VUOTO

Nel 1944, pubblicando La grande trasformazione, Karl Polanyi descrive come lo sviluppo dell’economia di mercato, oramai assurta a unica forma di economia, avesse svuotato il tessuto sociale e culturale snaturando le relazioni di produzione e di scambio così come erano conosciute prima della rivoluzione industriale. Si è trattato di un processo di lungo periodo, il cui inizio si può far risalire a metà del Seicento, quando da una parte crescevano le esigenze di una comunità la cui visione del mondo era quella che potremmo far arrivare fino agli inizi del Novecento e, dall’altra, si affacciava un nuovo scenario che avrebbe poi portato all’affermarsi del liberismo. Molti di noi ricordano la mentalità dei propri nonni il cui scopo principale era quello di trasformare il valore d’uso in valore di scambio e i beni comuni in capitale, con l’attenzione a mantenere un rapporto con la natura sempre rispettoso ed ecologico. Era una mentalità figlia di un tempo in cui, rispetto a tutti gli altri esseri viventi, l’uomo si sentiva solo una piccola parte del mondo. Da un certo momento in poi, si è fatta invece strada l’idea che al centro di tutto c’è l’uomo e non più Dio e il Creato. Dal teocentrismo si passava all’antropocentrismo. A questo delirio di onnipotenza, la scienza non si è sottratta, rendendosi storicamente complice di un processo inarrestabile di pretesa modernizzazione che ci ha portato proprio a quello che chiamiamo l’antropocene, l’era ‘umana’ che stiamo oggi vivendo. Siamo alla bancarotta intellettuale, nel senso che ne è coinvolta tutta la scienza, da quella cosiddetta dura alle scienze umane e sociali, giuristi ed economisti compresi. Fra diecimila anni, se ci sarà ancora qualcuno che farà queste ricerche, troverà vari strati geologici e tra questi uno, quello dell’antropocene, probabilmente spesso un metro, un metro e mezzo, pieno di sprechi, scorie, scarti e soprattutto di plastica. È il prodotto della civiltà capitalista, ma non è quello che avevano in mente i nostri nonni quando si proponevano di trasformare i beni comuni in capitale. Per capire la portata di questo loro proposito, possiamo ritornare al periodo sopra indicato, a metà del Seicento, quando le condizioni sociali, descritte molto bene da Thomas Hobbes, erano quelle di una vita corta, cattiva e brutale. Serviva accumulare un po’ di capitale per fare quelle cose che col capitale è giusto fare, per esempio costruire ospedali, biblioteche, università. Il grande disegno della modernità è stato quello di creare delle istituzioni perché ciò diventasse possibile. In questo, il diritto ha avuto un ruolo importantissimo e, proprio nel periodo che stiamo evocando (diciassettesimo, diciottesimo secolo), ha contribuito a realizzare mutamenti assolutamente radicali, alcuni dei quali avrebbero finito per condizionare proprio quelle relazioni produttive e mercantili di cui parlava Polany e che sono tutt’ora sotto gli occhi di tutti. In quel periodo le istituzioni giuridiche inauguravano un nuovo ordinamento che, sostanzialmente, incentivava l’individuo a diversificarsi dal gruppo, familiare o sociale che fosse. L’individuo doveva uscire dalla dimensione della comunità, prendersi dei rischi e diventare imprenditore di se stesso. È in questo periodo che nasce la proprietà privata così come la intendiamo oggi e cioè la sovranità della volontà che si esprime nel fatto che un soggetto possa avere un potere semiassoluto su un oggetto che, detto in termini spicci, suona così: «quella roba là è mia». Un’esperienza concreta in cui spesso ci imbattiamo può servirci da esempio. Capita di incontrare un Suv, in sosta, motore acceso e aria condizionata a mille, con uno dei due genitori che aspetta i figli all’uscita di scuola. Se mi azzardassi ad avvicinarmi e invitassi a spegnere il motore, sarei guardato come un intruso, come qualcuno che sta invadendo una sfera sacra e individuale e, per tutta risposta, mi sentirei dire che, in quanto proprietario, è suo diritto soggettivo e assoluto tenere acceso il motore. È la proprietà privata: l’individuo è al centro, sovrano, fa quello che vuole ed è suo diritto farlo. Questi diritti si possono limitare soltanto con delle eccezioni esterne rispetto al diritto stesso. «C’è scritto spegni il motore?», se non lo trova scritto da qualche parte e visto che è sufficientemente ricco per potersi comprare benzina a iosa, potrà sprecarne quanta ne vuole.

Oltre alla proprietà privata, a quel periodo risalgono anche altre categorie del diritto come il contratto, la responsabilità civile per colpa e la responsabilità limitata delle società per azioni.

L’istituto del contratto nasce come la grande prerogativa dell’autonomia privata per cui io, sulla base di un semplice consenso, se sono proprietario di un bene posso anche trasferirlo a qualcun altro. Gli economisti, oggi, con le loro formule, utilizzano il contratto come il modo migliore per trasferire un bene da chi lo valuta di meno a chi lo valuta di più, generando una crescita collettiva che dovrà sempre fare i conti con il fatto che, come ci ha insegnato Vilfredo Pareto, è possibile solo fino a un certo punto accrescere il benessere di qualcuno senza ridurre quello di qualcun altro.

Il concetto di responsabilità civile per colpa funziona invece così: io pago i danni che ho provocato, ma soltanto se li ho causati con un’attività considerata irragionevole e, se le mie azioni avranno conseguenze negative – anche drammatiche – non ne sarò responsabile se non sono in questo senso in colpa. Quando la piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, affiliata alla British Petroleum, sbagliando perforazione distrusse l’ecosistema del Golfo del Messico, pagò solo in piccola parte le disastrose ricadute ambientali che ne seguirono. In questi casi, infatti, va sempre accertato se ci sia stata o meno negligenza e va altresì verificato se effettivamente le condizioni meritassero maggiore prudenza.

L’altra grande istituzione, infine, è quella della responsabilità limitata delle società per azioni. Nel Seicento, la Compagnia delle Indie orientali, la East India Company, la prima grande corporation internazionale, era lo strumento con cui la borghesia olandese investiva i suoi soldi. Se le cose andavano bene c’era un ritorno molto alto, se andavano male, a rischio c’era solo l’investimento. Si saccheggiavano le Indie per sviluppare il capitalismo europeo. Nel frattempo, sullo sfondo di questi rivolgimenti, si forma la sovranità dello Stato: lo Stato assoluto diventa talmente potente da essere onnipotente, imponendo la sua visione del mondo con la concentrazione del potere, delle risorse e del capitale.

Tornando ai giorni nostri, questo modello non è per niente cambiato. Tutte le istituzioni che oggi sostengono il nostro modello di sviluppo sono figlie della stessa logica. Se prima c’era un’eccedenza di beni comuni naturali e c’era poco capitale, adesso abbiamo una quantità di capitale assolutamente eccedente e sproporzionato, ma non abbiamo più beni comuni. Le nostre istituzioni, quelle riconducibili ai beni comuni, lampeggiano tutte di rosso e l’impronta ecologica umana, cioè quell’indicatore che valuta il nostro consumo di risorse rispetto alla capacità della natura di rigenerarle e di assorbirne i relativi rifiuti, è fuori controllo. Entro i primi sei mesi dell’anno arriviamo a consumare le risorse naturali che il pianeta ci mette a disposizione per tutto l’intero anno e, dalla seconda metà, cominciamo già a consumare le risorse dell’anno successivo. L’impronta ecologica è giunta al punto che quel segnale d’allarme, l’Overshoot Day, il giorno del superamento, si sta assestando più o meno a metà dell’anno, anticipando sempre di più, specialmente da vent’anni a questa parte, quella data ammonitrice.

L’impronta ecologica dell’umanità è attualmente oltre 1,5 volte la superficie complessiva della Terra, il che significa che avremmo bisogno di un pianeta e mezzo per rispettare le condizioni di rigenerazione delle risorse necessarie. Questa situazione è drammatica ed è oramai riconosciuta dalla stragrande maggioranza degli scienziati.

Visti da una prospettiva globale, gli effetti del percorso fin qui esposto rendono evidente lo squilibrio invadente della sovrapproduzione tecnologica e il rapporto stesso tra tecnologia e politica, che non sono mondi separati come spesso si sente affermare. Anche questa separazione è frutto di una responsabilità storica, quella del positivismo della separazione meccanicistica fra soggetto e oggetto, fra il mondo dei fatti e il mondo dei valori.

Diamo per buono il fatto che esista qualcosa di esterno rispetto a noi che è descrivibile dalla res cogitans, dal soggetto, dall’uomo che, ancora una volta, si pone al centro di tutto. Quello che l’uomo sa è vero ed è sempre in qualche modo verificabile, ma nello stesso tempo in cui può conoscere un oggetto, esce di scena, perché lui è il descrittore, il soggetto. Su questo Kant è stato maestro. Sono proprio le scienze oggettive, tuttavia, che ci dicono che il problema dell’impronta ecologica è un problema da prendere seriamente e che tutti dovremmo studiare mettendo i saperi in comunicazione tra loro, come giustamente ci invita a fare Multiverso. Il qui e adesso della scienza è completamente sbagliato come atteggiamento, serve invece una chiave che sia di lungo periodo. Se i nostri nonni avevano l’obiettivo di trasformare beni comuni in capitale, noi dovremmo trasformare l’eccedenza che abbiamo, il capitale, in un grande progetto condiviso che è quello di riportarci a un’impronta ecologica sostenibile. Per fare questo, dovremmo mettere in discussione anche tutte le nostre istituzioni, politiche, giuridiche, sociali, economiche, tecniche e di ricerca scientifica. Al contrario, i modelli che ci vengono indicati come modelli politicamente più desiderabili, sono i luoghi più insostenibili del mondo, la Silicon Valley, il paradiso dove ci sono Stanford e il Berkeley Lab, assieme a tutti i centri di ricerca più finanziati del mondo. Ebbene, l’impronta ecologica di quel pezzettino di mondo è 6. Se tutto il pianeta vivesse come vive oggi San Francisco e Palo Alto, ci vorrebbero altri sei pianeti per garantire risorse a tutti. Il che significa che saremmo molto, molto vicini al momento in cui sarebbe folle mettere al mondo un figlio perché sapremmo per certo che non avrebbe futuro. Se poi, ancora, andassimo a vedere l’impronta ecologica dell’Occidente aggregato, troveremmo un bel 4,5-4,8, il che significa che ci sono parti intere del Sud globale dove l’inferno esiste per davvero. Esiste nei barconi dei migranti o nei campi di concentramento che finanziamo per tenerli lontani da noi, in modo che possiamo consumare per impronte ecologiche pari a 5 o 6 e possiamo continuare a indicare quei luoghi là, come luoghi dove si crea la civiltà.

È per questo che parlo di bancarotta intellettuale e che penso che sia ora di mettere ragione e passione per dare un cambiamento di direzione. Cerco di farlo da giurista e non mi accontento di farlo solamente coi giuristi, perché i giuristi mentono. Hanno talmente sposato l’ideologia cartesiana e sono talmente convinti dell’oggettività del diritto che si fanno paladini del positivismo giuridico, per cui basta andare dall’avvocato per sapere tutto. E questa è una menzogna totale perché l’ordinamento giuridico è l’esito di conflitti che sono conflitti mediati da condizioni politiche, che noi possiamo conoscere soltanto nel momento in cui il conflitto emerge ed è in via di risoluzione. Non c’è nulla che possa rifarsi al diritto vigente, che è tale solo se noi non lo ubbidiamo. Nel diritto, la separatezza fra il soggetto e l’oggetto e il fatto di considerare il mondo come qualche cosa di oggettivamente descrittibile, soprattutto nelle istituzioni sociali, creano impotenza, creano l’idea che ci siano delle cose che stanno così come stanno e che noi non ci possiamo fare niente. Ma noi, invece, possiamo fare moltissimo, perché noi il diritto lo possiamo anche disubbidire. Anzi, nella storia, se il diritto veniva o meno disubbidito è stato il grande criterio della sua stessa validazione.

I giuristi ugonotti, poco prima del periodo della modernità, sostenevano che non esisteva il diritto di resistenza, come poi lo abbiamo conosciuto nelle carte americane, ma propendevano per un dovere collettivo di resistenza, qualora la direzione tracciata da chi governava avesse portato al fallimento. Ed è per questo che, sulla limitazione del potere, l’istituzione fondativa del diritto costituzionale moderno era il tirannicidio. Nel momento in cui il tiranno indicava una direzione sbagliata, esisteva non un diritto, bensì un dovere a resistere, fino al punto di toglierlo di mezzo. Questa è la menzogna del giurista, quella di dirti che l’unico modo di cambiare il diritto sia quello di andare a elezioni, votare dei parlamentari, far fare delle leggi, ubbidirle ciecamente, inneggiare alla legalità e inneggiare alla certezza del diritto. Quest’ultima è un’altra follia, perché non c’è nulla di certo in questo mondo. Ci sono semplicemente delle posizioni, che sono sempre e sempre informate di preferenze politiche e sono sempre e sempre determinate dalle condizioni materiali in cui vengono espresse. Questo è vero per il diritto ed è vero per la scienza. Non c’è la scienza neutrale, la scienza è sempre e comunque il prodotto di condizioni materiali all’interno delle quali ci muoviamo.

Anche la tecnologia, che è un prodotto della scienza, non è neutrale e oggi lo vediamo facilmente se ci spostiamo nel mondo dell’infosfera: è la nuova frontiera dove la direzione imposta è codificata, dentro ed ex ante, senza neanche più i giuristi. L’umanità è come uno stormo che vola, nessuno sa verso quale direzione, ma ci sono dei segnali, dei processi, degli incentivi che ci fanno andare tutti da una parte piuttosto che in un’altra.

La direzione nella quale stiamo andando oggi è la direzione di quel delirio delle istituzioni e di quella visione del mondo che sta dicendo allo stormo umano che, invece di volare da sud verso nord, deve volare da nord verso sud, quando le stagioni sono sbagliate. Ho provato a ragionare su queste cose con un fisico teorico che si chiama Fritjof Capra, autore del fortunato libro Il tao della fisica. Siamo arrivati alla conclusione che le leggi umane e le leggi di natura, che la modernità ha messo in contrasto l’una con l’altra – per cui la natura non regge alle leggi umane –, possono e devono essere riportate in sintonia. Questo è un progetto collettivo che vale la pena di essere vissuto.

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