VUOTO

Andrea Lucatello intervista Laura Boella, Giovanni Boniolo, Giulio Giorello, Salvatore Veca

Uno dei segnali più chiari della difficoltà in cui si trova la nostra società sta nel suo rapporto con la conoscenza. A fronte di una sempre più marcata specializzazione del sapere e di una sempre maggiore disponibilità di informazioni, crescono teorie e tesi di ogni tipo. Così, se da un lato assistiamo alla difficoltà di comunicare della scienza, con la sua conseguente perdita di autorevolezza, dall’altro siamo di fronte a una modalità di informarsi che rafforza e conferma i propri pregiudizi, lasciando spazio all’ignoranza. Ma che mondo sarebbe, senza scienza? Se è giusto chiedere al sapere scientifico correttezza e coerenza ai suoi stessi valori, è altrettanto doveroso garantirgli quella libertà e quell’autonomia che in nome del metodo utilizzato ne fanno un bene comune, riconoscendogli il ruolo, la dignità e l’autorevolezza che gli spettano in un paese civile. E, soprattutto, riconoscendo la sua straordinaria capacità di generare un pensiero critico. Ed è proprio attraverso lo spirito critico e la capacità di ragionamento che deve avvenire il nostro approccio alla conoscenza, soprattutto quando ci si trova di fronte a un continuo e massivo aumento di notizie e informazioni. Un antidoto a questa situazione sta nel recuperare quell’analisi che ha fatto progredire il nostro sapere e che è andata affinandosi con l’approfondimento, il rigore scientifico, la precisione del linguaggio e l’onestà intellettuale. Tutte cose nate perché abbiamo cominciato a porci delle domande. Su questo tema Multiverso si è confrontato ponendo, appunto, delle domande a quattro filosofi: Laura Boella, Giovanni Boniolo, Giulio Giorello e Salvatore Veca*

Oggi tutti parlano di tutto, riducendo il dibattito pubblico a una grande confusione. Si è portati a diffidare di qualsiasi cosa mettendo in discussione il concetto dell’autorità del sapere. Se da un lato è senz’altro positivo l’elogio del dubbio, dall’altro non si è più capaci di discriminare il vero dal falso. Quale ruolo ha la verità, oggi, nel discorso pubblico e qual è il rapporto tra verità e democrazia?

LAURA BOELLA Credo che questa chiacchiera diffusa, in cui oggi ognuno dice la sua, sia molto legata ai social media ma anche, sopra ogni cosa, alla massa di dati diffusi in tempo reale. Il fatto che ciascuno dica la sua opinione, di per sé, non dovrebbe essere un fatto negativo. Diventa, tuttavia, un segnale di evidente confusione quando si parla senza essersi documentati e, soprattutto, senza aver fatto un minimo di selezione tra le tante informazioni ricevute. I social vengono giustamente definiti eco-chambers, cioè veicolano spesso opinioni, i cosiddetti fatti-informazione, che corrispondono già a quello che noi vogliamo sapere. Per quanto riguarda la verità, nel dibattito pubblico non ha senso parlarne in termini filosofici come se riguardasse la coppia vero/falso. La stessa filosofia oggi ha in gran parte relativizzato l’idea di verità o comunque si sta interrogando se distinguere in maniera così netta il vero dal falso. Nell’ambito delle relazioni sociali, quello che gira o circola è l’opinione (si usa, o si usava una volta, anche l’espressione ‘opinione pubblica’). La parola ‘opinione’ è ambigua, in quanto può voler dire «quello che pare a me». Opinione, però, è anche l’esternazione o l’espressione di una presa di posizione che ciascuno di noi è autorizzato a rendere pubblica. Ed è giusto che lo faccia per scambiarla con altri e anche, poi, per poterla modulare con una pluralità di prospettive. Solo così c’è la possibilità di vivere e partecipare uno spazio plurale. È insomma l’idea di quella massima del senso comune di cui parlava Kant, quel pensiero allargato che vuol dire saper spostarsi dal proprio punto di vista, non necessariamente per assecondarlo, ma per misurarlo e confrontarlo con quello degli altri. È il tema, fondamentale nella politica, della pluralità.

GIOVANNI BONIOLO Gli elogi al dubbio e alla critica vanno sicuramente fatti e uno dei cardini fondamentali è quello di capire che la critica deve essere fatta a partire da ragioni solide, condivise da una comunità che abbia dei metodi di controllo su ciò che si dice. Viviamo in un momento in cui tutti dicono tutto, una cosa e anche il suo contrario. Il problema è quello di possedere degli strumenti che permettano di scardinare le stupidaggini e distinguerle dalle affermazioni che hanno una certa validità teorica ed empirica e che siano, comunque, accreditate dalla comunità internazionale. Esiste una comunità internazionale di esperti in ambito medico, fisico, o in quello biologico? Certamente sì, e non sono esperti solo perché credono in quello che affermano, ma sono esperti perché ciò di cui parlano ha una validazione fatta da propri pari. Forse bisognerebbe aver fiducia in loro.

GIULIO GIORELLO Anche la mia impressione è che oggi ci sia la tendenza a parlare di tutto e di tutti. Ma il punto non è tanto che si mettano in dubbio delle forme di conoscenza accreditate, quanto che si tenda a presentare le proprie personali convinzioni come se fossero verità. Aveva allora ragione Bertrand Russell quando diceva che molti predicano la volontà di credere, quando invece bisognerebbe cominciare a predicare la volontà di dubitare e, dubitando bene, forse, qualche sciocchezza si riuscirebbe a eliminarla.

SALVATORE VECA Quello della verità è diventato uno dei grandi problemi che generano non tanto la crisi della democrazia, quanto la crisi nella democrazia. C’è una perdita di fiducia nei confronti delle competenze e di conseguenza in coloro che possono sostenere, giustificare e autorizzare credenze verificate. L’esempio dei no vax è sotto gli occhi di tutti. Come ha detto Barack Obama – in un discorso post-presidenziale – «noi ci basiamo su una democrazia del confronto, del dialogo anche serrato e forte, del conflitto», ma se io prendo una bottiglia e tu dici che è un elefante, sarà difficile che possiamo dialogare e confrontare le nostre idee. Questa è una precisa visione del valore non strumentale ma intrinseco della verità nell’ambito della vita democratica.

Lo spirito critico è alla base delle nostre capacità di interpretare il mondo che ci circonda e dallo spirito critico derivano attività come la valutazione e il giudizio. L’esercizio della critica conduce a operare delle scelte e ad agire in uno stato di consapevolezza del proprio sé, non solo cercando la verità ma contribuendo a trasformarla. Qual è il ruolo della critica e il rapporto tra critica e autorità?

LAURA BOELLA Il ruolo della critica dovrebbe appartenere proprio a quell’attività che ciascuno di noi, più o meno consapevolmente, fa nel momento in cui giudica, cioè collega qualcosa che ha una validità universale a un fatto singolo o a unaquestione particolare. Tale questione è diventata oggi molto più difficile e complessa, perché ci troviamo in un mondo in cui siamo portati a giudicare cose rispetto alle quali non abbiamo più criteri, norme o principi generali di riferimento. Un esempio classico è quello della bioetica. Con l’arrivo delle nuove tecnologie, si sono aperte questioni come la procreazione assistita o il fine vita per noi inedite, se paragonate a quei processi che, fino ai tempi dei nostri genitori, venivano ancora considerati naturali, come la nascita, la malattia, la morte. Ecco, qui non abbiamo norme, non abbiamo criteri. E allora questo ‘nuovo’ giudizio deve essere un giudizio che rischia qualcosa, nel senso che sperimenta la possibilità di gettare un ponte tra quanto ci succede e una prospettiva più ampia di quella individuale. Un altro caso senza precedenti riguarda le forme non convenzionali con cui vengono gestite le guerre. Giudicare – che è un obbligo morale e politico che noi abbiamo – diventa così una grande affermazione di impegno civile, proprio nel momento in cui cerchiamo di capire cosa sta accadendo nel mondo contemporaneo. Credo che l’autorità (la responsabilità) di elaborare un giudizio rispetto a questioni come quelle sopradescrittesia un impegno individuale che tocca ognuno di noi personalmente.

GIOVANNI BONIOLO In fondo, chi ha veramente autorità – nel senso che l’ha raggiunta non perché ha usato il bastone, ma perché ha usato la ragione – non teme la critica. Anzi, la sua autorevolezza si basa proprio sul fatto che lui è uno dei primi critici di ciò che sta affermando e che ha sottoposto a esame, sia empirico che concettuale, il sapere che gli ha consentito di diventare quello che è. Non vedo assolutamente contraddizioni, se non tra coloro che hanno raggiunto l’autorità senza fare uso della critica, la quale, proprio per questo motivo, è diventata loro nemica. Ed è allora che essa può essere anche lo strumento per scardinare questa falsa autorità e invocare la sua sostituzione con un pensiero basato sull’autorevolezza. L’autorevolezza, sostenuta dal principio del ragionamento, è da applaudire; l’autorità che non usa la critica dev’essere invece combattuta.

GIULIO GIORELLO Chi incarna l’atteggiamento critico non è tanto chi dovrebbe governare, il sapiente o il filosofo che diventa re, come voleva in alcuni dei suoi sogni politici il primo Platone. Qui il problema è che chi usa l’atteggiamento critico è contro chi vuole governare, parla cioè a favore di coloro che sono governati, non dei governanti. Se non consideriamo questo, saremmo sempre vittime del potere: potrebbe essere il potere di una casta, di una famiglia monarchica, di un partito totalitario o di qualche gruppo apparentemente democratico, che magari cita Rousseau a sproposito, se ne serve per imporre le proprie credenze e finisce per limitare la libertà di ricerca delle persone veramente intenzionate a saperne un po’ di più.

SALVATORE VECA È un’idea che risale a due secoli e mezzo fa e cioè al recente Illuminismo europeo: nessuna autorità può essere sottratta alla possibilità di critica. In una recente intervista, Noam Chomsky ha sostenuto che il problema non è tanto l’autorità in se stessa, ma il fatto della sua giustificazione, che si ottiene proprio attraverso la critica che viene rivolta ai poteri, qualsiasi essi siano. Se questi superano il test della critica, bene. Se non lo superano, allora sono delegittimati. Quindi non c’è un’autorità politica, religiosa, scientifica, culturale, mediatica che sia immunizzata rispetto al dubbio e all’inchiesta. È il tema che un grande intellettuale di tanti anni fa, Franco Fortini, chiamava della verifica del potere.

La scienza, in quanto insieme di saperi, ormai da secoli ha avviato una rivoluzione che impronta e informa di sé ogni aspetto della nostra esistenza. Questo grande sapere, tuttavia, non si configura in qualcosa in suo potere, ma si trasforma continuamente in proprietà di altri. Qual è il ruolo della scienza nella nostra società? Esiste libertà di ricerca? Quali sono i condizionamenti in cui scienziati e ricercatori si trovano a operare? E quali le loro responsabilità?

LAURA BOELLA La scienza è diffusa dappertutto ed è un fenomeno che potremmo definire sociale, economico e politico. Anche questo è un altro fenomeno inedito per il mondo contemporaneo. Con le dovute gradazioni, infatti, si può pur sempre accedere al sapere scientifico. Se la fisica quantistica è sicuramente una cosa per super-esperti, le neuroscienze sono invece un ambito sul quale molte persone, anche non proprio specialiste del campo, possono confrontarsi. Tenendo ben presenti queste gradazioni, credo che un elemento importante per la nostra cittadinanza politica sia quello di elaborare personalmente l’esperienza della conoscenza. Prendiamo, per esempio, gli studi sperimentali sul cervello, di cui mi sono occupata nel mio libro sulla neuroetica. Il cervello è un organo estremamente vicino ai nostri comportamenti e lo si studia non solo in presenza di qualche problema neurologico, ma anche in altri momenti, come quando si attiva per permetterci di parlare, di esprimerci attraverso gesti, mimica del volto, espressioni di vergogna o di paura. Nelle sue forme divulgative, la scienza del cervello, oggi avanzatissima e affascinante, dovrebbe impegnarsi sempre di più nel favorire una traduzione in linguaggio corrente, in modo da consentire a tutti di elaborare personalmente i risultati della sua ricerca. Spiegazioni accessibili e chiare del libero arbitrio ci consentirebbero di conoscere un dato ormai inconfutabile, e cioè che ogni atto, che noi riteniamo cosciente e autonomo, contiene anche un quoziente di automatismo e di involontarietà. Il fatto che i meccanismi cerebrali siano automatici e involontari non toglie nulla alla nostra responsabilità. Nel momento in cui sappiamo che una porzione dei nostri atti liberi e coscienti è frutto di processi automatici e involontari, la nostra responsabilità si amplia, perché si estende anche alla parte‘irresponsabile’ del nostro comportamento. Non siamo, quindi, di fronte a un’antitesi tra responsabilità e determinismo. Tutt’altro, siamo di fronte a un mutamento della nozione di responsabilità che sintetizzo così: noi oggi, proprio in virtù della conoscenza scientifica sperimentale sul funzionamento del cervello, siamo responsabili anche di ciò di cui non siamo responsabili.

GIOVANNI BONIOLO La ricerca scientifica subisce sempre dei condizionamenti a seconda del contesto in cui opera. Ciò significa che non sempre e dovunque posso fare qualunque tipo di ricerca, anche solo pensando al fatto che non sempre i miei colleghi sono i migliori del mio settore. Ci sono molti esempi di situazioni irripetibili: a Göttingen, in Germania, tra la prima e la seconda guerra mondiale, c’erano John von Neumann, David Hilbert, Felix Klein, Emmy Noether; a Princeton, per un certo periodo, c’erano sia Albert Einstein che Kurt Gödel; a Roma, i ragazzi di Fermi di via Panisperna. Bisogna anche aggiungere che per fare ricerca servono soldi. In una situazione di scarsità, le allocazioni di risorse per una o un’altra linea di indagine sono una cosa importante. Chi le sceglie? A livello europeo, per esempio, abbiamo il programma ‘Horizon 2020’. Una grande quantità di soldi destinati alla ricerca applicata, perché l’intendimento della Comunità europea è quello di investire in progetti che abbiano subito ricadute concrete. E così non si finanzia più la ricerca di base, con la conseguenza che, fra dieci anni, non avremmo più nemmeno la scienza applicata, perché se non si fa ricerca di base, non si farà più neanche quella applicata. Ci sono quindi sia scelte politiche come queste ultime e sia dei vincoli come quelli sopra descritti. Vincoli contestuali, ambientali e linguistici. Se non conosco la lingua dei miei colleghi, difficilmente riesco a interagire. Altre felici circostanze sono riconducibili a particolari momenti storici. La Grecia in un periodo, la Germania in un altro. Damasco e Baghdad sono stati dei centri di ricerca fisica, matematica e astronomica eccezionali durante il nostro medioevo. Poi tutto è finito. La scienza ha quindi sempre avuto dei legami o dei condizionamenti. Adesso i più evidenti sono quelli economici: non c’è possibilità di finanziare tutto; solo certi gruppi e certe linee di ricerca vengono finanziate. È un bene o un male? È la società di oggi, con tutti i suoi problemi economici. Ciò che è importante capire è che uno Stato come l’Italia investe molto poco sulla ricerca, creando delle costrizioni che sono enormi, nel senso che i ricercatori non hanno risorse e questo rallenta il progresso del Paese. Non investire in cultura, in ricerca, in educazione, è un problema per le generazioni future.

GIULIO GIORELLO Nella nostra società siamo fortemente condizionati nelle ricerche. Faccio un esempio che mi viene daun premio Nobel per la Chimica. Il suo ragionamento era questo: «se devo dare dei risultati nello spazio di tre anni, sono automaticamente limitato. Perché non aspettare quattro anni, invece di tre? O cinque, enne anni?». Porre dei limiti di tempo e di spazio alla ricerca è un modo per confinarla. Occorre che la comunità scientifica trovi la forza di mostrare quanto siano arbitrari questi vincoli. Certo, qualche vincolo ci vuole, ma i vincoli possono essere intelligentemente modificati e la libertà di modificarli in modo intelligente è una versione al tempo stesso della libertà politica e della libertà scientifica.

SALVATORE VECA È difficile dare una risposta univoca. Le risposte potrebbero essere molto differenti a seconda dell’ambito di ricerca scientifica. Nelle medical humanities, per esempio in una ricerca su un farmaco, ci troviamo di fronte a una specie di prossimità tra i ricercatori e i poteri. D’altra parte, la big science, quella che ereditiamo dal secolo scorso, costa molto. Il Cern di Ginevra è certamente un’esperienza straordinaria, ma costa molti, molti soldi. In presenza di sempre più corposi e forti poteri sociali, economici, finanziari, c’è quindi, da parte dei ricercatori e delle ricercatrici, un onere di maggior responsabilità nel preservare la propria autonomia. Credo però che questa questione, in generale, ci ponga di fronte all’esigenza, nelle democrazie un po’ acciaccate di oggi, di una rinnovata alleanza civica tra scienza e società, in quanto gli atteggiamenti di fiducia o di sfiducia nei confronti della ricerca scientifica e di come viene indirizzata in una direzione piuttosto che in un’altra, impongono una sorta di partnership leale e trasparente. La scienza deve rendere conto non solo al suo interno, ma anche al suo esterno, delle proprie conquiste e del carattere fallibile dei propri esiti e delle proprie applicazioni.

A chi appartiene la conoscenza? Esiste un diritto alla conoscenza? Queste domande sono particolarmente attuali se pensiamo alla ricchezza di dati e informazioni che vengono ogni giorno prodotti e consumati. In questo contesto cosa sono la creazione e la proprietà intellettuale? Chi è oggi autore? Si può diventare proprietari di un pensiero? Si può brevettare la conoscenza?

LAURA BOELLA Nell’era della comunicazione digitale, quello dei big data è un problema gigantesco. Lo è per gli stessi ricercatori che, da una parte vorrebbero e potrebbero rendere le loro ricerche open access ma, dall’altra parte, sono loro stessi a rivendicare il primato dei loro risultati, impedendo di fatto l’attuazione di banche dati free. Per quanto riguarda i semplici cittadini, lo scenario dei big data coinvolge innanzitutto le multinazionali dei social che con la nostra partecipazione, attiva o passiva, raccolgono una quantità di dati sulle nostre preferenze nei consumi, sui nostri stili di vita, finanche sulla nostra salute. Tutti dati che sono denaro per quelle imprese. Ormai ci sono telecamere dappertutto che ci riprendono di continuo, nei grandi magazzini o semplicemente per strada: sappiamo quanta importanza possa avere ciò per le agenzie di sicurezza o per le indagini di polizia. E qui si apre un tema che riguarda l’empatia, quello del riconoscimento facciale. Da un viso arrossato o da una piega della bocca si capisce subito se una persona è in imbarazzo o ha un momento di stanchezza. Questi dettagli, che raccolgono stati d’animo diversi, potranno essere trasformati in applicazioni di tipo commerciale. Oppure essere utilizzati in ospedale nel rapporto medico-paziente o a lezione per saggiare l’attenzione degli studenti o, ancora, in un interrogatorio di polizia. Questo è il nuovo mondo che sta dischiudendosi, quello dei comportamenti elaborati dalla tecnologia più avanzata,dalle utilizzazioni profit al controllo poliziesco. Anche questo è un altro campo inedito, in cui non abbiamo norme, non abbiamo regole. La politica è in grado di gestirlo?

GIOVANNI BONIOLO La questione è estremamente delicata. In linea di principio, è ovviamente condivisibile l’idea che la produzione della conoscenza porti a dei frutti che debbano essere alla portata di tutti. Il problema fondamentale è chi finanzia sia la ricerca in se stessa, sia chi la ricerca la fa. La Comunità europea, per esempio, ha stabilito che tutti i risultati ottenuti da ricerche da essa sostenute devono essere open access, ossia a disponibilità di tutti. Anche molte charities, comprese quelle italiane, finanziano alcune ricerche con il vincolo dell’open access. Se un’impresa è invece profit, c’è certamente la possibilità che lo faccia per il bene di tutti, ma è molto più probabile che lo faccia per guadagnarci. Per esempio, produrre un nuovo farmaco può costare 150 milioni di dollari: potrei investirli perché sono buono ma, se faccio business, mi aspetto un ricavo cento volte maggiore. Se in linea di principio, quindi, la conoscenza è di tutti, di fatto dipende da chi ci mette i soldi. Se ce li mette un’istituzione statale, una società internazionale o una comunità internazionale, com’è l’Europa, allora si capisce ed è giusto che la ricerca sia open access. Si capisce meno quando c’è un imprenditore o una multinazionale che investono. Si dirà che con il capitale in attivo si sono prodotti tanti farmaci e si è riusciti a guarire altrettante malattie, ma il problema di fondo non è questo. Il problema vero è a monte: i soldi pubblici, quando vengono investiti, devono dare luogo a conoscenza che è pubblica.

GIULIO GIORELLO Sono contrario all’idea di una proprietà personale: in linea di principio, le conoscenze scientifiche sono un patrimonio di tutta l’umanità, indipendentemente dalle questioni di genere, di affinità politiche, di nazionalità e, per carità, che non mi si venga a tirar fuori la sciocchezza che ci sono delle ‘razze’ che sono più portate di altre per la ricerca o che debbano essere loro a controllarne i risultati, mentre invece altri esseri umani ne sono tagliati fuori. Secondo me questo è un punto estremamente importante, anche in negativo. Uno dei modi per far procedere la ricerca è abbattere tutte queste forme di discriminazioni.

SALVATORE VECA Si può brevettare la conoscenza, ma non si dovrebbe fare. Abbiamo tantissimi dati. Sappiamo ormai che i big data sono un capitale nel senso economico del termine, sappiamo che se ne fanno usi illegittimi. Il caso della societàCambridge Analytica è relativamente recente, e ce ne sono molti altri. Nessuno dovrebbe essere proprietario di un pensiero, perché il pensiero, per sua natura intrinseca, è pubblico, è un classico bene comune. La conoscenza è un bene comune. In presenza di produttori di conoscenza e di controllori dei risultati ottenuti, il problema è allora quello di avere una regolazione che tuteli per chiunque l’accessibilità equa al bene comune della conoscenza.

L’algoritmo è diventato il totem della nostra epoca. Molte delle nostre attività, infatti, sono riducibili a forme digitali. Una dipendenza di cui non possiamo più fare a meno. Le promesse iniziali erano quelle di una società più libera, più uguale, più democratica, più colta e collaborativa. Promesse mantenute? Le azioni congiunte di algoritmi, intelligenza artificiale, big data e tecnologie complesse, con cui ci confrontiamo tutti i giorni, sono neutrali? Quali comportamenti attiva il digitale? Quali i vantaggi e quali gli svantaggi?

LAURA BOELLA «Nessuna Weltanschauung è innocente» diceva il vecchio Lukacs. Oggi potremmo dire: «nessun algoritmo è innocente», ossia neutrale. La realtà digitale, che semplifica molte operazioni nelle nostre diverse professioni, non è altro che la formalizzazione della nostra esperienza. Finché non verremo trasformati in avatar, cloni o esseri bionici, finché manterremo un corpo sessuato, luogo di sensazioni ed emozioni, dovremo ricordarci che l’algoritmo non è che la media di una quantità enorme di dati. Ricorrendo ancora all’empatia, abbiamo visto come i dati raccolti sulla base delle espressioni facciali vengano elaborati dagli algoritmi per produrre applicazioni per i più svariati usi. Ma di quali emozioni stiamo parlando? Prendiamo, per esempio, l’assistente di un hi-phone. Con la sua voce, pare sia in grado – e lo sarà sempre di più – di sentire se abbiamo dei problemi, di chiederci cosa non va e di venirci in aiuto. Ma l’interpretazione dei nostri stati d’animo non è che il frutto di una media statistica determinata da un algoritmo. È la restituzione di un’esperienza media, che non può render conto del momento più unico e singolare, quello dell’emotività. Non è il caso di chiederci se siamo pro o contro, visto che è una realtà in crescita e rispetto alla quale il problema, semmai, è quello di capire meglio cosa stia effettivamente succedendo. Mi limito a dire che dovremmo continuare a esercitarci a considerare l’esperienza in tutta la sua ricchezza. Quindi tutto quello che viene dal mondo digitalizzato, algoritmi, elaborazioni, applicazioni e dispositivi, va bene, ma non per questo dobbiamo escludere l’ampiezza e la ricchezza del nostro vivere, l’esperienza dei nostri corpi, delle nostre menti e dei nostri cervelli. Chi lo sa se le promesse del mondo digitale verranno mantenute. Il rischio è quello di appiattire l’esperienza. Con un touch, posso sì ottenere determinatirisultati, ma è possibile fare esperienza in molti altri modi. Questa è, secondo me, la cosa fondamentale che dobbiamo tenere presente.

GIOVANNI BONIOLO Abbiamo tutti questa paura degli algoritmi. In realtà un algoritmo è una qualunque successione di istruzioni che porta da un input a un output. Risolvere un’equazione oppure andare da Roma a Londra, passando per Parigi, sono degli algoritmi. Seguo una serie di istruzioni e praticamente arrivo dovunque. In ambito informatico, una maggior informatizzazione e una maggior digitalizzazione ci danno maggiore o minore libertà? La risposta non va cercata in termini generali. In generale non lo so. A livello individuale dipende da chi tu sei e dalle tue capacità di usare il mezzo informatico. Non è perché c’è il mezzo informatico, che tu sei libero o sei schiavo: dipende da chi tu sei. Fahrenheit 451 o altri scenari distopici dovuti al Grande Fratello c’entrano poco. Dipende invece da chi tu sei. Qual è la tua capacità di dire no? Qual è la tua capacità di ribellarti? Qual è la tua capacità di migliorare, con il mezzo informatico, la qualità della tua vita, dei tuoi familiari, dei tuoi concittadini? Se sei capace di usarlo, la tua qualità della vita aumenta e così quella dei tuoi familiari e dei tuoi concittadini. Se lo usi, diciamo così, a scopi malvagi, ci saranno delle conseguenze dannose. Dipende da chi tu sei, il mezzo è un mezzo.

GIULIO GIORELLO La questione degli algoritmi utilizzati nella ricerca è una questione estremamente sottile, perché chi ha una certa pratica di cosa sia un calcolo in matematica dovrebbe tener conto di tutta una serie di questioni legate alla sua applicazione. Anche gli studenti delle scuole medie superiori dovrebbero sapere che esistono vari modi di calcolare la soluzione di un’equazione di secondo grado. Questi vari calcoli hanno delle caratteristiche diverse, per esempio uno è più preciso, uno è più rapido, uno dà migliore approssimazione ma è costoso, non foss’altro in termini di tempo, uno invece è meno costoso in termini di tempo o di attenzione, ma dà risultati meno fini. Non basta, quindi, dire che ci sono buoni algoritmi, bisogna sapere quali sono buoni per gli scopi specifici che si vogliono ottenere. Alla fine (o al principio), comunque, non è l’algoritmo che decide, ma l’essere umano.

SALVATORE VECA Come tutte le innovazioni, probabilmente, quella della rivoluzione digitale è la più importante fonte di mutamento nei nostri modi di vivere e convivere. Non prenderla seriamente sarebbe assolutamente patetico.
Sia nel mondo della rete che nello spazio cyborg o, come si dice oggi cyborg phisic, non si finirà mai di sottolineare la completa pervasività caratteristica dell’era digitale e l’interconnessione fra gli esiti dell’intelligenza artificiale e le nostre stesse vite. Sono entrambe divenute estremamente più pressanti. Questo porta al tempo stesso dei benefici, indubbiamente, ma genera anche dei forti costi morali, politici e sociali. È probabile che il tema dell’interconnessione tra virtuale e reale diventerà una posta in gioco per il conflitto democratico. Sottovalutarlo è pericoloso.

Andrea Bajani, nel suo libro ‘Mi riconosci’ racconta un pensiero che gli disse Antonio Tabucchi: «Se l’ignoranza fosse un vuoto sarebbe facile riempirlo di cose, di cultura, di civiltà. Ma l’ignoranza, caro mio, è un pieno. È un muro, e i muri si possono solo abbattere, oppure scavalcare». Cosa ne pensate?

LAURA BOELLA È molto giusta come osservazione. La persona ignorante crede di sapere, contrariamente a Socrate che probabilmente non era ignorante e invece credeva di non sapere. Effettivamente, oggi, l’ignoranza è alimentata da una marea di informazioni, che richiede una selezione. C’è chi crede di sapere qualcosa sui vaccini, oppure anche semplicemente sulla classe operaia, sui disoccupati, piuttosto che sui giovani, salvo però che questo sapere non viene verificato in nessun modo. Di nuovo, quello che serve è l’esercizio dello spirito critico, del saper distinguere. La parola ‘critica’ deriva proprio da distinguere, che nell’etimologia greca si riferiva all’attività del tessitore, che distingue un filo dall’altro e li intreccia. Questa è la materialità della parola critica. Più in generale, sono proprio gli ignoranti a pronunciare frasi come «ma lo so anch’io», oppure «sono capace anch’io». Ricorrere al dubbio e alla possibilità di approfondire: questi sono gesti piuttosto rari da parte degli ignoranti.

GIOVANNI BONIOLO Ci sono ignoranti e ignoranti. Ci sono ignoranti che sanno di essere ignoranti e cercano di colmare la propria ignoranza attingendo a conoscenze che non hanno, studiando e leggendo. Ci sono invece ignoranti che sono orgogliosi di essere ignoranti e pensano di saperne abbastanza per poter dire qualunque cosa in qualunque situazione. Questi sono da temere. Con questi non si deve discutere perché sono assolutamente incapaci di un contraddittorio razionale. Si devono semplicemente combattere.

GIULIO GIORELLO È sempre il problema di fondo. Mi viene in mente una battuta di un fumetto. In un paese in crisi perché manca il pesce, uno dice: «Il male peggiore è la malasorte!». E un giornalista, capitato lì, replica: «No, il male maggiore è l’ignoranza». Sono d’accordo, il male maggiore è l’ignoranza. Passando all’impresa scientifica, questo non vuol dire tracciare arbitrarie distinzioni quasi assolute, come quelle tra scienza di base e scienza applicata. Quando uno dei miei eroi preferiti nel campo della scienza, Paul Adrien Maurice Dirac, grande fisico britannico, introdusse il cosiddetto elettrone positivo, il positrone, pensava di aver elaborato una costruzione puramente teorica. I positroni furono ‘registrati’ qualche anno dopo e sembrava fosse una questione per pochi specialisti. Oggi, in medicina, è abituale usare la PET. Cosa vuol dire PET? Tomografia a emissione di positroni. Quindi, quello che era un elemento di pura fisica teorica è diventato un pezzo dell’arredo del mondo e di questo pezzo siamo stati capaci di sfruttare le potenzialità in campo diagnostico.

SALVATORE VECA Il mio vecchio amico Tabucchi aveva sempre questa capacità di dare immagini molto eloquenti. Il problema dell’ignoranza è la controparte del problema dell’intelligenza collettiva. Quanto più si sviluppa l’impresa scientifica, con tutte le relative cascate di innovazione tecnologica, tanto più aumentano per le persone i costi per accedervi. In altreparole, voglio dire che quanto più si altera il paesaggio naturale in virtù dell’innovazione tecnologica, che è l’ultima faccia della scienza, tanto più noi ci troviamo incerti e ci sentiamo sempre un po’ più antiquati rispetto a noi stessi. Allora qui si genera una delle grandi diseguaglianze del nostro tempo, che è quella che io ho chiamato la ‘diseguaglianza epistemica’, la diseguaglianza nelle capacità cognitive. È vero che c’è sempre stata: basti pensare al rapporto tra medico e paziente, tra fiscalista e contribuente, anche in tempi meno agitati e cupi di quelli in cui viviamo. Ma che cosa sostituiva il deficit di conoscenza? La fiducia. Io mi fidavo perché implicitamente riconoscevo la competenza di uno che sapeva più di me. Ma se oggi posso andare in rete, googlizzare qualsiasi cosa e farmi il ‘fai da te’ della conoscenza, la fiducia in coloro che sanno e che hanno competenza diminuisce. Allora uno vale uno. Allora succede che l’ignoranza diventa una virtù. Penso che Antonio Tabucchi, se fosse qui con noi, inventerebbe un’altra metafora.

E, per finire, come sarebbe il mondo senza scienza?

LAURA BOELLA Impensabile, ma direi non solo oggi, forse già ai tempi di Talete. Fin dall’antichità, l’aspirazione alla conoscenza scientifica è stata fondamentale per il superamento della stessa esperienza sensibile, che va considerata in tutta la sua ricchezza che coinvolge il vedere, il sentire, il toccare. È a partire da questa frontiera che ci si è spinti oltre, per passare, adesempio, dal visibile all’invisibile. La scienza, quindi, come forma di conoscenza e non solo per le sue applicazioni tecnologiche ma anche, soprattutto, come ricerca di base. A questo punto qualcuno potrebbe obiettare che diventa troppo micro e potrebbe non interessare. «A cosa serve studiare quel neurone o quel microtrasmettitore? Dove ci può portare?». Proprio in quel momento, invece, c’è la sua massima manifestazione. Ecco le potenzialità della nostra mente.

GIOVANNI BONIOLO Forse non è mai esistito un uomo senza scienza.

GIULIO GIORELLO Sarei tentato di rispondere selvaggio e brutalone.

SALVATORE VECA Credo un disastro. Come un mondo senza poesia. La scienza è una di quelle poche imprese collettive in cui degli esseri così goffi e limitati come siamo noi, capaci di barbarie, massacri e disastri, sono riusciti, con la conoscenza, a spuntare un po’ di orgoglio e di soddisfazione. Pensiamo soltanto a com’è cambiata la conoscenza del nostro cervello negli ultimi trenta, quarant’anni. Non sappiamo ancora un mare di cose, ma ne sappiamo molte di più di quante ne sapessimo allora. Io credo che un mondo senza poesia, senza filosofia, senza scienza, sarebbe più povero. Un mondo senza scienza sarebbe per noi inaccettabile.
Un mondo con scienza e senza il sapere delle cose umane sarebbe ancora più povero. E darebbe ad alcuni di noi, o a una parte di noi, una sensazione di perdita e dissipazione.

* Le interviste sono state realizzate nell’ambito del Festival Mimesis (Udine, 2018) dedicato alla libertà di pensiero.