ennis e Richard Corben. La disperazione per l’inevitabile fine, nonché il dualismo a suo modo risolto con Bruce Banner, sono i temi portanti della storia che vede protagonista l’incredibile Hulk, nelle abili mani di Peter David e Dale Keown. E l’elenco potrebbe continuare a lungo, pensando ad esempio a un’opera corale della DC Comics come Kingdom Come, in cui lo stupefacente stile pittorico di Alex Ross ci restituisce Superman, Wonder Woman e il resto dei personaggi storici dell’editore mentre fanno i conti con i capelli bianchi e una carriera e un modus operandi che non possono più essere gli stessi di un tempo.
Insomma, volendo cercare un filo conduttore in questa iperproduzione di storie con personaggi che hanno più passato che futuro, è lecito pensare che siano lo specchio di una società che fatica a trovare degli eroi, che forse negli eroi crede un po’ meno. Addirittura è lecito supporre che attraverso la catarsi scritta e disegnata si cerchi di pulirsi la coscienza mostrando che da vecchi si può ancora essere eroi, fondamentali, o almeno importanti, quando invece troppo spesso nella realtà al di fuori della pagina disegnata l’anziano è considerato solo un gravoso peso. O forse, in maniera meno cosciente ma ancora più amara e disincantata, il messaggio è metatestuale. Forse il fumetto riflette solo su se stesso, sul suo essere uno dei media più giovani e forse quello che è invecchiato più rapidamente. Come un ostinato ottantenne che disconosce ciò che lo circonda, il fumetto ancora fatica a scendere a patti con mezzi di intrattenimento maggiormente interattivi. E si vede gradualmente abbandonato a se stesso. Qualcuno ancora lo va a trovare e passa con lui ore felici, ma il fumetto, ancora lucido, non può non vedere che queste persone sono meno di un tempo, e che la loro età media aumenta. è questa la sfida che il fumetto fa a se stesso nel nuovo millennio: dimostrare che non è diventato una placida icona da rispettare, ma che può ancora stupire. Che non è il Punitore che va incontro alla morte, ma Batman che sa ancora attirare a sé folle di giovani entusiasti.