VUOTO

Viviamo, si dice, nella società e nell’economia della conoscenza, la cui costruzione è iniziata, grosso modo, dopo la seconda guerra mondiale. Un processo lungo, distinto in diverse fasi, ma costantemente informato di e dalla ricerca scientifica. Nel corso dell’evoluzione dalla società industriale classica alla società della conoscenza, sono stati modificati i tradizionali rapporti tra la comunità scientifica e il resto della società. Cosicché, la comunicazione pubblica della scienza è venuta assumendo progressivamente sia un nuovo ruolo – quasi un nuovo statuto ontologico – sia nuove forme. In questo percorso la comunicazione al grande pubblico è stata chiamata a riempire un vuoto: quello della cultura scientifica.
Di questo nuovo ruolo, di queste nuove forme e di questa necessità di colmare un vuoto dobbiamo tener conto, se vogliamo costruire una società democratica fondata sulla conoscenza. E per tenerne conto dobbiamo prendere in esame almeno quattro aspetti dei mutati rapporti tra scienza e società.

  1. È crollata la torre d’avorio. Le mura che a lungo hanno diviso la cittadella della scienza dal resto della società sono state abbattute. L’antica separatezza è andata perduta. Siamo entrati in una nuova era dell’organizzazione del lavoro degli scienziati, che il fisico inglese John Ziman ha definito ‘post-accademica’, caratterizzata dal fatto che decisioni rilevanti per lo sviluppo della scienza sono prese dalle comunità scientifiche sempre più in compartecipazione con una serie variegata di altri gruppi sociali. Tutto ciò ‘costringe’ gli scienziati – lo abbiamo visto anche durante l’epidemia da coronavirus – a stabilire una rete sempre più fitta di relazioni (e, quindi, di comunicazione) con i pubblici di non esperti.
  2. La comunicazione necessaria. L’era della conoscenza si caratterizza sia per l’irruzione della scienza nella società, sia per l’irruzione della società nella scienza. La società è sempre più informata dalla conoscenza scientifica e dalle tecnologie realizzate grazie alle nuove conoscenze scientifiche. Gli scienziati sono costretti a comunicare con i pubblici di non esperti per assumere in compartecipazione con loro decisioni rilevanti per lo sviluppo della scienza. La società, nelle sue diverse articolazioni, ha sempre più bisogno – un bisogno ineludibile – di essere informata intorno alla scienza, divenuta parte decisiva a ogni livello, individuale e collettivo, della vita dei cittadini. Nell’era della conoscenza e dei nuovi rapporti tra scienza e società, dunque, la comunicazione pubblica della scienza (la comunicazione della scienza ai pubblici di non esperti) non è più un orpello, ma una necessità, doppia e ineludibile: una necessità professionale per gli scienziati, un bisogno diffuso ed essenziale per il resto della società.
  3. La comunicazione complessa. Il sistema di comunicazione pubblica della scienza è formato da un numero grande di elementi (diversi gruppi e attori sociali) in relazione multipla e non lineare tra di loro. Il flusso di comunicazione pubblica della scienza si svolge attraverso una costellazione di canali rilevanti diversi – alcuni dei quali ben visibili, altri carsici – e definisce una dinamica largamente caotica e imprevedibile, tipica dei sistemi complessi.
  4. La cittadinanza scientifica. La costruzione della cittadinanza scientifica è elemento essenziale di una società democratica della conoscenza. E nella costruzione della cittadinanza scientifica la comunicazione pubblica della scienza è chiamata ad assolvere il ruolo decisivo di sistema linfatico. È su questi ultimi due punti che ci soffermeremo.

La comunicazione complessa

Nell’arena pubblica la comunicazione rilevante della scienza assume forme strutturalmente diverse rispetto a quelle tipiche della torre d’avorio. Nella torre d’avorio la comunicazione rilevante della scienza avviene tra membri di una stessa comunità, culturalmente molto omogenea e con interessi comuni. La comunità è informale – non ci si iscrive alla comunità dei fisici delle alte energie o degli etologi cognitivi – ed esiste solo e unicamente perché i vari membri hanno interessi comuni, parlano un comune linguaggio e frequentano i medesimi archivi. Potremmo dire che si è membri di una specifica comunità scientifica, di un ‘collegio invisibile’, perché si è parte di un medesimo sistema di comunicazione.
Fuori dalla torre d’avorio, nell’arena pubblica, la comunicazione rilevante della scienza avviene non all’interno di una sola comunità, ma tra una costellazione mutevole di gruppi sociali, che hanno interessi legittimi diversi e parlano lingue diverse. Gruppi che spesso neppure si riconoscono.
Persino individuare i gruppi che realizzano una comunicazione della scienza che ha effetti rilevanti (per lo sviluppo della scienza e/o per lo sviluppo dell’intera società), è impresa difficile e in ogni caso oggetto tuttora di una ricerca aperta.
In prima battuta possiamo dire che, fuori dal ‘collegio invisibile’, tra i gruppi di non esperti che sono portatori di una comunicazione della scienza con effetti rilevanti vi sono: gli scienziati che appartengono ad altre comunità scientifiche (che concorrono a definire non solo i macro, ma spesso anche i micro obiettivi di ricerca di una data comunità scientifica); le autorità istituzionali (ministri, assessori, giudici, authority); i burocrati; i manager dell’industria; i politici (membri di partiti e movimenti); i membri di molte organizzazioni non governative (ong); gli operatori del media; gli opinion makers (compresi gli accademici di formazione non scientifica); diversi tecnici (medici, insegnanti, ingegneri), gli artisti. Il pubblico generico.
Costoro non hanno come unico e comune referente lo scienziato o le sue comunità. Dialogano tra loro e dialogano di scienza. Per esempio, i movimenti ambientalisti e le istituzioni (ministeri, Parlamento) dialogano tra loro per stabilire le modalità della ricerca ambientale, biotecnologica e, da qualche tempo, anche nanotecnologica. Gli opinion makers (religiosi, bioeticisti) e grande pubblico dialogano e confliggono per stabilire qual è la ricerca eticamente sostenibile nel campo della biologia umana. I pubblicitari parlano di scienza al grande pubblico (e inducono precisi comportamenti) senza alcuna mediazione di esperti, con un linguaggio simbolico che non è né la traduzione più o meno rigorosa di un’informazione scientifica né un tentativo di ingaggiare il pubblico ai ‘valori’ della scienza, e per finalità che sono molto lontane da quelle che agli occhi della comunità scientifica appaiono desiderabili.
In definitiva, la costellazione di gruppi sociali che concorre a prendere decisioni rilevanti per lo sviluppo della scienza somiglia a un arcipelago ove tutte le isole, un po’ come a Venezia, sono interconnesse tra loro con ponti su cui possono veicolare e di fatto veicolano flussi di informazione in ambedue i sensi. In questo arcipelago non esiste un centro unico, ma una pluralità di centri con diverso ‘potere decisionale’ nel governo complessivo della città, né esiste una periferia data, ma un insieme di isole un po’ più periferiche di altre, e ciascun ponte è unico: connette da angoli diversi, in maniera diversa, isole diverse. Fuor di metafora: i diversi ‘pubblici rilevanti’ stabiliscono un sistema di comunicazione a più centri, tutti interconnessi con (quasi) tutti, ma non tutti del medesimo peso decisionale. Ogni ponte tra due isole comunicanti è bidirezionale (anche se il flusso può essere maggiore in una direzione piuttosto che nell’altra), instabile, influenzato da una serie di parametri quali i valori (la comunità scientifica ne ha di diversi rispetto a quella degli ambientalisti o a quella degli imprenditori), le visioni del mondo (più o meno sofisticate), le conoscenze specifiche (che rendono l’isola degli scienziati la più importante e la più centrale), gli obiettivi (in genere, gli scienziati vorrebbero più fondi per le loro ricerche, gli ecologisti maggiore protezione per l’ambiente e gli industriali maggiori guadagni), le aspettative (gli scienziati si aspettano una risposta ‘positiva’ e persino un aggancio ai propri valori dal pubblico con cui comunicano; i pubblicitari sono interessati all’incremento delle vendite dei loro committenti), le modalità comunicative (gli scienziati comunicano spesso attraverso la divulgazione, i pubblicitari attraverso metafore e allusioni).

Da questa prospettiva ‘veneziana’ possiamo concludere che:

a) la comunicazione pubblica della scienza è un sistema complesso costituito da numerosi elementi in rapporto dinamico tra loro mediante un’infinità di connessioni comunicative;
b) non esiste alcun modello universale di comunicazione pubblica della scienza. Un modello va bene per connettere l’isola A all’isola B nell’intervallo di tempo ∆T1, ma non va più bene per connettere A a C o B a C o anche A a B nell’intervallo di tempo ∆T2. Poche relazioni comunicative hanno effetti lineari. La gran parte ha effetti non lineari che cambiano nel tempo;
c) ogni ponte è diverso e ciascuno è importante. Ogni segmento della comunicazione pubblica della scienza è significativo, anche se variano la qualità e l’intensità dei flussi comunicativi rilevanti. Non esiste ‘la’ comunicazione della scienza al grande pubblico, ma esistono svariate forme di comunicazione tra svariati ‘pubblici della scienza’;
d) è necessario avere sia una visione analitica che una visione sintetica dell’arcipelago, perché nel sistema della comunicazione della scienza vi sono molti fenomeni imprevedibili ed emergenti.

La cittadinanza scientifica

Nella società della conoscenza lo sviluppo dei rapporti tra scienza e società può evolvere lungo due direttrici divergenti. L’una di tipo elitario, fondata sull’assunto che le decisioni in materia tecnica e/o scientifica sono troppo complesse e hanno bisogno di tempi così rapidi da dover essere demandate a specialisti se si vuole evitare il caos etico e/o sociale. L’altra di tipo partecipativo, fondata non solo sul principio che anche le decisioni sulle applicazioni delle conoscenze scientifiche devono essere assunte su base democratica ma anche sul principio, caro a uno dei pionieri della nuova scienza, Francis Bacon, che le nuove conoscenze scientifiche non devono essere a vantaggio di questo o di quello, ma dell’intera umanità.
Nel primo caso ci troviamo di fronte a un modello di democrazia tecno/scientifica elitaria e tendenzialmente autoritaria, che in campo etico può portare a forme di assolutismo (un’etica che si impone sulle altre e diventa legge generale), mentre in campo ecologico può portare persino a forme di militarizzazione del territorio (una scelta tecno/scientifica che viene imposta ai cittadini). Esempi di questo genere ne abbiamo avuti, nel corso dell’epidemia da coronavirus, non solo in Cina, ma, in maniera meno rigida, anche in Italia.
Nel secondo caso, quello della democrazia partecipata nell’era della conoscenza, ci troviamo di fronte alla necessità di costruire una vera e propria ‘cittadinanza scientifica’. Che non solo consenta alla società di effettuare scelte di natura tecnica e/o scientifica senza scadere in un populismo caotico e paralizzante e cadere nelle trappole della demagogia. Ma che, soprattutto, consenta alla società di cogliere tutte le opportunità offerte dallo sviluppo delle conoscenze e di minimizzare rischi ed effetti sociali indesiderati (come l’aumento della disuguaglianza determinata dalla diversità di accesso alla conoscenza).
Anche di questo secondo modello partecipato abbiamo numerosi casi recenti, come ad esempio l’Autorità britannica per la fertilizzazione umana e l’embriologia (HFEA), che ha dato il via libera, negli ultimi anni, a diversi progetti di ‘democrazia deliberativa’ o, se si vuole, di compartecipazione informata a scelte di carattere bioetico. Ciò indica che anche nel rapporto tra scienza e società il metodo della ‘democrazia partecipata’ non è un’astrazione utopica, ma una via percorribile, per quanto difficile. E dunque costituisce una significativa accelerazione nel processo, ormai ineludibile, di costruzione di una matura cittadinanza scientifica.
Ma cos’è, esattamente, questa cittadinanza scientifica e come è possibile costruirla? Non ci sono risposte definitive a queste domande. Anche se è certo che la cittadinanza scientifica non può essere ridotta solo alla sua dimensione politica. Ovvero a un metodo democratico per effettuare scelte che coinvolgono la scienza su questioni eticamente sensibili.
La dimensione politica della società della conoscenza non è però marginale. Si tratti di decidere la localizzazione di una discarica o di alcune procedure per la procreazione medicalmente assistita, di testamento biologico o di strategie per contrastare i cambiamenti climatici, occorre trovare le migliori prassi e anche le migliori agorà dove assumere le decisioni senza rinunciare né al principio di massima efficacia né al principio di massima democrazia. Si tratta, in altri termini, di trovare i punti di equilibrio dove gli shareholders (l’insieme delle istituzioni della democrazia delegata e degli esperti) e gli stakeholders(coloro che hanno una posta in gioco) possano dialogare e compartecipare, ciascuno con le sue prerogative, alle decisioni.
Non è semplice. Per questo, una matura cittadinanza scientifica deve svilupparsi anche e in via prioritaria nella sua dimensione culturale. La cittadinanza scientifica è infatti un esercizio informato dei diritti di cittadinanza. Il che pone i grandi temi della comunicazione pubblica della scienza, a partire dai grandi centri di trasmissione dei saperi: la scuola e i mass media. Tenendo conto che la dimensione culturale della cittadinanza scientifica non si esaurisce solo nel massimo rigore e nella efficacia della comunicazione. Ma anche e soprattutto nel diritto all’accesso sia all’informazione sia alla produzione di informazione. È questo il grande tema del cultural divide, delle nuove disuguaglianze dentro e tra le nazioni. E c’è, infine, un problema di qualità. Informazione e conoscenza non sono sinonimi. L’informazione è un’entità ben definibile, che può essere (ed è) misurata in termini quantitativi. La conoscenza è un’elaborazione molto sofisticata dell’informazione, che richiede una grande capacità di creare connessioni tra persone, tra discipline, tra culture. La cittadinanza scientifica deve, dunque, essere declinata nella sua dimensione culturale nella correttezza dell’informazione, nell’accesso all’informazione e alla conoscenza, nella qualità della conoscenza.
Solo se la dimensione culturale è piena e ricca, è possibile sviluppare in maniera soddisfacente un’altra dimensione della cittadinanza scientifica, la dimensione sociale. Che presuppone, nella sua essenza, non solo l’accesso democratico all’informazione e alla conoscenza, ma anche a una ridistribuzione vasta dei suoi benefici. Non solo la scienza, ma anche le applicazioni della scienza devono essere a vantaggio dell’intera umanità. In questo senso, assume un valore decisivo la qualità ambientale dello sviluppo. Un’economia fondata sulla conoscenza è socialmente sostenibile solo se è anche ecologicamente sostenibile. E viceversa.
Eccoci, dunque, alla quarta dimensione della cittadinanza scientifica, la dimensione economica. Oggi c’è una tensione molto forte da parte delle grandi imprese ad accaparrasi il monopolio delle informazioni e delle conoscenze. Questo è un male, non solo perché è provato che la creatività scientifica è massima in un regime di libera circolazione dell’informazione e della conoscenza, e non solo perché è stato provato che lo sviluppo dell’economia della conoscenza è massimo solo in un ambiente complessivamente adatto, con una forte vocazione all’innovazione, ma anche perché è possibile sviluppare un’economia della conoscenza dal basso – ovvero piccole imprese, spesso a carattere cooperativo, che producono beni ad alto tasso di conoscenza aggiunto – solo sviluppando la dimensione economica della cittadinanza scientifica. Ovvero, solo combattendo i monopoli e gli oligopoli della conoscenza ed estendendo nella società l’opportunità di produrre beni e servizi ad alto tasso di conoscenza aggiunto, potremo pensare di risolvere il più grande problema sociale dei nostri giorni: la disuguaglianza.

In conclusione, viviamo in un mondo sempre più segnato dalla conoscenza scientifica e dall’innovazione tecnologica. Abbiamo quindi bisogno di estendere la cittadinanza scientifica. Non sappiamo ancora mettere a fuoco con sufficiente definizione di dettaglio il concetto di cittadinanza scientifica. Sappiamo, però, che a ogni livello – culturale, sociale, politico ed economico – implica partecipazione. Estensione della democrazia, formale e sostanziale.
Ed implica comunicazione. Pubblica, trasparente. Proprio come è avvenuto nel Seicento, la scienza è chiamata ad abbattere di nuovo il «paradigma della segretezza».

multiverso

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