VECCHIO NUOVO
Realismo
di Laura Boella
«Un vecchio tagliava la legna, se l’era caricata sulle spalle e aveva cominciato a camminare per un lungo tratto. La strada lo aveva stancato. Si tolse allora il carico dalle spalle e chiamò la morte. Che apparve presto e gli chiese perché lo avesse chiamato. Il vecchio rispose: ‘Perché tu mi aiuti a rimettere sulle spalle di nuovo il mio carico’».
Esopo, Il vecchio e la morte
«Temette pertanto Elia e levatosi se ne andò dove volle e giunse in Bersabee di Giuda, dove lasciò il suo servo. Egli s’inoltrò poi nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro e desiderò di morire, dicendo: ‘Basta, o Signore: prendi l’anima mia; poiché io non sono migliore dei padri miei’. Poi si sdraiò e dormì all’ombra del ginepro. Ed ecco l’angelo del Signore toccarlo e dirgli: ‘Levati e mangia’. Guardò e vide presso il suo capo un pane cotto sotto la cenere e un vaso d’acqua. Mangiò allora e bevve e di nuovo si addormentò. Per la seconda volta tornò l’angelo del Signore a toccarlo e dirgli: ‘Levati e mangia, poiché ti resta una strada lunga da fare’. Essendosi allora levato, mangiò e bevve e fortificato da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, Oreb».
Primo Libro dei Re, 19
Dunque, due testi che vengono dalle lontananze del tempo parlano di vecchi che si sentono stanchi e chiedono di morire. Credono alla morte, a differenza dei vecchi nostri contemporanei che – come scrive Jeanne Hersch – «dal momento che sono riusciti a vivere così a lungo, che hanno saputo tenere la morte a distanza, sembrano convinti che, se la morte sopraggiungesse, sarebbe una specie di scandalo, e allora semplicemente non vi credono». È prova di realismo credere alla morte e invocarla quando si è stanchi: realismo contraccambiato, in Esopo, dall’angelo della morte che si informa puntigliosamente sul perché della chiamata e riceve l’invito, altrettanto pragmatico, ad aiutare il vecchio a rimettere il carico sulle spalle, e contraccambiato, nel Libro dei Re, da un altro angelo che fornisce il cibo e invita a mangiare e a proseguire il cammino.
La favola greca ci dice forse che gli uomini amano la vita anche quando tutto gli va male? L’Antico Testamento ci racconta la storia di una vita che diventa destino guidato dall’alto e riscatta così la sua fragilità? Interpretazioni legittime, che tengono tuttavia nascosto il nocciolo, l’enigma di quel realismo che oggi tanto sfugge alla nostra cognizione di che cosa significhi non tanto l’essere vecchi (da un punto di vista neuro-fisiologico, economico, sociale), quanto piuttosto il sentirsi vecchi.
C’è infatti una zona di silenzio, di vuoto, un tempo/non tempo nelle due scene di vecchi che si sentono stanchi, probabilmente colpevoli di non riuscire a portare a termine un compito, o, più semplicemente, la vita. Tale sentimento di colpevolezza è probabilmente il simbolo più vero della finitezza umana.
Nella favola di Esopo è il tempo che passa tra la chiamata della morte e l’arrivo di quest’ultima; nel Libro dei Re è il sonno insistito all’ombra del ginepro. In questa zona di silenzio non accade nulla: forse il vecchio getta ancora uno sguardo sul mondo; in ogni caso – come suggerisce Hans Blumenberg in Pensosità – indugia, esita, è colto da un attimo di perplessità, perde tempo e insieme prende tempo, non fa niente e di sicuro non pensa a niente, eppure medita, sta nella lacuna che si è creata tra la sua vita e la sua morte.
Elia dorme sotto il ginepro, forse sogna, in ogni caso riposa dopo aver «spiegato tutto il suo zelo per il Dio degli eserciti» e in verità si prepara a rispondere al tremendum della domanda che gli verrà rivolta: «Che cosa fai qui, Elia?».
Che cosa accade quando non accade nulla? È la domanda che in ogni piccola situazione di vita il vecchio – mai come oggi messo ai margini degli usi e costumi, del linguaggio e del modo di agire e pensare del suo tempo – dovrebbe rivolgersi. Accade che si intensifichi la propria presenza al presente, per usare un’altra espressione di Jeanne Hersch, rovesciando il senso comune dell’essere presenti in quanto protagonisti della produzione e trasformazione degli eventi. Il vecchio stanco che infine chiede alla morte di aiutarlo a rimettersi il carico sulle spalle non chiede in realtà una dilazione, un rinvio: li ha già avuti, in quella pausa del tempo da cui è riemerso per immergersi interamente dentro il suo presente, sia pure il presente di un uomo ormai vicino alla morte. Elia, svegliato dall’angelo che lo invita a mangiare, continuerà senza più esitazioni il suo cammino, quasi lasciandosi alle spalle i simboli tremendi del gran vento, del terremoto, del fuoco, ormai capace di riconoscere la domanda del suo Dio nel ‘sussurro di un’aura leggera’.
Maria Zambrano, un’altra grande pensatrice del Novecento, ripubblicò in tarda età molte sue opere, scritte nei tempi oscuri dell’esilio, premettendo delle note o avvertenze il cui succo era: ‘ci sono’, ‘sono ancora qui’, ‘qui ora’. Maria Zambrano aveva quasi novant’anni quando attestava in questo modo la sua presenza al presente e lo faceva con esplicito riferimento alla nuova generazione di spagnoli che non aveva vissuto la guerra civile, il franchismo, la seconda guerra mondiale. Testimone di un’epoca passata che la Spagna contemporanea stava liquidando troppo velocemente, Maria Zambrano si assumeva la responsabilità del suo essere ancora viva e di conseguenza sentiva il dovere di parlare, di scrivere, di raccontare e mettere in prospettiva le esperienze che aveva vissuto in un’epoca precedente. L’esilio (era rientrata in Spagna nel 1984, dopo quasi quarant’anni) era stato per lei la grande, immensa zona di silenzio (silenzio della scrittura e del pensiero, come dimostrano le cesure temporali interne ad alcuni suoi libri) da cui era tornata ormai vecchia: sentendosi tale, rispondeva a ciò che era il presente nuovo della Spagna, non barando con il tempo, ma prendendolo sul serio.
A qualcosa di simile mi fa pensare il concitato ‘affrettati’ di Norberto Bobbio, rivolto ai vecchi che sono tanto stanchi da non avere più voglia di ricordare il passato. Bobbio li invitava, e invitava se stesso, ad affrettarsi a risuscitare la loro memoria, a scrivere di quello che hanno vissuto, a quel mirabile atto di libertà che è dare intensità all’esserci qui e ora dalla distanza di chi ha tanto vissuto.