VECCHIO NUOVO

1999, Venezia, Italia: una vecchia berlina Rover degli anni Sessanta discende la rampa del parcheggio del Tronchetto, circondata da vetture fantascientifiche, e affronta prima il ponte della libertà, poi il viaggio verso Parigi; all’interno si sente la voce, rassicurante, di un navigatore satellitare impiantato nel cruscotto che ne consiglia la direzione, nuovo orpello moderno, innestato su una struttura vecchia; così inizia Until the end of the world di Wim Wenders. Auto vecchie e nuove, insieme, per le strade di Parigi, Berlino, Tokyo, veicoli futuribili e segni del passato, città che appaiono le stesse che conosciamo, salvo improvvisi inserimenti moderni. Il film, girato nel 1991, narra di un futuro apocalittico presentando un mondo in cui il vecchio e il nuovo convivono reinterpretati o, più semplicemente, coesistono in parallelo, pur se modificati entrambi.

Ed è proprio ciò che, in parte, sta accadendo nel car design degli ultimi anni: riproposizione di riferimenti del passato, reinterpretazioni, richiamo alla tradizione del marchio, se non vere e proprie ri-edizioni; si tratta di un’involuzione del design automobilistico, tradizionalmente tra i più innovativi settori del disegno industriale. Verrebbe da dire, parafrasando, che la spinta propulsiva che l’oggetto auto ha avuto nel corso del secolo scorso – spinta che non era solo industriale ma anche di guida e di riferimento per altri settori del design – si sia affievolita e ripiegata su se stessa. Le cause sono diverse, ma una in particolare: le strategie di mercato hanno apertamente invaso il campo del car design condizionandone ed indirizzando scelte ed indirizzi.

Il nuovo, forse, non rappresenta più un valore e se osserviamo, tra le altre, la Mini, il New Beetle, l’Alfa Romeo 8C Competizione o la oramai prossima nuova Fiat 500, ci si rende conto di come il vecchio e il nuovo si fondano, di come la commistione sia sempre più stretta, il confine difficilmente tracciabile. Case automobilistiche che avevano quale segno di distinzione la capacità di innovare i prodotti – ad esempio Audi, Citroen o, anche se in tempi più lontani, Lancia – si ritrovano, negli ultimi anni, a inserire nelle vetture forme ed elementi che possiamo considerare classici, con frontali sempre più imponenti, in una rincorsa al presunto prestigio che passa attraverso interni in radica, vera o fittizia, piuttosto che in una ricerca del nuovo a livello formale o funzionale, come era tradizione per quei marchi.

L’innovazione di prodotto nel car design è ferma all’accessorio interno, al dispositivo di sicurezza attivo o passivo o, peggio, a serie limitate e limitanti, non all’essenza dell’oggetto: ci si concentra sull’interno, sui tessuti, sull’elettronica, un’introspezione per riuscire a rendere l’auto ancora appetibile, oppure se ne aumentano le dimensioni a dismisura. Ecco che un involucro esterno quale quello del New Beetle o della Mini rappresenta un linguaggio acquisito, la riproposizione di elementi formali senza rischio strategico o industriale. Si può riscontrare, probabilmente, per questi veicoli, una memoria collettiva data dall’acquisizione delle forme dovuta all’enorme diffusione del modello originale di riferimento, unitamente all’uso di elementi già entrati nella percezione di massa; in taluni casi una sorta di riappropriazione da parte delle case costruttrici della propria storia interna, in altri casi – qualora all’interno del marchio non vi siano riferimenti sufficienti – della storia dell’auto in generale.

Di fatto siamo di fronte a oggetti di disegno industriale non compiuto, di pura strategia di marketing. «Il car designer – ha affermato Nuccio Bertone – è un creativo per eccellenza. […] Sa immaginare, nel suo lavoro, il prodotto che ancora non esiste. Risponde in anticipo a tendenze del gusto del mercato che forse ancora non emergono ufficialmente, ma che bisogna intuire. Intravede prima di altri ciò che nessun istituto di ricerca potrà mai garantire».

Se le decisioni e gli indirizzi appartengono agli istituti di ricerca e al marketing avremo, infine, auto tutte uguali, senza fascino. Le vetture importanti per la storia dell’auto, invece, quelle che più hanno affascinato il pubblico, sono state disegnate da un singolo designer, sono frutto dell’idea di una persona e del suo bagaglio culturale.

Un fatto su cui ci si sofferma poco può essere interessante per valutare il motivo per cui l’automotive design sta cambiando: fattori quali l’aumento del traffico, la miopia e il ritardo dei costruttori ad affrontare i problemi legati all’inquinamento, la non introduzione di modifiche strutturali alle vetture, la perdita del piacere del viaggiare in auto, stanno influenzando la percezione dell’oggetto; non è più, in buona misura, un acquisto passionale, si è persa una parte del sogno legato all’automobile che sta diventando solo ed esclusivamente un mezzo di trasporto e tutto ciò avrà, in misura sempre maggiore, un ritorno economico negativo sull’intero settore.

Il car design ha vissuto un periodo in cui la direzione era chiaramente orientata verso il futuro, verso il nuovo: tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta, complice anche la crisi energetica, le concept car presentate ai saloni, soprattutto dai carrozzieri italiani, avevano innovato l’oggetto auto e rappresentavano un vero salto in avanti; le dream car di quegli anni costituivano una frattura con la normale produzione di serie, e non tanto a livello estetico, quanto, e in misura maggiore, a livello strutturale, proponendo nuove architetture di veicoli, oggetti che il pubblico immaginava quale anticipazione delle vetture del futuro. Ora, invece, vi è una carenza di gestione delle forme, per cui ci si affida al passato poiché non si ha il coraggio di affrontare nuove strade, nuovi percorsi.

L’automotive design, il design dell’oggetto in movimento per eccellenza, il design dell’oggetto che tutti continuiamo ad osservare mentre ci passa davanti, girando la testa, perché cambia la luce, cambiano i riflessi sulla carrozzeria e perché quei riflessi ci affascinano ancora, è fermo.

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