VUOTO

Per chi è nato e vive in un borgo dell’Appennino pistoiese confrontarsi sul senso del vuoto significa ripercorrere la storia degli ultimi sessant’anni e fare un bilancio di ciò che c’era, sulle nostre montagne, e di ciò che è rimasto.
E il bilancio è amaro, almeno se per ‘vuoto’ si intende una categoria materiale e di natura socio-economica, legata cioè alla presenza antropica su queste nostre terre alte, la cui condizione attuale è il risultato della somma di tanti vuoti.

Uno di questi è la progressiva e spietata emorragia di abitanti, che ha ridotto molti borghi e borgate a spettri consumati dal tempo e di cui in qualche caso sono rimaste solo le rovine: la natura ne ha fagocitato i campi, gli orti, i sentieri, gli stradelli, un tempo curati da mani istruite da secoli di esperienza e di laboriosità. Un altro vuoto si avverte camminando per i castagneti ed è altrettanto penoso: degli alberi maestosi e produttivi sono rimaste accozzaglie disordinate di rami secchi, di polloni inselvatichiti, di tronchi sdraiati a terra; delle coronelle di pietra costruite intorno a ogni pianta come supporti vivificanti, resta qualche scheletro immemore e monco; le roste e i muretti a secco giacciono divorati dall’incuria e ovunque si avverte un senso di disordine, un caos innaturale, uno scabroso ibrido. A volte un pianoro ancora annerito rammenta un altro vuoto, quello delle carbonaie, architetture di rara perfezione nelle quali legno, pietra e terra trovavano una composizione organica sotto la direzione di maestri boscaioli.

Ma più di ogni altra cosa manca il concerto di voci, di suoni, di rumori che accompagnavano il vivere quotidiano; mancano le botteghe dei sarti, dei ciabattini, dei falegnami che erano presenti in ogni paese, anche il più piccolo, o i richiami vocali degli arrotini, dei magnani, degli ambulanti, delle lattaie: tutti mestieri scomparsi che hanno trascinato con sé una cultura secolare.

Mi dico homo appenninicus, con ironia pseudoscientifica, perché provengo da un altro evo e ho vissuto per un po’ in quel mondo. Di quella vitalità antica non è rimasta quasi più traccia. Restano i toponimi, come straniti e muti testimoni.
Nella valle in cui sono nato, solcata dalla Limentra della Sambuca, sono conservate tracce evocative di luoghi dal passato industrioso, come ‘La vetreria’, ‘Il fabbricone’, ‘La sega’, ‘La birreria’, stampati nella memoria degli ormai pochi e non più giovani residenti.
Quando le sirene del progresso industriale e del benessere generalizzato hanno svuotato definitivamente i nostri monti e le grandi città hanno inghiottito uomini e culture secolari, non si è avuto il coraggio di opporsi a una miopia progettuale collettiva, edulcorata da promesse e facili miti e così abbiamo tradito le nostre origini.
Questo è un altro vuoto assai doloroso che sta determinando una sorta di straniamento esistenziale oltre che una progressiva perdita di saperi e di competenze.

Ma oggi ciò che deve far più temere è ‘il vuoto’, inteso come vacuità delle coscienze, delle menti e dei cuori, una specie di narcosi, di torpore dell’esistere, che ha ripudiato il passato, ha reciso le radici e con esse la linfa vitale di intere comunità, in nome di una monocultura metropolitana incentrata sul consumo e sull’egocentrismo e dominata da un’economia che ha abortito alla propria funzione originaria e più nobile di saggia e oculata guardiana della ‘casa comune’ e si è piegata alle più spietate regole del mercato e del denaro.

Così l’uomo metropolitano sembra intrappolato in una vacuità pneumatica, prigioniero di una giostra che ruota perennemente su se stessa in un infinito oggi virtuale e senz’anima; così il senso di appartenenza, il valore del sacrificio, la testimonianza orgogliosa dei padri, in una parola sola, la memoria, sono diventati un’immagine sbiadita anche in coloro che continuano ad abitare i nostri borghi .
Da questo vuoto è difficile affrancarsi senza un moto di rinascita della volontà e dello spirito, senza una rifondazione etica e morale che scaturisca dalle coscienze.

Purtuttavia ogni vuoto può essere colmato, anche il più radicato, e la storia dell’uomo, compresa quella delle nostre zone, sta a dimostrarlo.
È già accaduto, ad esempio nell’Alto Medioevo, che le campagne e le terre alte della Tuscia siano state abbandonate a causa di continue invasioni, guerre e carestie e siano state loro preferite le città, più sicure e protette, ma si è anche assistito, dopo il Mille, al fenomeno inverso, che ha condotto, per esigenze vitali, a una ricolonizzazione delle campagne e delle montagne, all’introduzione progressiva di nuove colture, come quella del castagno, insomma a una possente opera di runcatio che ha modificato il paesaggio rurale recuperando a fini abitativi, viari e agricoli degli ampi territori invasi dai boschi.

Per restare in ambito appenninico-pistoiese, anche alcuni nostri borghi hanno subito queste alterne vicende, come Torri, un antico paese in terra di Sambuca: alla metà del Quattrocento era stato spopolato da una grave epidemia e il suo vuoto fu poi riempito da alcune famiglie del Frignano che gli restituirono nuova linfa.

I corsi e i ricorsi della storia sono ormai cosa nota e non ci sarebbe da stupirsi se anche in questo nostro tempo, così apparentemente sicuro di sé, ma di fatto tormentato e fragile, si riproponesse con forza un’altra insopprimibile esigenza vitale, quella del ritorno alla campagna e alla montagna, o meglio a una dimensione esistenziale più creativa e appagante, nella quale possano riemergere i geni dell’homo faber che esistono ancora in ognuno di noi e sono stati mortificati dalla civiltà del consumo.
Sarebbe un primo passo per riempire il vuoto.

Questo processo non deve però essere costruito sull’epopea della memoria, del rimpianto e sulla riproposizione nostalgica di un passato che, peraltro, non è mai stato idilliaco, ma deve presupporre un’inversione di tendenza politico-culturale relativa al rapporto tra montagna e città, che attualmente prevede una subalternità della prima rispetto alla seconda.
Gli obiettivi da raggiungere sono l’osmosi, la pari dignità, l’interrelazione, la complementarietà tra queste due diverse realtà, anche esistenziali, perché l’una ha bisogno dell’altra e l’uomo ha bisogno di entrambe.
Il passo successivo per colmare il vuoto antropico è una strategia politico-economica mirata che incoraggi un certo ritorno alle terre alte, sostenga un’economia di prossimità come valore anche culturale oltre che come scelta di vita e caldeggi un’imprenditoria giovanile orientata alla sostenibilità e al rispetto dell’ambiente.
La tecnologia e la scienza si sono ormai dotate di strumenti all’avanguardia e sarebbero in grado di offrire un supporto straordinario per dare un futuro alle terre appenniniche, attualmente sospese tra un passato vitale, un presente disastroso e un futuro ignoto.
Perché, nonostante tutto, l’Appennino è ancora lì, saldo, con le proprie enormi potenzialità e ricchezze, fonte indispensabile di vita e nel contempo miniera inesplorata, e attende un futuro in cui la mano dell’uomo affianchi quella della natura in un abbraccio reciproco, affinché si realizzi un nuovo patto tra tradizione e innovazione.

Molti sono i segnali del desiderio di questa riscoperta e provengono dai territori più svariati e anche più romiti: è in crescita, infatti, il numero di giovani che abbandonano le città per rifugiarsi in montagna e avviare, su proprietà di padri e nonni, nuove attività. Anche così si colma un vuoto e ‘il vuoto’; poi sarà l’Appennino a essere maestro di vita, a svelare le ricchezze che contiene, a dare le dritte a una nuova generazione di suoi figli, come è accaduto varie volte in passato.

Da homo appenninicus educato fin da piccolo alla supremazia della realtà ‘effettuale’, osservo la burrascosa temperie attuale e, avendo il privilegio di abitare in un piccolo borgo dove finisce la strada carrozzabile, guardo i sempre più numerosi bambini che corrono liberi per le viuzze ancora acciottolate e si divertono con niente, come facevamo noi alla loro stessa età, e mi chiedo se questo non sia un promettente viatico per riempire i vuoti e ‘il vuoto’.

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