VUOTO

Andrea Lucatello intervista Vito Mancuso

Il tema è quello del vuoto e del suo opposto, ‘pieno’. Partiamo da quest’ultimo. Oggi viviamo come schiacciati in un eterno presente, come se l’esistente fosse l’unica realtà possibile. Ciò avviene e si esprime con l’imposizione di un modello unico che non contempla alternative. L’unica realtà vera è questa. In tutto ciò, che ruolo ha il dubbio? E qual è il suo rapporto con il vero?

Il dubbio è essenziale come metodo, mentre lo ritengo negativo quando viene adottato come sistema. Sto parlando di quel dubbio ‘metodico’ – inaugurato da Cartesio e che in molti hanno ripreso – che ci dice che almeno una volta nella vita bisogna mettere tutto in discussione. Per arrivare alla verità, intesa come ricerca e non ripetizione di ciò che è già stato detto, visto e pensato, devo sì dubitare di tutto, ma almeno non di una cosa, ossia che la verità stessa esista. Se, infatti, dubito sistematicamente dell’esistenza della verità, allora devo chiedermi che cosa sto cercando. La mia affermazione? Il mio successo? La mia potenza? Secondo me, si dovrebbe cercare non la propria affermazione, ma il vero. E cos’è il vero? Una risposta potrebbe essere che il vero sia l’esatto, ma la verità è qualcosa in più dell’esattezza. L’esattezza riguarda il dato oggettivo, la verità è anche il significato di questo dato. Alla verità – direbbe Kant – non ci si arriva solamente con l’intelletto (Verstand), ma anche con la ragione (Vernunft). Ne deduco che la verità è qualche cosa che riguarda non solo la conoscenza, ma anche l’etica. Non è solamente un dato che sta lì, fermo davanti a me, ma è anche l’utilizzo che faccio di questo dato. In questo senso, nel Vangelo di Giovanni (3.21) troviamo: «Chi fa la verità, viene alla luce». «Ὁ δὲ ποιῶν τὴν ἀλήθειαν ἔρχεται πρὸς τὸ φῶς» dice il greco: ‘ὁ δὲ ποιῶν’, colui che fa. ‘Ποιῶν’: il verbo è ‘ποιεῖν’, cioè ‘fare’, lo stesso verbo da cui deriva ‘poesia’. Ho un dato davanti a me, oggettivo, con la sua esattezza. Cosa devo dire? Lo riconosco? Certo che lo riconosco, è esatto, va bene. È lì! Ed è già qualcosa, ma non basta, manca quel rapporto trasformativo (poietico ed etico). L’uomo autentico non è il notaio che fotografa il dato, ma quello che riesce a coglierne il significato, in un rapporto performativo. Che cosa me ne faccio del dato che ho? Come lo utilizzo? A mio vantaggio? A vantaggio del bene comune? Sono cose diverse: se lo utilizzo a mio vantaggio non avrò la verità, se lo utilizzo per il bene comune ce l’avrò. Se parto invece da un’inesattezza, va da sé, che poi avrò una verità deformata.

E qual è il rapporto tra critica e pensiero?

Per un pensiero creativo, la critica è indispensabile. Nel senso ordinario del termine, la critica si riferisce a chi obietta, a chi non è d’accordo, a chi contesta. Non vale sempre, ma spesso il pensiero si manifesta negando o criticando l’esistente. In molti casi, la filosofia nasce proprio all’insegna del no, come opposizione agli idola su cui la maggioranza conforma e orienta l’opinione comune, gli idoli del teatro, della piazza, del tempio. Lo stesso succede quando cresciamo e cominciamo a formarci un pensiero autonomo. Succede a quell’età in cui critichiamo le autorità, quella dei genitori e quella dei professori. Vogliamo sentirci liberi da ciò che ci lega. È un momento decisivo ma, poi, il pensiero critico deve diventare un pensiero costruttivo. Se mi strappo da qualcosa, devo abbracciare altro. Se no, da cosa mi sono liberato? Per essere chi? Per essere di chi? Per andare dove? Ah! sono libero! Va bene. Ma noi non vogliamo essere solo liberi, vogliamo anche relazionarci, affermarci, appartenere. E quindi, sì, la critica va bene, ma una volta che ho criticato, poi, devo fare la cosa contraria, devo capire, devo edificare, devo custodire.

Anche il sapere si può rappresentare come un pieno. Un pieno che si tende a far coincidere con tutto ciò che è razionale. In questo, la scienza la fa da padrona. Che ruolo ha la scienza, rispetto agli altri saperi?

Rispondo partendo a mia volta con le tre domande che ogni persona dovrebbe porre a se stessa. Le stesse domande che troviamo nella famosa pagina della Critica della ragion pura di Kant (B 881) e che sono: «Cosa posso conoscere?», «Cosa devo fare?», «Cosa mi è lecito sperare?». La scienza risponde alla prima domanda, l’etica alla seconda e religione e spiritualità rispondono alla terza. La scienza è essenziale per la prima domanda, poi, per quanto attiene alla seconda, non lo è più. Lo dimostra il fatto che gli scienziati sono praticamente d’accordo su com’è fatto il mondo oggettivo, gli elementi, le molecole, gli atomi, la fisica, la biologia, la chimica… E anche se al loro interno si dividono per teorie o paradigmi, possiamo dire che, nel complesso, l’impresa scientifica procede speditamente proprio perché le sue conoscenze possono facilmente saldarsi le une con le altre. Ma quando si passa al campo etico, che cosa si ha? Si ha che gli stessi scienziati che condividono perfettamente i dati sull’oggettività della materia, quando poi arrivano al campo etico o politico, si dividono. Qualcuno penserà da uomo di sinistra, qualcuno di destra, altri né di destra, né di sinistra e si divideranno a livello etico, politico, valoriale. Per non parlare della terza domanda. La scienza ha quindi un’enorme importanza per quanto riguarda la conoscenza del mondo, ma non per quanto attiene la conoscenza di come l’uomo agisce all’interno del mondo, rispetto a se stesso e rispetto agli altri. Entrano necessariamente in campo altre forme di conoscenza, di informazione e di formazione dell’anima, dell’interiorità, della coscienza che non provengono più dalla scienza così come la conosciamo a partire dalla rivoluzione scientifica moderna, ma provengono dalle antiche sapienze spirituali, dalle tradizioni filosofiche, dalla dimensione estetica, dalla dimensione artistica e persino dalle emozioni musicali. È da lì che provengono quelle energie che ci fanno essere più o meno solidali, più o meno aperti, più ottimisti o più pessimisti sul senso complessivo del tutto. Ci arrivano da fonti che non sono razionali, ma emotive. La scienza è quindi decisiva e importantissima, ma non è tutto. Quando pretende di esserlo, si chiama in un’altra maniera, si chiama scientismo.

Con il diffondersi della conoscenza nella rete, si fa sempre più labile il concetto di proprietà intellettuale. Siamo alla morte dell’autore? Il vuoto e la solitudine del momento creativo stanno lasciando il posto a pratiche di saperi collettivi?

Penso che si possa e si debba sempre associare un nome alla conoscenza. Non a caso le nostre teorie hanno un autore. A partire dal teorema di Pitagora, che è il primo che mi viene in mente, oppure di Euclide, e poi su, fino ad arrivare alla relatività di Einstein. La meccanica quantistica non ha un autore, ne ha diversi, Niels Bohr, Werner Karl Heisenberg, Erwin Schrödinger, Wolfgang Pauli, Paul Dirac. Si tratta dei padri nobili di questa nuova visione, tanto che ci troviamo con due teorie altrettanto vere ma, per come le abbiamo al momento, non sono componibili l’una con l’altra: da un lato la teoria della relatività, dall’altro la meccanica quantistica. In ogni caso, hanno due nomi, con relativi autori. E la stessa cosa vale per la filosofia, ogni teoria e ogni pensiero sono riconducibili a un nome. Non esiste il collettivo, la conoscenza è sempre individuale. Il singolo, poi, la rende usufruibile anche agli altri e gli altri giustamente la fanno propria. In questo senso allora sì, esiste un pensiero collettivo, ma senza ciascun individuo, senza l’αὐτός, il sé, il se stesso, non c’è progresso della conoscenza. Newton pensa da solo, ma non potrebbe pensare senza Copernico, senza Tycho Brahe, senza Keplero e, quando pensa e giunge alle leggi per le quali è conosciuto, è da solo, lui e il mondo, lui e la realtà, nell’intuizione che si dà. La stessa cosa vale per Einstein: non avrebbe potuto pensare quello che ha pensato senza le teorie di Newton da un lato, senza quelle di Maxwell e dell’elettromagnetismo dall’altro, ma quando le mette insieme, quando le unifica, è da solo. Da solo e connesso con qualcosa che dà l’intuizione. I grandi scopritori delle grandi teorie, ma anche i grandi musicisti, i grandi pittori, i grandi artisti sentono di essere soli rispetto agli altri uomini, ma si sentono anche misteriosamente connessi rispetto a una fonte ispiratrice. Non vorrei cadere nella trascendentalità e sentirmi rimproverare che adesso il teologo riconduce tutto a Dio o allo Spirito che suggerisce. Mi limito semplicemente a dire che i grandi sentono che il pensiero è loro, perché se non fossero stati da soli non l’avrebbero concepito ma, al contempo, non è loro perché, in un certo senso, è stato loro donato, rivelato. È un dono, è un’intuizione: questo è il mistero. Beethoven nelle sue lettere lo dice, sente qualcosa che arriva, Mozart scrive al padre dicendo che tutto è stato composto, si tratta solo di trascrivere.

Per tornare al rapporto tra vuoto e pieno, la tecnologia sta diventando una nostra seconda natura e siamo sempre più plasmati dai nostri media. Che spazi ci rimangono? Quali pericoli corriamo?

Da una parte c’è la tecnologia che, allargando in maniera infinita la nostra possibilità di conoscenza, potrebbe aiutare a far conoscere le persone, a condividere relazioni e ad abbattere i pregiudizi. Dall’altra parte c’è lo spettro del controllo, dell’induzione, del fatto che qualcuno ti faccia vedere delle cose e non altre e, così facendo, possa entrare dentro di te, nella tua mente. Come possiamo difenderci? Innanzitutto bisognerebbe non farsi rubare il vero sapere. Spesso quello che ci arriva sono solo dati, la tecnologia ci riempie di dati, ma non ci dice nulla del loro significato. Il significato di questi dati ce lo dà il pensiero umano, quello di Platone, di Aristotele, di Kant, di Hegel, di Heidegger, di Jasper per parlare dei filosofi, ma si potrebbero fare degli esempi che riguardano la teologia, le religioni, l’arte e così via. Questo tipo di pensiero genera senso, senso inteso come significato, senso come direzione, senso come sensazione, senso come sapore. Tutti questi sensi arrivano dalla mia solitudine e dal mio incontro con gli altri esseri umani. Se nella mia solitudine ho uno spazio vuoto di silenzio dentro di me, allora riuscirò a trovare gli altri. Se sono già pieno, incontrerò sempre la mia pienezza, ripeterò e ribadirò le mie parole, se invece ho uno spazio vuoto, uno spazio silente dentro di me, allora potrò ascoltare le parole dell’altro. La custodia di questo di spazio vuoto, di questo silenzio della mente, è decisivo perché ci possa essere generazione di incontro, di dialogo e quindi di generazione di significato. Altrimenti saremo semplicemente mossi da input che verranno da fuori, non avremo azioni, ma solo reazioni. Non avremo possibilità di elaborare, avremo solo possibilità di replicare quello che ci è stato introiettato. Penso che dovremmo darci la disciplina, in certi momenti, di elaborare, di pensare, di riflettere, di camminare nel silenzio.

Una bella sfida, ne siamo all’altezza?

Noi italiani, per parlare molto in concreto, abbiamo tre mali endemici. Questi tre mali, in rigoroso ordine alfabetico, sono: corruzione, criminalità, evasione fiscale. Ci sono sempre stati, da quand’ero ragazzo. Adesso c’è un nuovo male endemico, una new entry nell’hit parade di malesseri di cui soffriamo e si chiama ignoranza supponente. Si sanno quattro cose e sulla base di essere così pieni di queste quattro cose, con un’alta dose di supponenza, si ritiene di dominare qualsiasi argomento. Anche l’ignoranza c’è sempre stata, ma l’ignoranza supponente è recentissima. Ora la vera cultura è quella di Socrate, quella che genera il suo atteggiamento. O, se si vuole, quella di Nicolò Cusano, cioè la dotta ignoranza, sapere di non sapere, l’apertura, la curiosità, l’indagine, quindi il vuoto. Certo, dev’essere una dotta ignoranza, non è l’inno all’ignoranza di chi non sa nulla, ma è di chi, con quello che sa, tante o poche cose che sa, capisce che ciò che non sa è molto più grande di quello che sa. Più uno diventa esperto di un campo e più percepisce che quello che sa è semplicemente una piccola parte. A partire da Ippocrate che diceva «lunga è l’opera e breve la vita», tutti i grandi che hanno intrapreso seriamente il cammino della conoscenza hanno capito che l’ultimo passo è giungere davvero alla dotta ignoranza, con umiltà e al contempo con curiosità. La curiosità della mente è una cosa bellissima. Torno al dubbio di cui parlavamo all’inizio, a quel dubbio metodico sempre aperto, sempre autentico e foriero di verità, che ci aiuta per capire qualcosa in più o per emendare, per togliere, per lavarsi, per ripulirsi dalle false verità che abbiamo dentro di noi. Alla fine, che cosa conta? Cosa siamo? Non lo so, ma a me piace pensarmi come a un vetro trasparente che fa passare quel poco di vero, di bello, di buono e di giusto che la musica della vita ci ha riservato. Alla fine, non è questo che conta? Sentirsi come una campana tibetana, don! don!, trasparenza, vetro, luce, musica…

In precedenza ha ridimensionato il ruolo della scienza, ma potremmo farne a meno?

No, la scienza genera la luce della conoscenza e quindi avremmo un mondo più cupo e oscuro. Ma non corriamo nessun rischio. La scienza è molto forte, ha muscoli molto solidi e tanti finanziamenti. Piuttosto corriamo il rischio di un mondo senza sapienza, di un mondo senza spiritualità. Questo è il rischio che corriamo. La scienza è troppo importante per il potere e per la tecnologia per essere trascurata. Quello per cui dobbiamo combattere, certo, è la difesa della libertà scientifica, ma forti sono gli scienziati e forte la comunità scientifica. Non c’è nessun rischio, da questo punto di vista.

Questa intervista è stata realizzata a Udine in occasione della giornata regionale di formazione «+ LEGGI, + CRESCI», progetto ‘Crescere Leggendo’ ideato e coordinato da Damatrà onlus, nell’ambito di LeggiAMO 0-18, iniziativa di educazione alla lettura della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia.

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