VUOTO
Essere nella mancanza
di Sarantis Thanopulos
In un frammento, che risale all’ultimo anno della sua vita ed è stato pubblicato postumo, Freud dice che il bambino all’inizio sente di essere il seno della madre (rappresentazione metonimica del corpo desiderante e desiderabile di lei); solo successivamente lo differenzia da sé e cerca di averlo (cfr. S. Freud (1938) Risultati, idee, problemi, Bollati Boringhieri, 1979, p. 565). Nella fase primaria della nostra esistenza l’altro, pur oggettivamente diverso da noi, non è soggettivamente concepito, pur essendo vagamente percepito, nella sua diversità. È vissuto come un altro luogo di sé, come un nostro altrove.
Questa dimensione di autoreferenzialità originaria (l’estensione della soggettività al di là dei confini del soggetto) permane dentro di noi, è una delle due modalità con cui rappresentiamo e viviamo la realtà interna ed esterna. Ci consente di immaginare il mondo come parte di noi e noi come parte del mondo. Corrisponde a ciò che Winnicott ha definito come ‘comunicazione silenziosa’: l’essere in relazione con ciò che ci circonda senza una vera e propria intenzionalità, immersi nel flusso spontaneo della nostra esperienza che ha come proprio scopo il suo stesso fluire (cfr. D.W. Winnicott (1962), Comunicare e non comunicare. Studio su due opposti, in Sviluppo affettivo e psicoanalisi, Armando, 1970). La comunicazione silenziosa è il luogo del senso senza significanti, lo spazio della conoscenza come respirazione del vivere.
Stiamo nel campo dell’auto-appartenenza, fondante il nostro senso di identità, che è, al tempo stesso, co-appartenenza al mondo, vissuto, ma non ancora riconosciuto, nella sua alterità. La co-appartenenza, condizione necessaria di ogni esperienza soggettiva, è prodotta dalle sensazioni di ogni tipo (dotate di profondità e di intensità) che ci legano all’iniziale ambiente della nostra vita. Queste sensazioni sono prodotte non solo dai sensi, ma anche dalla sensualità erotica dell’investimento di ogni cosa sentita, percepita, e includono, oltre il contatto diretto con l’oggetto della percezione, anche la diffusa, condivisa sensitività dell’ambiente. Le immagini, i colori, i suoni, i gusti, gli odori, le percezioni tattili e propriocettive, le percezioni climatiche, i ritmi musicali, i panorami della nostra primissima infanzia sono il terreno in cui affondano le radici del nostro modo di essere presenti nel mondo. Il patrimonio delle sensazioni in cui siamo radicati cambia da casa a casa, da quartiere a quartiere, da città a città, dalla pianura alla montagna, dall’entroterra al mare, da paese a paese, da quella parte a quell’altra parte della terra. La sua vera importanza non sta, tuttavia, in una sua definita ‘territorialità’, ma nella sua autenticità e nella ricchezza delle sue sfumature che predispongono alla ricerca della particolarità in tutte le sue possibili forme. Rappresenta il fondo comune dell’esperienza umana in cui si iscrive ogni singola esistenza, è la materia che unisce in mondo indissociabile il particolare e l’universale. Se questo fondo, che non è un fondamento chiuso in sé, mantiene la sua autenticità e fluidità, il paesaggio ‘straniero’, inconsueto, non agisce come disturbo, ma come apertura che estende e arricchisce l’esperienza. Di modo che il ‘terroir’, l’inconfondibile legame tra ogni particolarità e il suo terreno (un vino della Côte d’Or o il gioco della luce tra il mare e il cielo dell’Egeo), non si svilisce nella territorialità: rimanda sempre a qualcos’altro, si apre sempre oltre se stesso, più si rivela e si circoscrive in un suo aspetto ‘tipico’, più rifiuta di essere definito.
La co-appartenenza che ci lega all’alterità, nel fondo della nostra esistenza, è estranea alla differenza tra vuoto e pieno/colmo. La pienezza vuota di sé che la caratterizza, è gioco dell’effettivamente vissuto con la sua potenzialità e resta presente come nucleo significante ma non significabile di ogni nostra esperienza più evoluta. Pur essendo concepita come auto-appartenenza (non si può appartenere a se stessi, essere presenti in sé, senza appartenere al legame con l’altro e viceversa) non è mai autosufficiente, perché non essendo mai satura di se stessa, non potendo mai chiudersi in un appagamento costante, definitivo, pena l’assuefazione e l’oblio di sé, è sempre in odore di un’interruzione, di un suo cadere nel vuoto dell’estraneità da sé (l’opposto della propria svuotatezza). Le più soddisfacenti cure materne non possono ovviare a questo (nel lato opposto, se falliscono, il destino del soggetto è la psicosi) perché nessuna relazione può bastare a se stessa.
Una ‘mancanza originaria’ (Sartre l’ha definita ‘mancanza di essere’, Lacan ‘mancanza a essere’) abita le radici del nostro essere nel mondo, l’illusione di essere tutt’uno con ciò che ci circonda è vulnerabile. In questa vulnerabilità, che un ambiente accogliente e facilitante rende tollerabile, sta il senso di angoscia primordiale che accompagna l’essere umano fin dalla nascita, ma anche il desiderio di apertura, esposizione a ciò a cui l’incompiutezza costitutiva di ogni relazione rimanda costantemente: l’oltre se stessa che la sbilancia e la estroverte rendendola eccentrica al suo centro di gravità, un luogo di radicamento e insieme di migrazione permanente verso altre relazioni.
L’assenza primaria di una concezione della differenza, la differenza vissuta ma non conosciuta degli inizi, è una protezione da una consapevolezza precoce dell’alterità dell’ambiente in cui viviamo che indurrebbe, diversamente, uno spirito di puro adattamento, precludendo lo sviluppo di un nucleo originale, essenziale della nostra creatività. Creare in noi stessi l’altro in cui la nostra esistenza è immersa, per poi trovarlo fuori di noi. Se siamo fortunati la differenza afferma il suo primato nel momento in cui l’invenzione dell’altro come parte di noi è prossima a mostrare la sua insufficienza, a esporre il fianco (laddove il desiderio rischia la prevedibilità e l’assuefazione) alla mancanza originaria.
La differenza irrompe nella nostra vita improvvisamente, a discapito di tutte le gradualità, apre una lacerazione melanconica nella nostra esistenza: la perdita dell’altro come parte di sé. Siamo mutilati dell’altro come altrove della nostra esperienza. Se la mutilazione resta senza riparazione, si incaglia nella mancanza originaria slittando nel vuoto depressivo. La mutilazione, da una parte stacca dallo spazio della nostra esperienza soggettiva ciò che la co-costituiva, la contiguità psicocorporea dell’alterità (in special modo nella sua forma di soggettività altra), ciò che la estendeva oltre i propri confini facendola diventare parte del mondo umanizzato; dall’altra, rivelando la presenza dell’altro e di ‘altro’ da noi nella vita, rende anche manifesto che nessun loro possesso, nessun re-incollamento, potrà mai saturare la domanda di piacere del vivere. La mancanza originaria, la discrepanza tra sé e la propria esistenza, che nessuna relazione può colmare, rende le relazioni insature, permanentemente aperte ad altre relazioni e alla ‘relazionalità’ come qualità fondamentale dell’esistenza. La spinta propulsiva della relazionalità è la differenza che arriva nel momento giusto per trasformare la mancanza originaria in apertura perenne dell’essere alla vita, in fuoriuscire perennemente da se stessi nel mondo. Così la mancanza di essere diventa mancanza non tanto dell’altro di per sé, ma della sua differenza. Si passa dalla mancanza di essere all’essere nella mancanza. Non più alla ricerca velleitaria di una propria compiutezza a sé stante o della compiutezza del sistema relazionale in cui viviamo, ma nella sperimentazione di un gioco con le infinite differenze che si dispiegano nel nostro legame con l’alterità. Così ciò che si perde sul piano della compiutezza dell’esistenza, lo si recupera sul piano della ricchezza e della complessità dell’esperienza.
Lo spazio della mancanza dell’altro è un vuoto irriducibile a ogni sua colmatura: è un agente di trasformazione continua della nostra posizione nel mondo e delle nostre relazioni con gli oggetti/soggetti in esso esistenti. È uno spazio di forze di attrazione opposte che il vuoto della mancanza crea: la spinta ad afferrare l’alterità e la seduzione con cui essa, al tempo stesso, ci cattura. È il luogo in cui l’Eros si genera da due genitori: la povertà (Penia) e la ricchezza di risorse, di passaggi (Poros). Il desiderio è povero, non è proprietario dell’oggetto desiderato: la condizione necessaria perché ci sia piacere, godimento. L’oggetto deve essere tutto nel legame erotico, ma non è mai tutto del soggetto. Nondimeno il desiderio è ricco di risorse, di espedienti: capace di intuire gli attraversamenti dello spazio di mancanza che lo congiungono al suo oggetto. Fondamentale è il legame del desiderio con la differenza.
La differenza mantiene vivo il desiderio ma, al tempo stesso, lo mette in crisi perché non è semplice svilupparla e conservarla. Si deve accordare con l’affinità (l’intesa che crea condivisione e prossimità) e l’identificazione (l’assunzione sperimentale di un altro modo di essere dentro di sé) perché l’oggetto desiderato possa essere costituito come altro opposto e complementare e non diventare altro estraneo indifferente. La fraternità (l’essere fatti della stessa materia, per cui due soggettività desideranti diversamene declinate non sono per questo l’una all’altra aliene) è una condizione necessaria ma non sufficiente perché è un fatto generale. Non si accorda con le inclinazioni, gli idiomi, i gusti personali: se ci si affidasse solo ad essa, si fermerebbe il dispiegamento del desiderio attraverso il complesso gioco delle differenze. Questo gioco per svilupparsi deve mettere insieme la costanza – la forza di attrazione, l’intesa, l’identificazione – e la discontinuità – la divergenza, l’incertezza, l’imprevedibilità –, sostare nell’area intermedia, di raccordo, tra le due: la curiosità, la sperimentazione, la sorpresa, la meraviglia (cfr. S. Thanopulos, La città e le sue emozioni, ETS, 2019).
Lo spazio della mancanza è la cerniera antinomica, isterica (l’altro, al tempo stesso, separato e non separato da noi) che tiene insieme le due opposte, ma complementari, declinazioni della nostra esistenza soggettiva: la comunicazione silenziosa e la relazione con l’altro definito, riconosciuto nella sua differenza. È il luogo del lutto e della sua elaborazione. Il lutto richiede che l’oggetto mancante nella sua differenza (senza la quale sarà assente anche quando è presente) deve restare disponibile. La disponibilità deve essere sempre accordata con la necessità di una trasformazione del soggetto della mancanza.
Il lutto indica la necessità del lavoro di trasformazione che il soggetto deve compiere su di sé per ritrovare l’oggetto desiderato in modo nuovo, avendo riconosciuto un aspetto della loro differenza che, venendo come nodo al pettine, chiude la strada a una vecchia modalità, ma la dischiude a una nuova possibilità di incontro. L’elaborazione del lutto è sempre silenziosamente presente in ogni momento della relazione del desiderio. Gestisce i cambiamenti, le variazioni che riaprono i termini dell’intesa e i riposizionamenti che la riformulano (cfr. S. Thanopulos, La città e le sue emozioni, cit.).
Luogo del lutto e della sua elaborazione, lo spazio della mancanza attiva dentro di noi il dispositivo tragico: la sospensione dell’effettività dell’azione. La sospensione apre l’azione concretamente, linearmente compiuta (il fatto accaduto) o in via di compimento (il fatto che sta per accadere), a un suo dispiegamento laterale, sperimentale, a un suo sviluppo potenziale (il fatto come potrebbe accadere). L’azione assume un senso vero ed è soggettivamente significativa non per il suo concreto, meccanico realizzarsi, ma per il fatto che mentre si compie si collega ad altre prospettive, crea un campo di relazionalità che la apre a una molteplicità di implicazioni. È questa molteplicità che davvero la inserisce nell’esperienza umana condivisa.
L’essere nella mancanza vive nel campo della giustizia e perisce nel campo dell’ingiustizia. Nomos, la legge, nasce come distribuzione degli uomini sulla terra secondo il rispetto del limite. Il limite può derivare dalla legge giusta della musica, della sua armonia che accorda tra loro gli opposti, o dal diritto ingiusto del più forte, dell’accaparratore senza scrupoli (colui che colma il vuoto della mancanza distruggendo le relazioni).