VECCHIO NUOVO

Nella storia della biosfera ci sono stati episodi di estinzione in cui sono scomparse molte specie viventi. Non è facile capire se questi eventi avvennero per cause esterne o interne alla dinamica stessa della biosfera. È infatti difficilissimo dire quale sia questa dinamica, non è certo una cosa semplice come il funzionamento di una macchina (un grattacielo, un aeroplano…) che si rompe e si può scoprire se il fatto è dovuto all’arrivo di un fulmine o se c’è stato un cedimento strutturale per errore di progetto o per mancata manutenzione.

Nella storia dell’uomo ci sono stati episodi di estinzione di popolazioni, totali o parziali. Totale è il caso degli abitanti dell’Isola di Pasqua, nell’Oceano Pacifico. L’isola era abitata, poi non più. Ci fu un virus malefico? Ci furono errori mortali auto-indotti per cui quella società distrusse il proprio ecosistema isolato? L’essere isolato escluse la fuga o l’arrivo di altri individui, e allo stesso tempo non permise il recupero dell’ecosistema stesso, quindi il fatto si capisce, anche se le cause restano misteriose. In altri casi certe strutture di vita sociale si sono degradate fino al punto di trasformarsi in poveri gruppi immemori del passato, non più portatori delle caratteristiche che si consideravano proprie del gruppo stesso e tali da individuarlo. Sono discorsi molto difficili… Includiamo gli abitanti di vallate un tempo fiorenti e poi abbandonate? Includiamo le aristocrazie che persero la loro individualità e i cui eredi sono ora sconosciuti? Sembra sensato pensare che la continuazione di una società sia in parte legata alla sua capacità di modificarsi con miscelazioni genetiche buone, cioè con scelte portatrici di creatività. Ma la miscela può facilmente andare anche nel senso cattivo, portare deficienza. Ci sono motivi fondamentali per credere che l’ingegneria genetica sappia fare le ‘scelte buone’?

Forse nella storia dell’uomo il sistema più studiato è quello dell’impero romano, e per il buon motivo che non ci fu estinzione. È rimasto tutto intelligibile il percorso dell’antica Roma, nell’arte, nella filosofia, e addirittura nelle leggi in parte ancora vigenti; tanto che sembra molto più appropriato raccontare non la fine dell’impero ma la sua transizione verso ciò che è il nostro presente. Quella che è decaduta e scomparsa è la struttura del potere, quella che ha continuato a procedere è la vita del pensiero. In questa transizione la miscelazione con il seme cristiano è stata, per così dire, una delle iniezioni della transizione genetica. Il rinascimento è la ricomparsa di pensieri che evidentemente erano rimasti vitali e preservati durante il medioevo.

Questi richiami possono servire a dare uno scenario in cui posizionare la decadenza dell’impero americano. Sessant’ anni dal 1945 sono l’ordine di grandezza della distanza fra Augusto e Nerone. Il tempo di Trimalcione sembra essere tornato fra noi. Si potrebbe continuare con le analogie, ma è più interessante vedere a che punto compaiono le novità essenziali. La tecnologia è la principale di queste, soprattutto il potere militare che è passato dai legionari alle bombe atomiche. Il rapporto fra guerra e costo della guerra è diverso. Si accetta la guerra perenne con armi classiche perché non è possibile portare il conflitto oltre il punto cruciale e definitivo della guerra nucleare. Quindi si marcia verso il degrado con la nostalgia dell’impero, quello romano che studiamo nei libri, quello americano che viviamo nella realtà. Si ha nostalgia delle caratteristiche della vita sociale che portarono alla coesione dello stato, a quelle virtù che cominciano a scomparire appena l’impero viene costituito. Si formarono leggi illuminate, e poi articolazioni del pensiero capaci di vedere lontano, articolazioni della vita sociale capaci di affrontare problemi vasti. Quando la struttura del potere imperiale romano incominciò a decadere tutti i cervelli pensanti si occuparono di preservare le virtù che c’erano, e che tale decadenza metteva in pericolo. È proprio quello che accade ora con la decadenza della struttura del potere imperiale americano, e la nostalgia dei valori che ci furono.

È proprio vero che è necessario l’impero per pensare in grande? Pare che non sia vero. Dal 1900 al 1939 in Europa matura la decadenza dei sistemi monarchici e la breve presenza delle due dittature con pretesa imperiale, la tedesca e l’italiana. Tali imperi crollarono per strategie totalmente sbagliate. Ma fra il 1900 e il 1939 la fisica europea funzionava alla grande; nascono la meccanica quantistica e la relatività, di lì la sintesi fra elettromagnetismo e struttura della materia nel dominio atomico e nucleare; si apre la strada all’astrofisica. È forse merito degli imperi citati? Certamente no, basta dire che buona parte della fisica europea fu indotta a emigrare in America. La fisica in America fiorisce, i grandi europei seminano molto bene nel terreno americano, appare un rinascimento scientifico che fa tuttora impressione. Ora però gli spiriti più creativi nella scienza vedono decrescere sul suolo americano le condizioni di libertà e rispetto di prima, una nuova intolleranza imperiale fa disgiungere pensiero e potere. Sembra essere una malattia dei progetti imperiali fondati sulla tecnologia e non su leggi umane illuminate.

Un individuo morendo porta nella tomba i propri errori, le proprie inadeguatezze. Lascia spazio a nuovi individui che a loro volta saranno forse continuatori di errori ma talora emergeranno con rinnovata creatività. La natura è fatta così, l’uomo non è né macchina né puro spirito. È membro della rete delle specie viventi, che si rinnova perennemente per vie che sono complesse, anzi, infinitamente complesse. L’individuo-corporazione multinazionale non muore e non si rigenera perché è un individuo finto; la sua giustificazione è un progetto tecnologico, portatore di potere ma non di intelligenza, anzi caratterizzato da zero qualità di complessità.

Al momento presente la transizione al non-fossile è nelle mani dell’aristocrazia delle corporazioni, che possiede gli strumenti di monitoraggio del clima e delle risorse planetarie. Ma non possiede il monitoraggio della risorsa più importante di tutte: l’intelligenza umana.

È intelligente fondare un progetto qualsiasi su una risorsa finita? Certo che no. Non c’è il minimo dubbio che chi fa tale progetto vuole imporlo, non condividerlo. I pionieri industriali dell’Ottocento che basavano la loro ricchezza sulla risorsa carbone, sapevano benissimo che stavano sfruttando un’occasione fortunata e transiente, tanto è vero che coi loro inaspettati guadagni compravano terre vergini, consci che è la natura la risorsa perenne.

Oggi i progetti riguardanti l’energia solare sono descritti come operazioni grandiose e controllabili centralmente: maxiprogetti di estrazione di energia fotovoltaica, fototermica, eolica, idroelettrica. Poi maxiprogetti per impadronirsi del motore di Calvin, il motore che fa crescere la vegetazione. Il metodo è fondamentalmente banale: impadronirsi dei brevetti genetici e trasformare direttamente la fotosintesi in denaro. È inoltre alle porte anche la strategia del brevetto per i flussi inorganici. Brevettare la brezza di mare, lo spettro di Planck delle cinque della sera, insomma rendere gradualmente le risorse di flusso proprietà privata.

Il problema vero è se il futuro debba appartenere all’uomo o alla corporazione. Il dilemma è importantissimo, perché la specie umana è formata da individui-uomini e gli individui-corporazione, invece, non costituiscono specie. L’osservazione consolatrice è che la comparsa delle corporazioni come creature tecnologiche che si candidano al possesso delle risorse naturali è un fatto recentissimo, un istante nella scala del tempo storico. Ci sono dunque speranze non nulle che tali creature si estinguano come avvenne nel passato con gli animali troppo grossi.

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