VUOTO

Sarà accaduto a molti, fra noi, di lasciare per un certo lasso di tempo la casa, la città o il paese per trasferirci altrove, in un’altra casa, un’altra città o un altro paese. E lì sentirci fuori posto, estranei, disorientati: abitudini da ricreare, nuove amicizie da stabilire, altri percorsi da disegnare, lingue sconosciute da imparare. Poi, magari per pochi giorni, ci è accaduto di partire per un terzo luogo, magari una gita di pochi giorni, un luogo dove l’estraneità è ancora più forte, il senso di spaesamento raddoppiato, per poi ritornare nella nostra abitazione, diciamo così, acquisita. A quel punto le cose cominciano a sfasare: tornando in un luogo che pure non è il nostro, sentiamo d’essere tornati a casa, mentre la nostra casa di partenza, quella istituzionale, quella che sino a poco prima sentivamo come nostra, quasi svanisce, perde senso e valore. Adesso troviamo familiarità là dove sino a poco prima ci sentivamo smarriti, solo perché siamo andati in un terzo luogo, ancora più lontano, ancora più straniero, e da lì siamo ritornati. Il gioco a tre non perdona: vince sempre il secondo.

A pensarci bene, è un meccanismo simile al dispositivo letterario del racconto nel racconto, di una storia inscatolata in un’altra. Iniziamo a leggere, e stipuliamo un patto di credenza finzionale con il contenuto raccontato, sospendiamo l’abituale miscredenza, ben sapendo che si tratta di fiction. Poi un personaggio inizia a raccontare una seconda storia, e continuiamo a leggere, lasciando fra parentesi la prima, quasi dimenticandola. E quando rientriamo nel primo livello narrativo, quando la storia del personaggio narrato è terminata, ci sembra d’essere tornati a casa, cioè alla realtà: una realtà che, però, sino a poco prima ci sembrava fittizia, totalmente inventata. La realtà diviene così l’effetto di senso di un dispositivo testuale, la miscredenza si sposta altrove, lasciando al lettore una credenza al grado zero, una specie di profonda impressione di verità.

Fa così il telegiornale, gioco continuo di cambi di parola, spazi e tempi fra conduttore, giornalisti, inviati e intervistati vari. Fa così il diritto, che redige i suoi testi – le leggi – come un rimando continuo ad altri testi, e poi altri ancora, sino ad arrivare ai codici e alla costituzione, per poi ridiscendere in senso inverso e ritornare al casus belli.

Di questi dispositivi di inscatolamento progressivo, di testo nel testo, spazio nello spazio, mise en abyme, è piena la scienza, o meglio le scienze, o meglio ancora – secondo la semiotica – i discorsi scientifici.

La semiotica, scienza del senso e della sua esplicazione nei discorsi sociali e nelle prassi conseguenti, ha nei confronti della scienza un atteggiamento molto preciso: da una parte è una scienza anch’essa, ambisce a una posizione scientifica, ne ha vocazione; dall’altra intende le scienze non come discipline, settori variegati di un sapere più o meno puro, ma come forme discorsive, insiemi eterocliti di parole e di cose, di testi e di azioni, di enunciazioni e comportamenti. La scienza, semioticamente, non è un pacchetto di contenuti informativi a valore academico ma un discorso sociale, o forse un insieme di discorsi, entro i quali si dispiegano, intrecciandosi, articoli universitari e meccanismi di potere, retoriche persuasive e politiche di finanziamento alla ricerca, pubbliche o private che siano, premi ai laboratori e vita quotidiana di ricercatori mal pagati entro i medesimi laboratori.

Lo sguardo semiotico sulla scienza è pertanto analisi testuale, dove i testi in questione non sono unicamente la montagna di scritti istituzionali che i centri di ricerca pubblicano a ripetizione continua, ma qualsiasi dispositivo di senso essi fanno proprio per ottenere un preciso risultato: la produzione di un referente interno, di una realtà relegata nel discorso, di un effetto di credenza sul pubblico, di una realtà oggettiva data come risultato di un complesso, e lungo, processo di produzione discorsiva. Per la semiotica, non ci sono stati di cose ma effetti di senso, niente leggi di natura ma ricorrenze testuali, nessuna evidenza empirica ma imposizioni discorsive.

Da qui la mise en abyme come principio costitutivo del reale che il discorso scientifico, più ancora di quello giornalistico o di quello letterario, sa portare all’estrema potenza, ossia a un’assoluta efficacia discorsiva, a un far essere e a un far fare. Fra il cosiddetto soggetto della conoscenza e il cosiddetto oggetto da conoscere si istituisce insomma una complessa, ricca, eteromorfa catena di mediazioni che è tanto più potente quanto più riesce a dissimularsi, a far dimenticare la sua stessa esistenza discorsiva. Nella scienza c’è un discorso che parla di un altro discorso che parla di un altro discorso e così via, ma questa serie di discorsi riportati, a un certo punto, svanisce, e c’è sempre qualcuno che dice d’aver scoperto qualcosa del mondo, d’aver acchiappato il reale, individuato il mondo e le sue leggi che – diversamente da quelle politiche – si autorappresentano come oggettive e universali.

Si pensi alle tanto esaltate neuroscienze, esito di un’attività frenetica di corpi e di cose, di macchine ricercatissime, elaboratissime applicazioni informatiche, altrettanto sofisticate elaborazioni statistiche che portano alla costruzione di una mappa cerebrale variamente colorata sul display di un computer, ossia, all’immagine costruita di quella che si ipotizza sia la dinamica del cervello, la quale poi alla fine, diviene il cervello nudo e crudo.

Fra le epistemologie naturaliste che mirano a obiettivare il dato scientifico, presentandolo come naturale, e l’anything goes del relativismo culturalista più cieco si situa insomma la semiotica del discorso scientifico. Dal suo punto di vista il problema della verità viene sostituito da quello dell’efficacia, di modo che una scienza – ogni scienza a suo modo, e a suo rischio e pericolo – non dice la natura ma la costruisce in funzione delle strategie discorsive che mette in campo, dunque agli obiettivi epistemologici che si prefigge, di contro a strategie avversarie, altrettanto miranti a propri obiettivi specifici: da cui tutto un gioco di tattiche e controtattiche che, facendo evaporare ogni credenza nel reale, ne esibiscono eutroficamente un qualche frammento.

È, appunto, come tornare a casa altrui dopo esser stati ancora più lontani. C’è un senso di naturalezza, di benevolenza, di calda intimità che ci prende appieno, facendo parzialmente dimenticare che, da qualche parte, forse, c’era pur sempre casa nostra. La natura, si sa, è paradiso perduto. Spetta alla scienza, operatore nostalgico, farcelo subodorare.

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