VUOTO
Editoriale 'Vuoto'
di Andrea Csillaghy
Fermi sull’orlo del caos avevamo rinunciato agli entusiasmi della gaia scienza. Certo, la sete di saper che mai si sazia, come forse avrebbe detto Dante, non smette mai di inquietare chi sa che non sa ancora nulla dell’essenziale, così, anche se eravamo tutti saturi per il dilagare dei lustrini della nostra affluent society, con le sue troppe imbecillità, di quando in quando si insinuava in alcuni di noi il dubbio che davvero Francis Fukuyama qualche ragione poteva averla nel dire che la storia di sapiens sapiens è finita. Soprattutto che oggi sia possibile, o addirittura più comodo, nel multiverso umano vivere ‘senza scienza’.
Poi di colpo alt! Fermi tutti, tutto bloccato. Il pianeta è paralizzato e in panico. E nonostante le arie che si danno, lo sono anche tutti i ‘potenti della terra’, a causa di un minuscolo, potentissimo virus sconosciuto. Ed ecco rispuntare la scienza, umile, ma seria e affidabile. Con i suoi angeli di salvezza. E mentre la specie umana è in preda al terrore di morire in massa e ha perso ogni opulenza e policromia, il vuoto è dovunque intorno, nelle strade e nelle piazze: vuote le chiese, i teatri, i musei, niente feste, balli, vacanze. In questo nulla sartriano, quasi esistenzialista, materializzatosi intorno, si profila però sullo sfondo, e non solo qui da noi, una scena da coro del Manzoni: perché quasi «dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti, dai boschi, dall’arse fucine stridenti», un volgo quasi disperso e umiliato si riaffaccia e i nostri modesti confratelli medici, studiosi, scienziati emarginati e ormai troppo spesso ritenuti superflui, anzi bollati con le etichette di addetti alla mala sanità, vengono riabilitati e promossi, salutati adesso come angeli. D’un botto la scienza ritorna alla ribalta.
E io mi sento spinto, per l’analogia con il nostro presente, a un amarcord di sessant’anni fa, legato al filosofo Jean-Paul Sartre e al suo L’être et le néant, l’essere e il nulla.
Venezia, Piazza San Marco, caffè Florian: Sartre irritato per lo scontro con il collega sovietico Ilja Ehrenburg sta sfogandosi avidamente su una brioche piena di marmellata di albicocche che gli sprizza sulle dita (brioches senza marmellata a Parigi!), sotto gli occhi indulgenti di Simone de Beauvoir, mentre io non so che fare. Eravamo in una pausa del primo grande colloquio internazionale di intellettuali Est-Ovest, per avviare un dialogo fra artisti e uomini di cultura contro il vuoto gelido della guerra fredda, contro la corsa agli armamenti nucleari e la minaccia di una guerra atomica tra i blocchi opposti del pianeta, allora... Accusato di volere il dialogo solamente sotto la spinta atlantica e americana, Sartre, esistenzialista e comunista occidentale, deve difendersi, e noi tutti con lui, perché contro il vuoto del nulla provocato dalle guerre e l’incomunicabilità fra le ideologie e i popoli, solo l’uomo di cultura, artista o scienziato, può e ha il dovere di ricostituire il lessico minimo del dialogo e della civiltà.
Pochi giorni dopo accompagno per Roma Ungaretti, che aveva presieduto quel colloquio a Venezia, alla Société Européenne de Culture. Stiamo rievocando nei giardini del Pincio i momenti veneziani. «Questo silenzio – osserva il poeta e maestro – in fondo somiglia al ‘nulla’ di Sartre. Perché vede, l’omo – gli è sempre rimasta la sua pronuncia della lucchesia dei genitori – è proprio chiuso sul nulla, dalla nascita alla morte, è assediato dal nulla e dal vuoto. E a Roma si sente meglio che altrove. Roma ha sempre sofferto di questo orrore del vuoto, l’horror vacui. Perché anche quel poco che l’uomo fa, lo conosce e comprende solo dopo, quando è già passato. Guardi questi monumenti del barocco, facciate enormi plasmate per murare il vuoto. Come Michelangelo, che erige quelle enormi figurazioni di fantasia e dolore solo nel tentativo di opporsi o almeno far dimenticare il vuoto schiacciante che opprime l’esistenza».
Sartre, nel 1962, ha rifiutato il premio Nobel per la pace dicendo che non poteva accettare una illusoria appartenenza a una élite estranea a gran parte dell’umanità, dei cui dolori l’intellettuale si sentiva di dover portare il peso non per qualche istante, ma per tutta la vita.
E Ungaretti, allora presidente della Société Européenne de Culture (dove lavoravo come giovanissimo segretario e apprendista intellettuale) nel suo lavoro di uomo di cultura non ha mai smesso di cercare quelle parole povere, scarne ma essenziali per promuovere l’intelligenza universale e il dialogo fra le culture umane.
La gaia scienza di Multiverso è il nostro tributo, qui e ora, per colmare quanto si può con la civiltà dei saperi il vuoto del nulla che circonda la nostra vita e insidia, se non colmata con le nostre opere di cultura e scienza, come adesso risulta evidente, la nostra specie sapiens sapiens.