VUOTO
Riflessioni sul vuoto
di Amato De Monte e Cinzia Gori
«Privo di contenuto, che non contiene nulla, che non ha nulla dentro di sé», così si apre la definizione del vuoto nel vocabolario Treccani, salvo poi proseguire analizzando e descrivendo gli innumerevoli campi in cui questo vocabolo ‘così privo di contenuto’ viene utilizzato per rappresentare situazioni complesse fisiche, metafisiche, emozionali, relazionali e altre ancora. Dai grandi filosofi dell’antica Grecia, passando per la rivoluzione scientifica del XVII secolo, arrivando ad Einstein e alla fisica quantistica, il vuoto ha occupato una costante nella mente di tutti questi pensatori/scienziati. Lo studio del vuoto, quindi, è stato uno degli stimoli allo studio stesso della materia e dei fenomeni fisici. Le conquiste scientifiche e tecnologiche che consentono di esplorare dimensioni precluse ai nostri sensi, da un certo punto di vista costringono per lo meno a rivedere e ripensare il significato del vuoto nel mondo reale. Se per un momento proviamo a immaginare di poter vedere tutte le onde energetiche che permeano l’ambiente che ci circonda, (televisive, dei telefoni cellulari, delle comunicazioni radio, dei telecomandi, dei computer, del campo infrarosso, ecc.), probabilmente vivremo una sensazione di soffocamento. Se a questo associassimo anche le onde acustiche infrasonore e ultrasonore, probabilmente si configurerebbe un ambiente incompatibile con la vita. È solo grazie alle limitazioni proprie di vista e udito che noi possiamo goderci quei magici momenti di rilassamento e gioia che ci pervadono quando riusciamo a isolarci e volgere lo sguardo all’interno di noi stessi.
Volendo poi analizzare aspetti più astratti in cui utilizziamo questo vocabolo per descrivere stati d’animo, sensazioni o aspettative, le cose cambiano ancora. «Ho il vuoto delle emozioni», diceva un mio amico, e lo diceva con espressione seria e intensa. Ma quello era un vuoto o un senso di disorientamento? Forse poteva essere anche un sentimento di dolore per aver perso lo slancio per aspettative future o per senso di insoddisfazione per la vita che stava conducendo. Se così fosse stato, il suo vuoto in quel momento era riempito da mestizia e disorientamento, quindi quell’ambito non era privo di contenuti, ma racchiudeva sensazioni e sentimenti magari difficili da definire, o difficili da accettare; oppure ancora, era uno strumento per portare la discussione su di sé o dissertare sul dolore esistenziale che ti pongono le più classiche delle domande sul senso della vita: chi siamo, cosa facciamo, dove andiamo?
Possiamo allora paragonare il vuoto alla tabula rasa di aristotelica memoria, inteso come una condizione in cui ogni opzione è potenzialmente possibile e a noi viene lasciata la libertà di scegliere cosa metterci in quel vuoto? Se così fosse si potrebbe concludere che quello che noi definiamo come ‘vuoto’ rappresenta una vera e propria spinta all’evoluzione e al cambiamento, sia che lo intendiamo nel suo aspetto concreto sia in quello astratto.
In questo particolare momento in cui stiamo vivendo tutte le drammatiche conseguenze della pandemia Covid-19, nella mia vita professionale di direttore del Dipartimento di Anestesia e rianimazione il confronto con il ‘vuoto’ è stato una costante; ero e sono costantemente alla sua ricerca. Si ricerca un letto vuoto dove accogliere i malati che necessitano il ricovero in rianimazione, si ricerca un letto vuoto dove trasferire un malato che ha superato la sua fase critica, si ricercano anche degli spazi vuoti dove allestire posti letto per ampliare la capacità ricettiva ad accogliere coloro che ne hanno bisogno. È così che in questa disperata ricerca ho dovuto rientrare nel vecchio reparto della terapia intensiva dove ho lavorato per 10 anni. Un reparto completamente dismesso, privato di tutte le attrezzature e strumenti utilizzati per curare le persone. Rientrare in quegli ambienti vuoti, camminare attraverso quei locali che un tempo hanno visto l’avvicendarsi di centinaia di vite appese a un filo di speranza, e che ora dovevano tornare a nuova vita per restituire speranza alle vittime di un nemico invisibile e letale, è stato per me un vero e proprio viaggio introspettivo.
I miei passi rimbombano nelle stanze vuote, dove un tempo i turni di medici e infermieri si avvicendavano uniti da un unico intento, salvare vite umane a persone che come manichini giacevano immobili, in letti più simili a navicelle spaziali che a normali letti di un reparto ospedaliero.
Un silenzio irreale permea quei box vuoti, che una volta erano riempiti dalle voci di medici e infermieri che discutevano terapie e programmi diagnostici, dove il bip dei monitor ci ricordava che un cuore batteva ancora in un corpo apparentemente inerme e dove il suono ritmico del ventilatore ci segnalava che la vita era ancora presente. Una vita nelle nostre mani, una vita da salvare, una storia umana a noi sconosciuta che aspettava di riprendere il suo corso.
Migliaia di pazienti vi sono passati; lì dentro hanno trascorso una parte della propria vita in una dimensione non accessibile alla loro memoria. Alcuni di loro sono tornati alla vita reale, altri sono stati portati via dal male. La morte non fa differenza tra vecchi e bambini, ricchi o poveri, religiosi o atei, semplicemente passa e ti porta via lasciando un grande vuoto nel cuore di chi rimane, di chi ha sperato fino all’ultimo momento in un ritorno a riempire materialmente le giornate e a condividere le emozioni e i sentimenti. Ma coloro che non sono tornati hanno lasciato un vuoto? Se ci limitiamo al mondo materiale la risposta non può essere che affermativa. Ma nella dimensione astratta dei sentimenti, delle sensazioni e della spiritualità, continuano a esserci, continuano a parlarci con i ricordi che serbiamo di loro.
I ricordi: eccoli che arrivano tumultuosi quando entro nella piccola e scomoda sala d’attesa dove i parenti sostavano ore in attesa di parlare con noi sanitari per pochi minuti nei quali carpire una speranza, anche forzando il contenuto delle nostre parole verso quelle che erano le loro aspettative. È vuota, sì, quella stanza, ma l’energia sia di gioia che di dolore che lì si può respirare, non consente di considerarla vuota.
Di quanti vuoti possiamo parlare, disquisire e interrogarci. Ma qualunque sia la connotazione che gli diamo, rimane una parola poco affine con la vita. Una parola senza colore, senza sensazioni, senza un inizio e una fine. Vuoto è un qualcosa che ormai nemmeno la fisica riconosce più come tale. Il vuoto è pieno! Difficile adeguarsi a questo punto di vista quando guardi negli occhi dei pazienti intubati. Difficile trovare una scintilla di vita nel nero vuoto delle pupille dilatate.
E di nuovo mi chiedo: c’è davvero il vuoto nel cuore di chi rimane, oppure questa entità astratta è piena di sentimenti verso coloro che non ci sono più? E in senso più generale, possiamo affermare che, a seconda di come noi ci poniamo davanti alla vita, il vuoto possa essere pieno allo stesso modo con cui il pieno può essere vuoto?