VUOTO

Andrea Lucatello intervista Nadia Urbinati

Comincerei con una metafora: quella di oggi è una Costituzione sottovuoto, come succede alle opere d’arte nei musei? Tutti concordi sul suo valore e tutti d’accordo a conservarla ma, di fatto, tenuta a debita distanza? In tanti a volerla riformare nei suoi meccanismi funzionali, in pochi a richiamarsi ai suoi valori e ai suoi princìpi, quelli sì risucchiati dal vuoto: vuoto di lavoro, di occupazione, di scuola, di sanità, di ambiente, ma anche di libertà, dignità, informazione, solidarietà. Cosa può dirci a riguardo?

Questa descrizione di una Costituzione amata, ma anche dimenticata e trascurata è molto efficace. Rispetto alla normalità costituzionale, oggi, possiamo riscontrare almeno tre motivi di tensione.
Innanzitutto, nella crisi della pandemia, pur riconosciuta e accettata in tutto il mondo come una situazione d’emergenza, della Costituzione vengono utilizzate in particolare quelle norme che consentono ai poteri costituiti, certo quello esecutivo, di usare la propria autorità in maniera dilatata.
Il secondo motivo di tensione è più strutturato e deriva dall’applicazione della revisione del Titolo V della Costituzione, a seguito della riforma del 1999 (approvata con il referendum del 2000). Ne emergono oggi discrepanze e conflitti difficili da sanare, tra lo Stato e altri organi decisionali come regioni, comuni e anche province, allora menzionate ma di fatto non più operative. Come sta accadendo, per esempio, con il sistema sanitario, la cui funzionalità in questa fase di grande stress ha messo in evidenza rapporti poco chiari e addirittura competitivi tra le parti in questione: un rapporto di difficile mediazione tra l’ordinaria gestione che spetta alle regioni e l’intervento più diretto dello Stato in momenti come questo di emergenza sanitaria.
Il terzo motivo di tensione è la dimensione della non attuazione di una lunga lista di promesse, ovvero di diritti proclamati che attendono ancora di essere pienamente realizzati. Vi è da dire che ‘pienamente realizzati’ si riferisce al tempo lunghissimo che la Costituzione (ogni Costituzione) prevede, in quanto la democrazia è un lavoro mai compiuto e sempre in cantiere. La volontà della politica, tuttavia, sia della maggioranza che dell’opposizione, non si sta dimostrando solo in ritardo, ma risulta del tutto disattenta e disinteressata a queste promesse di libertà, di eguaglianza, di dignità della persona e di opportunità di lavoro. In questo senso c’è discrepanza: una Costituzione stiracchiata da un lato, non ascoltata e nemmeno presa troppo sul serio dall’altro. E in più, la poca saggezza che la politica ordinaria ha dimostrato nella sua revisione, ha creato più problemi che soluzioni.

In questo periodo in cui l’antipolitica la fa da padrona, a porre al centro dell’attenzione la Costituzione e i suoi valori sono i movimenti di cittadinanza attiva, i comitati, i gruppi auto-organizzati. La Costituzione diventa un’istanza politica per rivendicare libertà e diritti. Il conflitto sociale che in essa dovrebbe pacificarsi, si riaccende perché quel conflitto non viene considerato da chi di dovere. Se il suo ruolo di garanzia diventa oggetto di disputa politica, la sua funzione è destinata a svuotarsi?

No, non credo che la funzione della Costituzione sia destinata a svuotarsi. La nostra, come le altre costituzioni dei paesi democratici consolidati, è amata perché ci dà il senso del diritto, della sicurezza, del rispetto di noi stessi; ci fa sentire parte di una comunità democratica e allo stesso tempo ci dà fiducia nella possibilità e nella capacità di realizzare quanto in essa è annunciato e promesso. Su questo, non ho dubbi e sono convinta che gli italiani nutrano nei suoi confronti un’adesione quasi sentimentale. Tutto questo non solo non è decaduto, ma rappresenta lo spirito che la anima, la rende viva nelle istituzioni e soprattutto nel nostro pensiero, nella nostra opinione, nel nostro giudizio. Per quanto riguarda l’antipolitica, l’antipolitica non è contro la politica ma è un modo di essere della politica praticata, anche se con la pandemia si è molto stemperata in quanto, nei momenti difficili, si teme ogni cambiamento. Direi, quindi, che non c’è tanta antipolitica. Quello che io noto – ed è un problema di tutte le democrazie rappresentative e costituzionali, soprattutto di quelle nate dopo la seconda guerra mondiale – è che, più che all’antipolitica, assistiamo all’erosione di quegli attori e soggetti politici che vengono sbrigativamente chiamati ‘corpi intermedi’. Ossia quei soggetti che, un tempo, erano incaricati di tradurre in proposte politiche le istanze, le richieste e le insoddisfazioni dei cittadini. Questa funzione – di organizzare la cittadinanza portandola all’interno delle istituzioni – era dei partiti e si è, come dire, consumata. L’antipolitica nasce proprio in relazione alla decadenza dei partiti e a quello che ne rimane.
A emergere, oggi, sono piccoli gruppi vogliosi di potere che, con promesse elettorali, propaganda e l’attenzione parossistica all’audience sui media pubblici e privati nazionali, conquistano un loro posto all’interno delle istituzioni, senza sentire il bisogno di avere un partito riconosciuto dai cittadini. Anzi, creano partiti in parlamento dove sono entrati con i voti ricevuti facendo campagna per un altro partito – un fatto che mostra il disprezzo verso la rappresentanza. E così si crea quello scollamento tra dentro e fuori le istituzioni che fa pensare alla politica come a un mestiere non più tanto nobile e soprattutto senza legami di rispondenza ideale con i cittadini. È questa che viene chiamata antipolitica. Sono antipolitici quei partiti, nati in questi anni di scontento e contestazioni, che portano in parlamento tanti no, tanti contro, tanti dinieghi, ma che sono poi incapaci di essere propositivi tanto se sono all’opposizione, quanto se sono al governo. E di antipolitica si può parlare anche nei confronti di quei cittadini che, ribellandosi alle élites politiche, non vanno a votare o scelgono liste per lo più moralizzatrici o moralistiche rispetto all’ordine costituito. Per tutti gli altri cittadini resta molto spesso solo il ruolo di un pubblico indifferenziato che deve osservare e giudicare.

Gli anni Settanta, che purtroppo vengono spesso ricordati solo per essere stati gli anni di piombo, sono stati soprattutto gli anni delle grandi riforme. Sono di quel periodo le leggi che hanno dato forma al nostro stato democratico, contribuendo all’attuazione di molti dei princìpi e dei valori presenti nella nostra Costituzione. Non era successo prima e non è tornato a succedere dopo, anzi, oggi quelle conquiste sembrano destinate al congelamento. Perché è successo proprio in quel momento storico?

Gli anni Settanta rappresentano il momento in cui, per la prima volta, a partire dall’unità d’Italia, una generazione, quella di chi era bimbo nei primi anni del dopoguerra, ha potuto organizzare la propria vita privata, pubblica e politica all’interno di culture e con metodi democratici. Le ragazze e i ragazzi che hanno vissuto il ’68 e gli anni immediatamente successivi sono cresciuti con l’idea che la politica potesse cambiare le cose e che potesse cambiarle in meglio. Un’opinione fondata perché, dal ’45 in poi, gli stati democratici stavano dimostrando di poter fare parecchio per la realizzazione dei bisogni e dei desideri dei loro cittadini, espandendo diritti civili e servizi sociali e mettendo in pratica molte delle promesse che le costituzioni contenevano. In Italia, gli anni Settanta sono stati la straordinaria sintesi di quel cammino che ha reso la Costituzione presente, attiva e anche attualizzata. Quel periodo, però, a livello internazionale, è stato anche un periodo di grande reazione a quel processo di democratizzazione. Sono almeno tre i momenti che vanno ricordati.
La guerra dello Yom Kippur in Israele, del 1973, che ha cambiato radicalmente il rapporto tra Occidente e Paesi arabi provocando, tra le altre cose, un aumento vertiginoso del prezzo del petrolio e una crisi economica senza precedenti nei paesi industriali e dipendenti dall’importazione petrolifera. In Italia, il 1973 è stato l’anno dell’austerity, quello dell’inflazione a due cifre, del contenimento energetico, della restrizione dei consumi e dell’aumento della disoccupazione.
Un altro fatto importante da ricordare, sempre all’interno del contesto internazionale in cui l’Italia era inserita, è che nell’agosto del 1971 gli Stati Uniti interrompono unilateralmente la convertibilità del dollaro in oro, mettendo fine agli accordi di Bretton Woods dove la convertibilità era stata decisa in conseguenza dell’analisi che aveva considerato la Grande Depressione come causa della seconda guerra mondiale. Quella data segna, di fatto, la fine della politica concertata della ricostruzione post-bellica, del controllo dei tassi di cambio e dell’inflazione, della cooperazione tra i paesi occidentali per prevenire una svalutazione competitiva tra di essi; segna l’apertura a politiche liberistiche dentro gli stati occidentali e l’espansione globale dell’economia americana, della società di mercato e del consumismo, fattori culturali, oltre che economici, che tanta forza ebbero nel mutare valori e mentalità, soprattutto nelle giovani generazioni. È questo anche il periodo, pur accompagnato da lotte e contestazioni, in cui inizia quel processo inesorabile del successo egemonico della cultura neoliberista con l’avvio delle privatizzazioni e la diminuzione del ruolo sociale dello Stato. Dapprima in Inghilterra con Margaret Thatcher e poi negli Stati Uniti con Ronald Reagan e, quindi, nelle altre nazioni occidentali.
Il terzo momento da ricordare è quello associato al cambio di registro nell’interpretazione della democrazia. Nel 1975 viene pubblicato il documento politico della Trilateral Committee, dal titolo The Crisis of Democracy, che suggeriva ai paesi del Patto Atlantico di correggere i sistemi parlamentari in senso presidenzialistico per meglio pilotare la contrazione delle politiche sociali attivate negli anni della ricostruzione post-bellica. ‘Crisi di governabilità’ (un’espressione lanciata dalla Trilaterale) e ‘crisi della democrazia’ vennero qui usati come sinonimi, a designare l’incapacità delle istituzioni democratiche di resistere alle pressioni della società civile e dei cittadini organizzati. La crisi era dunque identificata con l’attivismo sociale che lo Stato stesso, quando si faceva dispensatore di servizi, generava. A partire da quel documento, le parole d’ordine della politica (in pochi anni anche dei partiti di sinistra, e dello stesso PCI) fu ‘governabilità’ (traduzione di governability) con l’implicito assunto che i movimenti di contestazione fossero un problema e non espressione di vitalità della democrazia, la quale acquistava in tal modo un solo significato: democrazia elettorale, associata, da un lato al professionalismo della politica e, dall’altro, a una società preferibilmente apatica o apolitica. L’obiettivo del superamento della democrazia parlamentare, perché naturalmente più esposta ad essere cassa di risonanza delle richieste sociali, ci ha interessato molto da vicini segnando l’età della cosiddetta seconda repubblica. Il panorama internazionale, quindi, è da tener presente, anche quando intendiamo parlare essenzialmente del nostro Paese. Per concludere, gli anni Settanta sono stati sì gli anni delle grandi riforme, ma anche quelli che hanno visto l’avvio di un processo di declino delle politiche di sostengo della dignità personale, frutto di conquiste sociali. Un po’ come il canto del cigno: un momento alto di produttività di grandi piani di riforme, dallo Statuto dei lavoratori all’introduzione del sistema sanitario nazionale, dal diritto di famiglia al divorzio e all’interruzione di gravidanza, e allo stesso tempo l’inizio dell’agonia dello stato sociale, a causa del rapporto mutato tra economia liberale e democrazia.

Durante i lavori della ‘Costituente’, Giuseppe Dossetti presentò una proposta per un articolo che si rifaceva al principio di resistenza, che recitava: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino». Il tema è quello del dissenso e di un pensiero altro rispetto a quello dell’egemonia dell’esistente. Cosa può dirci a riguardo e, nel caso fosse stato accolto, oggi, un articolo del genere come verrebbe interpretato?

Nell’Assemblea costituente ci fu una discussione molto ricca e interessante. A questo riguardo, alla proposta di Dossetti si aggiunse anche un’analoga posizione da parte di Costantino Mortati. L’idea che la Costituzione dovesse accogliere un principio di resistenza viene (anche) dalla tradizione tomista o neotomista, che considera il potere costituito sempre esposto alla possibilità di degenerazione tirannica, lasciando in questo caso al sovrano – e quindi al popolo – la funzione di controllo e di fermo rispetto al suo operato.
Nelle democrazie moderne un esempio è quello statunitense: il secondo emendamento della Costituzione garantisce il diritto di possedere armi, non certo per attaccare altre persone, ma per far sentire allo Stato che i cittadini sono in armi sempre, pronti a reagire agli abusi del potere.
Penso sia stato saggio e corretto non inserire questo articolo, perché una Costituzione che al proprio interno prevedesse il potere dei cittadini di giudicare, con potere effettivo di veto, della legittimità delle decisioni ordinarie, risulterebbe contraddittoria se non addirittura suicida. Senza esporsi a un così alto rischio di instabilità, penso che ci siano altre forme di dissenso che possono esercitare questa funzione di resistenza. Con la libertà di parola e di associazione, le democrazie costituzionali mettono in campo l’azione civile e pubblica dei cittadini attraverso movimenti che sorvegliano e criticano, che infine creano opposizione con azioni di protesta, se necessario. Oggi, noi, ne abbiamo più che mai bisogno.
A tutti i livelli, centrale e periferico, compito della cittadinanza è anche quello di sorvegliare e controllare come vengono utilizzate le risorse o come vengono definite le leggi e le riforme. Ci sono decisioni prese da parlamenti, governi e regioni che sono assolutamente poco sagge, che sono spesso disfunzionali e in molti altri casi sbagliate. E oggi, come tutti possiamo vedere, paghiamo queste decisioni perché, per esempio, almeno due decenni di dimagrimento del sistema sanitario ci hanno portato a dover limitare moltissimo le nostre libertà. Perché le nostre libertà di movimento sono così limitate? Perché siamo costretti nelle nostre abitazioni da così tanto tempo? Perché per risparmiare abbiamo depauperato il territorio di molti piccoli ospedali, di presidi sanitari, di medici di base, con il risultato di sistemi sanitari impreparati e pochi posti letto per i malati.
Oggi ci rendiamo conto che questo è contro le nostre libertà ed è contro la nostra sicurezza della salute. Furono decisioni sbagliate, rispetto alle quali noi cittadini non abbiamo avuto la possibilità ex ante, prima che venissero fatte, di chiedere conto su cosa stesse succedendo. Abbiamo delegato completamente ai rappresentanti, anche quando questi non avevano più un’unione ideale o ideologica con noi. Non essendoci più i partiti, che facevano questo tipo di controllo, chi deve farlo, se non gli stessi cittadini? È un compito difficile e occorrono movimenti nuovi e anche, probabilmente, alcune riforme di tipo procedurale che consentano ai cittadini di partecipare ai cambiamenti che riguardano la loro vita, come la certezza delle condizioni primarie di salute, la protezione dei territori dai progetti di devastazione, la rinascita della scuola pubblica. Questi progetti sono un esempio di come le politiche debbano cambiare direzione rispetto alle decisione assolutamente imprudenti e sbagliate a causa delle quali stiamo oggi pagando un costo alto. Noi non possiamo non essere interpellati.

L’articolo 139 della Costituzione recita: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Il riferimento storico farebbe pensare che non si può tornare alla monarchia. Ma oggi gli stati moderni prendono forme per lo più inedite, basti pensare a quell’ossimoro proposto da Predrag Matvejević e cioè ‘democratura’. Che valore assume, oggi, questo articolo?

È un articolo fondamentale che possiamo considerare come la conclusione coerente dell’articolo 1. L’articolo 139 dice chiaramente che la nostra Costituzione è una costituzione che disegna uno stato repubblicano democratico. Punto! Se si vuole un altro regime, lo si può fare, ma non con questa Costituzione. La Costituzione dice che questa è la nostra identità, per cui, se si vuole altro, si vada per vie extra-costituzionali che possono essere politiche o anche violente, ma sicuramente non costituzionali. Per fare un esempio, non possiamo avere uno Stato democratico monarchico come l’Inghilterra con questa nostra Costituzione. Oggi si parla di regimi ibridi, mezzo democratici e mezzo autocratici, dispotici, esecutivisti. Ma queste sono definizioni da scienziati politici, la realtà è che se il presidente di un governo acquisisce un potere superiore a quello che la Costituzione gli conferisce, senza interventi e modifiche, allora fa un colpo di stato, non c’è altro da dire. Non si possono accettare ‘accomodamenti’ e pensare che sia possibile avere ibridazioni antidemocratiche restando dentro l’alveo di una costituzione democratica come la nostra. Alcune costituzioni democratiche sono più facili da modificare di altre: in genere le modifiche non sono difficili, anche quando le costituzioni sono rigide. Come la nostra che consente delle malleabilità ed è stata cambiata varie volte, checché se ne dica. Ci sono delle procedure di riforma che consentono modifiche, questo lo sappiamo; ma, a volte, queste modifiche possono assumere forme autoritarie. È quello che succede ed è successo nei paesi populisti dell’America latina o che sta succedendo in Polonia e in Ungheria. In quest’ultimo caso, abbiamo visto quanto sia stato facile cambiare la Costituzione per rafforzare il potere della maggioranza, ovvero di Fidesz, il partito che governa da una decina d’anni. Il presidente Orbán, contando dal 2011 di una grossa maggioranza del suo partito in parlamento, ha cambiato la faccia di quella democrazia, facendola diventare un ‘maggioritarismo’ costituzionalizzato. Una maggioranza si è scritta la propria costituzione secondo i suoi disegni e si è così costituzionalizzata. Non la si chiami democrazia parlamentare: questa è una forma autoritaria, basata indubbiamente su libere elezioni che però si riducono all’adesione a un progetto politico come se fosse una cambiale in bianco. Ma libere elezioni presuppongono pluralismo, libertà di stampa e di associazione, mentre sappiamo che tutto ciò, in Ungheria, è stato molto compromesso. Spesso non con interventi diretti, perché, come membro dell’Unione Europea, rischierebbe di cadere in sanzioni, ma finanziando istituti e fondazioni che controllano tutti i mass media. La libertà di espressione è castigata e solo formale e così il suffragio attribuisce, ex ante, un peso maggiore a una parte, la maggioranza, restringendo la possibilità dell’opposizione di diventare a sua volta maggioranza. Non credo, quindi, che si possa parlare di regimi ibridi: sono autoritari.

La nostra Costituzione è strettamente legata alla Resistenza e alla lotta contro il nazi-fascismo, ma la storia e soprattutto la memoria si prestano a diverse interpretazioni. Si tende ad accumunare le parti, ma la Costituzione è chiara: è antifascista. Perché, allora, assistiamo a tolleranze di vario genere? Dall’apertura di sedi di partito, di case editrici, a comportamenti che possono portare a emulazione? Com’è possibile?

In questo, la legge costituzionale è molto chiara. Non sono solo fuorilegge i movimenti e i partiti fascisti, ma anche quelli la cui propaganda si ispira al fascismo. Occorrono, oltre alla Costituzione, anche leggi attuative più severe e meno lassismo da parte della politica e delle forze dell’ordine. E in più, se c’è un atteggiamento tollerante nell’opinione pubblica, questo dipende anche da tutti noi. Non dovremmo comprare libri che inneggiano a Mussolini e al fascismo e non dovremmo seguire programmi televisivi che danno una lettura sbagliata o, se non sbagliata, per lo meno tendenziosa, della storia. Dovremmo boicottare: non comprare e non guardare. Dovremmo denunciare. Non c’è mica molto altro, però lo si può fare. Dividersi i compiti: da una parte il controllo che i cittadini possono fare e, dall’altro, l’azione delle istituzioni e di norme attuative efficaci.

Dai tempi di Antigone il rapporto tra legge e giustizia è uno dei temi più tormentati della nostra convivenza sociale. In questo senso, quali suggerimenti ci dà la nostra Costituzione? Vale come riferimento anche nell’interpretazione e nell’applicazione di una legge? Oppure vale il motto ‘dura lex, sed lex’?

È il momento applicativo delle leggi che dobbiamo tenere sempre presente, perché è quello che ha una ripercussione diretta nelle nostre vite. Le nostre norme costituzionali invitano a tenere conto di un contesto generale. In questo senso, l’articolo più significativo è l’articolo 3, che ci mostra un ampio quadro all’interno del quale una legge può o non può essere fatta. Facciamo l’esempio di una legge recente, quella contro la tortura, arrivata dopo troppi anni: c’è davvero? non c’è? è malfatta? Sta di fatto che attende ancora una normativa che sia coerente con la Costituzione. Ci sono ancora troppe norme della nostra legislazione ordinaria, soprattutto nelle materie penali, molte delle quali precedenti la nascita della Repubblica, che sono ancora in vigore e che non si sono certo ispirate alla nostra Costituzione. Lo Stato, infatti, continua al di là dei regimi che lo rendono operativo. Anche in questo caso, la funzione fondamentale è quella civica della cittadinanza che deve essere di monito nei confronti di un potere costituito che tende a preservarsi.

Tornando a un possibile vuoto di rappresentanza, assistiamo a una sua profonda crisi: è un problema di leggi elettorali, di fiducia nel sistema politico, o delle modalità di partecipazione?

Direi tutto questo insieme. La rappresentanza politica disegnata dai padri fondatori aveva individuato degli attori strutturali nei partiti che, con la loro capacità organizzativa, sapevano trasformare le istanze sociali in visioni politiche, unificando e rendendo attive le diverse parti della società. Questo, oggi, non c’è più; c’è, invece una forte disgregazione sociale. Ci sono interessi potenti molto ben strutturati e con forte rappresentanza sociale e politica, e ci sono i cittadini ordinari che non hanno la stessa possibilità di incidere se non attraverso i media e internet, strumenti sicuramente importanti ma che non bastano a superare la loro percezione di non avere potere oltre a quello, altrettanto importante, del voto. È quindi vero che c’è questa crisi, come in altre democrazie e come si vede dalle formule populistiche che emergono. Una soluzione sarebbe quella di approntare modifiche alle forme partecipative. Casi ce ne sono. Per esempio, a livello locale, in Emilia-Romagna e Toscana, le regioni che conosco meglio, ci sono forme di consultazione popolare orientate a raccogliere pareri e suggerimenti su specifici temi di interesse generale. Forme di partecipazione più diretta che non dovrebbero limitarsi solo a referendum abrogativi ma anche a proposte legislative. Per questo ci vorrebbe, da parte dei cittadini, una voce più forte e meno disgregata di quella che non abbiano oggi. Dobbiamo essere più guardiani della nostra Costituzione di quanto non lo siamo, una cosa che un tempo facevano i partiti e che oggi dobbiamo fare noi un po’ più direttamente.

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