VUOTO

La diagnosi più universalmente condivisa circa il presente è l’idea che ci troviamo nel pieno di una ‘crisi informazionale’. I meccanismi usuali di trasmissione, selezione e controllo delle conoscenze non funzionano più come dovrebbero e come presumibilmente hanno funzionato in passato. Non è un’idea nuova. Che la veloce crescita di informazione e il pluralizzarsi delle fonti informative costituiscano una minaccia per le risorse epistemiche e cognitive degli individui e delle istituzioni è un’evidenza già ampiamente notata, almeno a partire dalle prime decadi del mondo globalizzato (seconda metà del ventesimo secolo). Ma ora la pandemia di coronavirus ne ha dato una conferma inequivocabile: abbiamo visto che la crisi ha un impatto diretto sulle condizioni stesse della vita e della sopravvivenza degli esseri umani.

1. La scienza è democratica. L’area particolarmente sensibile al problema è quella della comunicazione scientifica, dove abbiamo assistito ad almeno tre dati cruciali:
(i) il disaccordo tra esperti;
(ii) il crollo della fiducia epistemica e l’emergere del dubbio, anzi dell’avversione, nei confronti delle autorità scientifiche;
(iii) lo sfruttamento politico di (i) e (ii).

I tre fenomeni sono collegati, ma tutti e tre, a ben guardare, non ci parlano tanto di ambizione, ignoranza e cattiva fede dei protagonisti del dibattito, piuttosto di un dato più fondamentale e pervasivo, che è la radice stessa della ‘crisi informazionale’, ossia il processo di progressiva democratizzazione della conoscenza, più precisamente della ragione (ossia dei modi in cui pensiamo-ragioniamo), un processo che riguarda la comunicazione contemporanea, in ogni settore, nella scienza come in politica, nell’amministrazione della giustizia, nella cultura e nella vita quotidiana.
Si è spesso sentito dire che la scienza ‘non è democratica’, dunque mal si adatta al regime di una comunicazione democratizzata, in cui tutti ritengono di essere o poter essere grandi esperti di qualsiasi cosa. Ora vorrei invece suggerire che la scienza è, e non può non essere, democratica, nel suo sistema e nel suo principio, e proprio per questo è un regime di conoscenza tanto veridico quanto fragile.
Che la scienza sia democratica è evidente appena riflettiamo sulle ragioni dei tre dati di cui sopra.
(i) Perché il disaccordo tra esperti? Perché qualsiasi operatore scientifico sa che la sua ricchezza è la falsificazione, il suo strumento primario è la rivedibilità delle ipotesi e delle conclusioni, le sue verità e oggettività sono ottenibili solo grazie al confronto, alla discussione, alla dialettica intra-scientifica.
(ii) Perché il crollo di fiducia? Perché i cittadini sanno che le autorità epistemiche sono fallibili (non hanno bisogno delle discussioni televisive tra esperti per saperlo), sono cauti nel conferire credibilità alle fonti ‘autorevoli’, e soprattutto sanno che non c’è vera conoscenza senza confronto di fonti diverse, a volte in conflitto. Sanno cioè che nessuno è il padrone della verità, e solo loro stessi, con la loro immediata esperienza di dolore, malattia e ingiustizia, possono amministrare il vero e il bene (possono dire: «questo è vero», «questo funziona»).
(iii) Perché l’uso politico del disaccordo, della sfiducia, e della crisi informazionale? Perché in democrazia la politica è fittamente e strutturalmente intrecciata alla vita degli individui, nasce nel mondo della vita e vi ritorna costantemente. Che poi questo nascere e tornare sia amministrato bene dai politici, e abbia un fedele riscontro nel loro linguaggio, è un’altra questione.

2. La scienza non può non essere democratica. Dobbiamo dunque dire che la scienza è democratica, nel suo spirito e nei suoi principi metodologici. Nel suo spirito in quanto è interessata alla verità, dunque conosce la fragilità delle risorse cognitive umane nel catturare il vero, e sa che il lavoro scientifico deve essere aperto al confronto e alla falsificazione. Nei suoi principi perché l’impresa conoscitiva che chiamiamo ‘scienza’ è istituzionalmente caratterizzata da procedure ipotetiche e probabilistiche, da induzioni rivedibili, da una serie di direttive tipicamente scettiche, e basate sulla comparazione di proposte diverse. La struttura dialogico-dialettica del sapere scientifico è l’esatto correlato della struttura del potere democratico. Non per nulla la definizione di democrazia più facilmente condivisibile è quella di John Stuart Mill: «government by discussion», governo attraverso il dibattito, la discussione, e la deliberazione partecipata.
Più in dettaglio, dobbiamo dire che la scienza non può non essere democratica per molte ragioni. Anzitutto, perché le forme della democrazia (dibattito, confronto di opinioni tra esperti) sono condizione della verità scientifica. In secondo luogo, perché gli interessi universali del genere umano, indipendentemente dalle determinanti di ricchezza, prestigio, razza, genere, orientamento sessuale, sono la sua ragione d’essere, dunque la scienza si colloca fermamente nell’egualitarismo democratico. In terzo luogo, perché il dogmatismo, cioè sottrarsi alla falsificazione, è contrario ai suoi stessi interessi di progresso e auto-perfezionamento. E inoltre, la scienza oggi non può non essere democratica perché la quantità di dati e risorse di cui il lavoro scientifico deve/può servirsi e la complessità dei campi di ricerca (la cosiddetta big science), rendono impensabile il narcisismo del pensatore isolato, che procede senza confrontarsi con i risultati altrui.
Le cautele probabilistiche e dialogiche del metodo scientifico non implicano che i suoi risultati non siano categorici, e non debbano essere accolti e presentati come tali. Lo scopo di questo apparato di procedure democratiche, discussive e stipulative è precisamente arrivare a un livello di certezza superiore a quello che ci sarebbe possibile senza cautele, critiche e autocritiche. D’altra parte, il ‘mondo della vita’ rivolge alla scienza precisamente una richiesta di categoricità ‘dall’alto’. Se ho bisogno di sapere, in linea di principio ho bisogno di autorità assoluta, di persone che dicano «è così e non può essere diversamente». Di qui il problema di base della comunicazione scientifica: la verità della scienza (specie in fase di ricerca) è solo e sempre mezza verità, attesa del vero, quasi ogni risultato è (deve essere inteso come) rivedibile; ma l’uso della scienza vuole verità assoluta. Chiediamoci: perché i comunicatori di tipo religioso o para-scientifico hanno tanto successo? In tutta evidenza perché si inseriscono nelle zone della cautela scientifica (che cosa sappiamo di Dio? abbiamo cure infallibili per il cancro?) e prendono possesso del quasi-vero spacciandolo per assoluta verità, dunque facendolo diventare falsità totale.

3. Il problema. Naturalmente, il problema non è ‘la scienza’, ma il rapporto tra scienza e società, scienza e cultura, scienza e politica. L’immunologa Antonella Viola ha giustamente osservato in un’intervista che «la scienza è uscita fortissima dall’epidemia, la comunicazione della scienza ne è uscita debolissima». In effetti, la quantità di risorse prodotte (articoli, nuove ricerche, nuovi programmi di ricerca, nuovi risultati) e la velocità delle acquisizioni, nel giro di pochi mesi, sono state formidabili. La stessa medicina, scienza pratica per eccellenza, nonostante i molti ostacoli procedurali e la scarsità di risorse, si è rivelata un esercito di persone e istituzioni preparate, disponibili e capaci di creatività sul piano organizzativo e terapeutico. Dunque, forse la democratizzazione non è un danno, è anzi una risorsa: è d’altra parte il principio stesso che consente alla scienza di progredire.
Ma il fatto che vi sia questo disguido comunicativo ci dice che il combinarsi di problematicità e risultati categorici, tipico del lavoro scientifico, viene vissuto e rappresentato in modo sbagliato. Non siamo preparati alla comprensione e all’uso della scienza nella ragione democratizzata.
Guardiamo per esempio il caso dei vaccini anti-covid19. La materia, anche a un primo livello di analisi, è estremamente complessa, dunque sin da principio saremmo tentati di non informarci più di tanto, e di attenerci a quanto ci viene detto dalle autorità sanitarie. Ed è quello che intende fare qualunque persona ‘razionale’. Ma anche volendo adottare cieca fiducia nelle autorità, è difficile non tenere conto, almeno a livello subliminale, che in gioco ci sono diversi vaccini, tutti variamente autorizzati dalle organizzazioni sanitarie locali e mondiali, ma le cui caratteristiche sono diverse (quale sarà quello più sicuro? in Italia avremo scelto quello o un altro?). Difficile non venire a sapere che i vaccini comportano uno stato di pre-malattia che può durare qualche giorno e il cui decorso è estremamente variabile. Difficile ignorare che il vaccino X ha suscitato reazioni allergiche nell'n% dei casi. Difficile non venire a sapere che il vaccino più usato si basa su un principio detto ‘genico’ i cui effetti non sono ancora stati studiati in ogni aspetto. Impossibile ignorare che la diffusione del virus sta creando mutazioni, per cui ciò che i medici hanno imparato a controllare qualche mese fa potrebbe non essere più controllabile oggi nello stesso modo, e soprattutto, ciò da cui i vaccini ci proteggono forse potrebbe non essere il nemico che dovremo incontrare. Le autorità ci assicurano che il vaccino a noi destinato comunque servirà anche a evitare il virus mutato o mutante; nella nostra abissale ignoranza dei termini della questione ci crediamo, ma l’ombra del sospetto resiste.
Queste informazioni che ho citato sono o potrebbero essere vere (non ho la competenza necessaria per escluderlo), sono credibili, e sembra razionale crederci. Non sono tesi equiparabili alle idee ‘cospirazioniste’, secondo cui il virus sarebbe stato creato dalle case farmaceutiche a scopo di ottenere guadagni favolosi, e i vaccini servirebbero unicamente a riempire le loro tasche; o la pandemia stessa sarebbe una trappola formidabile, creata per impadronirsi dell’umanità imponendo una dittatura sanitaria, o un ennesimo espediente di Bill Gates per vendere i propri computer, ecc. Queste sono tesi vistosamente implausibili. Ma la mia ragione, tanto cauta quanto aperta nel credere, non è affatto in grado di escludere nessuna delle tesi precedenti.

4. Esplosione. C’è un’altra ragione per cui la scienza deve (non può non) essere democratica. Ed è una ragione che il sapere scientifico condivide con ogni altra forma di sapere o attività intellettuale. Il punto che viene spesso dimenticato è che la democratizzazione dei rapporti sociali e dei processi comunicativi non è un ideale o un’opzione, ma è un fatto. Per democratizzazione non si deve intendere il divenire (effettivamente o nominalmente) democratico dei governi, ma il progressivo estendersi dei diritti di comunicare, esprimersi, partecipare, e decidere (per se stessi e per gli altri), in principio, a tutti gli individui. Ora tale processo, sia pure con momenti locali di arresto e regressione, è visibilmente la linea dominante nel divenire evolutivo (epigenetico) degli animali umani. Ha avuto chiari momenti di accelerazione per esempio nel secondo Ottocento, in cui sono emersi i primi movimenti sociali a base egualitaria, e nel secondo Novecento, con la mediatizzazione consumistica del sapere e la nascita della digitalizzazione.
Il processo potrebbe non essere in se stesso una buona cosa. La democrazia, come è noto, è la migliore e insieme la peggiore forma di vita-governo. I diritti universali di espressione creano caos entropico e cadute della qualità, neutralizzano le capacità di selezione e distinzione. Una cultura indiscriminatamente democratizzata rischia di perdere la sua natura di cultura, cioè formazione (colere come coltivare) e ammirazione (colere come venerare). L’arte democratizzata rischia di perdere la meraviglia artistica, la politica democratizzata senza restrizioni uccide se stessa, la giustizia senza limiti democratizzata non può arrivare al giusto giudizio, ecc. In particolare: la scienza democratizzata (nel senso indicato) può diventare caos epistemico.
È in questo senso che i tre dati inevitabili di cui si è detto: (i) disaccordo, (ii) caduta della fiducia, (iii) uso politico di (i) e (ii), pur generati dalle risorse della ragione democratica, determinano una crisi apparentemente irriducibile della ragione, e della scienza che è la sua diretta espressione pratica.
Una ragione democratizzata è una ragione in cui tutto è in linea di principio vero-accettabile. È la situazione che alcuni logici oggi chiamano esplosione: la condizione di un sistema logico che ‘prova tutto’, e per cui tutto diventa vero. Naturalmente, se tutto è vero, è vero anche che niente è vero, e che qualcosa non è vero e qualcosa lo è, e tutte queste tesi sono allo stesso tempo vere e false. Se tutto è vero infatti tutto è contraddittorio, perché per ogni ‘p’ vera sarà anche vera la sua negazione. La ragione democratizzata, essendo – dovendo essere – aperta di principio a ogni possibile (ritenuto) vero, è dunque una ragione in costante rischio di esplosione. Il liberalismo democratico è in costante rischio di trasformarsi in esplosionismo.
Più precisamente, una ragione democratizzata non è in grado di escludere nulla. Essendo indiscriminatamente libera non è più in grado di selezionare il vero e il rilevante, ovvero escludere il falso, l’irrilevante, il non del tutto vero, l’inganno e l’errore. Il meccanismo di esclusione è la dominante della razionalità. Si è razionali nella misura in cui si è in grado di escludere, nella quantità idealmente infinita di dati a disposizione, ciò che è rilevante e accettabile come vero. Evidentemente, una ragione che non sa più escludere non è più ragione.
Ora il dato importante è che comunque escludiamo, nonostante le difficoltà e la quantità di dati da cui siamo quotidianamente investiti. Continuiamo a credere, e a dubitare, ad accettare e rifiutare byte informativi, a selezionare ciò che ci interessa. Le istituzioni della legge, della politica, della cultura, e della scienza, continuano a funzionare in fondo come hanno sempre funzionato. Il punto è che la ragione non esplode mai del tutto. Ma in una ragione democratizzata, e perciò semi-esplosa, e a costante rischio di esplosione, si ragiona male, si rischia di eliminare ciò che deve essere conservato, e conservare ciò che si dovrebbe eliminare. E si è per lo più consapevoli di questo rischio. Ciò che determina l’insicurezza e l’imbarazzo epistemico rispetto al vaccino contro il covid19 che si è sopra descritto è l’esatta percezione del rischio di favorire l’errore e impedire alla verità di fare il suo corso.

5. La soluzione? Ciò che abbiamo appreso (o dovremmo apprendere) dalla pandemia, e dai disguidi della comunicazione contemporanea, è dunque una lezione importante. Dobbiamo – tutti, non solo gli ‘ignoranti’ – imparare a gestire le capacità di esclusione/inclusione tipiche del pensiero razionale. Dobbiamo imparare, per così dire, a non buttare via il bambino conservando l’acqua del bagno, a non sbarazzarci di ciò che è vero, utile e condiviso per abbracciare l’irrilevante, il falso, l’antagonistico. Per esempio, a non buttare via la rotondità e il movimento della Terra a vantaggio della nostra personale visione, che ci parla del suo essere piatta, e stabile. A non buttare via la nostra fiducia nelle procedure democratiche a vantaggio della tesi secondo cui le elezioni americane del 2020 sarebbero state manipolate a favore di Biden.
Come imparare questa arte della verità che è eminentemente arte dell’esclusione/inclusione? Esistono oggi moltissime persone razionali nel mondo, il cui pensiero è niente affatto esploso. A volte si caratterizza ‘la gente’ (la maggioranza degli umani) come una specie di massa acefala, ignorante e incapace di capire. Ma non è così, e il motivo per cui le strutture del sapere democratizzato ancora sopravvivono è precisamente grazie al lavoro più o meno consapevole di questa maggioranza di persone. Dunque, non è necessario studiare l’arte della verità, ossia la gestione ‘filosofica’ delle conoscenze, per vivere nel mondo della ragione democratizzata. Ma certo tutti noi dovremmo impegnarci oggi in quest’arte con particolare attenzione.

Nella letteratura filosofica attuale e tradizionale esistono molte risorse per perfezionarci, imparando l’arte della ricerca del vero funzionale alla felicità personale e pubblica. E per diventare filosofi non è necessario in fondo studiare troppa filosofia. Ciò che è necessario, e tutti noi dobbiamo farlo, è renderci conto della fragilità e della forza degli strumenti conoscitivi di cui ci serviamo, e sicuramente la filosofia può aiutarci in questo programma.

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