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Il teatro civile motore di consapevolezza. Intervista a Ulderico Pesce

In questi anni, il teatro civile sta diventando uno dei pochi strumenti per accedere a un’informazione indipendente che altrimenti cadrebbe nell’oblio. Tu ne sei un rappresentante. Cosa puoi dirci a riguardo?
Non sono molti a farlo e sono felice di farne parte. Mi occupo dei cosiddetti temi di impegno civile, anche se poi lo faccio con grande ironia e con grande senso del gioco, recuperando, per quanto racconto, i meccanismi e i codici teatrali. Mi sono reso conto, col tempo, che già la vita stessa si sviluppa drammaturgicamente: basta osservare attentamente la realtà e portarla in teatro. Sono cresciuto portando grande attenzione alla strada, perché credo che il teatro ufficiale, quello fatto di finanziamenti pubblici con attori che parlano come parlano gli attori, con il loro fare enfatico, abbia fatto il suo corso. Mi sono formato con Anatoli Vassiljef che diceva che «gli italiani sono i più grandi attori del mondo, tranne gli attori, però», perché questi si sono ormai allontanati dalla realtà e parlano un linguaggio che non è più quello della vita. Non avendo bisogno di scene e allestimenti pretenziosi, il teatro civile si distacca dalle logiche degli affari e delle lobby, ha invece bisogno di storie e di drammaturgia.

Multiverso ha dedicato il suo primo numero al tema degli scarti. Tu li hai portati in scena sia come scorie e rifiuti, sia come veri scarti umani, i respinti dalla società e dal sistema. Cominciando da ‘Storie di scorie’ e da ‘Asso di monnezza’, cos’è che l’opinione pubblica ignora riguardo i pericoli nucleari e il traffico illecito di rifiuti?
L’opinione pubblica in Italia ignora tutto, ma non per colpa sua. Gli italiani sono esattamente come gli altri popoli. Da noi, però, molte informazioni sono sotto bavaglio e chi dovrebbe informare non lo fa. In più, esiste il segreto di stato e per molte tematiche c’è il divieto assoluto di informare. Io, questo divieto, l’ho violato in ‘Storie di scorie’, in ‘Asso di monnezza’ o anche in ‘A come amianto’. Mi son dato da fare seguendo le indagini della magistratura e ho raccolto molte informazioni, qualche volta anche qualcuna che non avrei dovuto avere. Quando è successo, per esempio con alcuni documenti della Sogin (la Società per la gestione degli impianti nucleari che ha il compito di gestire le scorie radioattive degli impianti italiani dismessi dopo il referendum del 1987), quel segreto l’ho violato in ‘Storie di scorie’ e per questo sono stato interrogato per giustificare come fossi riuscito ad averli. Ed è anche per questo che ogni tanto mi trovo sotto la vigilanza e la tutela delle forze dell’ordine, non una scorta, ma poco ci manca. La situazione è questa e, se non si fa nulla per informarsi, si finisce che le cose importanti non si sanno mai.

Qual è, in Italia, la situazione ambientale?
Come ho già detto, gli italiani avevano detto no al nucleare ancora nel 1987 e lo hanno dovuto ribadire anche quest’anno perché, nonostante la volontà popolare, gli intendimenti del Governo erano quelli per una sua reintroduzione. Quello che non si sa – per dire delle informazioni minime che non passano – è che il 7% della bolletta dell’Enel, che dovrebbe servire per la ricerca per l’energia alternativa, veniva utilizzato per i progetti di riapertura delle centrali nucleari, contrastando così la volontà popolare. Per non parlare poi dei rifiuti tossici, su cui manca una vera legislazione e soprattutto manca in Italia il reato contro l’ambiente, non c’è nel codice penale. Se uccidi qualcuno o se rapini una banca in Francia, in Germania o in Italia ti fai un bel po’ di anni di galera, se invece butti veleno in un fiume, nel mare o sotto terra, se sei in Francia o in Germania la galera la fai perché il reato contro l’ambiente è nel codice penale, se invece sei in Italia paghi solo un’ammenda.

E per quanto riguarda quelle che ormai chiamiamo le non-persone, il tuo viaggio in Italia ha toccato il mondo della nuova schiavitù, degli immigrati clandestini impiegati e sfruttati come raccoglitori nelle campagne del Sud.
Questo lavoro del 2004 ‘Il Triangolo degli schiavi: i lavoratori clandestini in Italia’ l’ho fatto con il gruppo musicale Têtes de bois e con Teresa De Sio. Andammo a Borgo Libertà, vicino a Cerignola, a Foggia, per fare una ricognizione con Medici senza frontiere. Mi sono trovato di fronte a situazioni di cui m’aveva parlato mia nonna e che però si riferivano alle condizioni dei braccianti meridionali del ’46/’47; lì, quegli stessi racconti, li vedevo invece davanti a me, con i miei occhi, a sessant’anni di distanza. Nei video che mostriamo si vede una ragazza di ventitré anni, Camilla, al terzo mese di gravidanza, che vive in una casupola, senza bagno, senza elettricità, senza niente, le porte sempre aperte, non ci sono finestre, solo cartoni, bene, vive là dentro e a poche centinaia di metri ci sono le prime case con mamme italiane che portano i loro figli a pianoforte o a danza e questa ragazza vive senza acqua, senza luce, senza nulla. Racconto della sua vita e di come gli hanno ammazzato Piotr, il fidanzato polacco. In Puglia, in quegli anni, erano più di cento i polacchi spariti. Bastava andare sul sito della polizia della Polonia per vedere le loro facce, uno di questi era stato ucciso da un ‘caporale’ ed era il fidanzato di Camilla. Ora è sepellito nel cimitero di Orta Nova. Forse, quello dei clandestini, è il tema che gli italiani affrontano nel modo peggiore, cercando di chiudere le frontiere ma le terre vicino al mare non sono recintabili, appartengono a tutti. Nello spettacolo riprendo un pensiero del Levitico della Bibbia che mi piace molto, dice che la terra non è tua, è del Signore, che non la puoi recintare, prima o poi la devi restituire.

Una situazione che il nostro Paese sta cercando di regolare. Qual è la situazione?
Il pacchetto sulla sicurezza fa vergognare l’Italia e, a mio parere, contraddice il codice, perché nel resto del mondo civile vieni condannato se compi un’azione fuori dalla legge, non so, se tiri un cazzotto o hai rubato. Da noi, invece, se uno straniero è sul suolo italiano e non ha un contratto di lavoro è penalmente colpevole, è colpevole per la sua sola presenza, non perché fa qualcosa di sbagliato. È colpevole perché c’è. Ma si può vietare a una persona di essere in un luogo? Certamente si possono imporre delle regole affinché questa persona si comporti con le regole del paese dove arriva, ma facciamogli prima capire quali sono queste regole prima di arrestarlo e di essere ‘colpevole’. E di che? Che ha messo i piedi sul suolo nazionale?
Il cimitero di Orta Nova è pieno di clandestini senza nome, perché non lo conosciamo, loro stessi non lo dicono, buttano subito via i documenti perché le leggi italiane sono così spietate che in quei casi è meglio far finta di non avere un’identità. Arrivano fino a bruciarsi i polpastrelli delle dita cosicché, se la polizia li acchiappa, manco le impronte riescono a prendergli. La contraddizione più forte però è che gli stessi che si fanno paladini dell’integrità del suolo sono anche quelli che poi sfruttano la forza lavoro dei clandestini, difendendo i profitti degli imprenditori italiani. La manodopera italiana costa, ci sono i diritti sindacali, le assicurazioni, i contributi pensionistici, è meglio così affidarsi ai clandestini, perché di loro puoi liberartene quando vuoi, li puoi ricattare, farli faticare con i ritmi che vuoi. Buona parte dell’economia italiana si basa sull’illegalità, non solo quella dei capannoni, ma anche quella delle grandi ditte.

Tutto questo sembra riguardarci solo per certi aspetti e, invece, quello dell’esclusione è un dramma della nostra stessa società: il riferimento è al mondo del lavoro, dove le restrutturazioni producono disoccupati che diventano, anche loro, non-persone.
Oramai stanno creando un sistema che, in tutti i settori, a partire da quello metalmeccanico, produce non-persone, veri scarti umani. Un operaio che deve fare diciotto turni e fa le notti non ha più tempo libero, non può stare con i figli, fare uno sport, andare al cinema. L’annientamento del contratto nazionale del lavoro, come sta facendo la Fiat e come faranno le altre grandi fabbriche, ci riporterà a una mancanza di regole, con il risultato di un peggioramento della condizione dei lavoratori. Questo succede anche per i ‘nuovi’ lavori. Recentemente ho incontrato i dipendenti di un call center che lavorano per una catena di grandi alberghi. Il loro compito è quello di chiamare a casa e proporre alle persone una speciale carta di credito che offre una serie di vantaggi e opportunità. Per continuare a lavorare devono riuscire a piazzare quattro carte di credito al giorno, se ne fanno tre sono a rischio, con due vengono cacciati. Devono seguire un questionario e non devono mai mollare la presa fino a quando spesso vengono mandati a quel paese. Questo per dire che anche in un call center ci può essere la schiavitù e così si innesca la logica dello scarto. Io allora vorrei ridiscutere i sistemi e il sistema capitalistico che abbiamo inventato. Se c’è uno scarto è perché c’è qualcuno che ti scarta. Ma in base a cosa si viene scartati? Prevalentemente per la difesa della ricchezza. Soldo vuole soldo. Se non riconsideriamo i criteri della redistribuzione della ricchezza, ci saranno scarti di continuo e da uno scarto passeremo a un altro scarto. Il problema è serio ed è politico.

Nella società dell’ipermedialità, dove tutto è mostrato e tutto è stato visto, niente fa più impressione. La spettacolarizzazione del dolore, della sofferenza e della morte ci ha immunizzato da ciò che consideravamo osceno, fuori dalla scena, arrivando fino al punto di farlo proprio e di legittimarlo. Lasciare affondare un barcone con delle persone disperate non solo è tollerato ma è diventato giusto. Con il tuo teatro essenziale e scarno, è come se volessi riportare in scena quell’empatia e quell’immedesimazione con le tragedie della vita che danno un senso alla necessità di restare umani.
L’ottica con cui mi pongo è un’ottica non televisiva, non moderna, piuttosto è vecchia, antica. Mi accorgo che ragiono come mio nonno perché guardo alle cose come chi non è abituato e racconto le cose che vedo e che mi fanno pietà ed orrore. Già Pasolini ci ricordava che saremmo andati incontro alla dittatura della televisione che è arrivata a mostrarci il dolore, tutto il dolore, in diretta. Quando hanno trovato il corpo di Sarah Scazzi la madre l’ha saputo in diretta a ‘Chi l’ha visto’. Siamo diventati guardoni. Guardiamo, cioè abbiamo un’ottica pornografica ormai su tutto, anche per gli argomenti non pornografici, ma l’ottica è quella, quella di provare piacere nell’evoluzione del dolore di un altro. È terribile.
È chiaro che proviamo dolore quando vediamo quella madre, però quel dolore là non dovremmo vederlo, dovremmo avere rispetto e la tv non dovrebbe farlo vedere. Non si può rendere pubblico quel dolore, perché poi un bambino cresce che oramai è così tanto pratico di dolore, di pietà, di morte, di gioia che non se li vive più questi sentimenti, perché ha perso le coordinate. Oggi vediamo i bambini africani che muoiono mentre mangiamo, il tg fanno vedere bambini con le mosche in faccia che muoiono e noi continuiamo a mangiare con tutta serenità e tranquillità. È chiaro che va ridiscussa anche una politica televisiva ma è altrettanto chiaro che quelle cose le fanno vedere perché fanno ascolto, fanno audience e in mezzo a quelle cose ci ficcano la pubblicità e noi poi andiamo a comprare il telefonino, il registratore, l’orologio, la maglia.

A guardare il tuo impegno, sembrerebbe che il teatro non ti basti. Da qui il tuo attivarti per chiamare tutti a partecipare, le tue petizioni che non si fermano al palcoscenico, le tue campagne di sensibilizzazione e il tuo blog per parlare alla rete. Insomma, sembrerebbe un invito a domandarsi: «da chi dipende, se non da ciascuno di uno di noi?».
Sì, questa è proprio la mia natura. Lavoro sempre con due prospettive, oltre a quanto succede in scena mi piace che lo spettatore reagisca in termini di consapevolezza e di capacità d’azione. Per questo, in teatro, non uso mai il sipario, non lo metto se no è ‘arte per l’arte’, si torna a casa e finisce lì, io invece voglio che il racconto continui. Lo faccio continuare chiamando le persone a una reazione sociale e chiedendo loro di firmare le petizioni che, in questi anni, ho lanciato attraverso il mio sito web. La partecipazione è stata sorprendente, arrivando a una media di sette-ottomila persone. Alcune battaglie le ho vinte e pensare di farlo attraverso il teatro e un sito internet è eclatante. Magari piccole cose, ma molto significative, come il disisotteramento e la messa in sicurezza di un tubo radioattivo che collegava un deposito nucleare al mar Jonio o come altri casi simili di scarichi di liquidi radioattivi nel Po, nel Tirreno e in altre parti. Sono particolarmente contento di un altro successo dal valore molto simbolico. Siamo riusciti a dare degna sepoltura a un anarchico, Giovanni Passanante, che aveva attentato alla vita di re Umberto I. Il suo cervello e il suo cranio se ne stavano in una bacheca al Museo del crimine di Roma. Alla sua morte, infatti, dopo trentadue anni di carcere, gli segarono il cranio e la presenza di una fossetta dietro l’osso occipitale, secondo le convinzioni del Lombroso, divenne la conferma che era un criminale. Un uomo che chiedeva l’avvento della repubblica, che difendeva i diritti degli operai e chiedeva più scuole e ospedali non deve stare al Museo del crimine ma in quello dei diritti dei lavoratori. Ora, Passanante riposa nel suo paese d’origine, a Savoia di Lucania.

Come mai questo nome? Ha che fare con l’attentato?
La cittadinanza, per la vergogna e per chiedere perdono al Re, fece in modo di cambiare il nome da Salvia di Lucania in, appunto, Savoia di Lucania. Che quella cittadina riesca a riavere il suo nome antico è una delle petizioni che si possono ancora sottoscrivere sul mio sito www.uldericopesce.it.

Nelle tue rappresentazioni, da una parte c’è un forte richiamo alla legalità, dall’altro un invito alla resistenza, a non accettare l’esistente e a immaginare altri modi di convivenza sociale. Interpretando i classici hai ripreso anche Antigone, che attraverso la disobbedienza ha voluto rispettare i principi che osavano andare oltre alla legge degli uomini. Che rapporto c’è, secondo lei tra legalità e disobbedienza?
Il teatro, nell’antica Grecia, prevedeva la reazione sociale di cui parlavo e la tragedia di Antigone ne è un esempio. Antigone va a morire perché, per ordine di Creonte, non può seppellire il fratello morto. Non è giusto che Antigone paghi con la morte questa ingiustizia, ma andando a morire, non disobbedisce, diventa martire. La vera disobbedienza, invece, è quella di Passanante. In una lettera alla madre del 1879, scrive che al Re vorrebbe dire: «io disobbedisco». Non, quindi, come Antigone e Socrate che, per attestare l’arroganza della legge, si tolgono la vita ma, così facendo, non fanno altro che obbedire a una illegalità che si è trasformata in legalità. E in Italia di casi, più o meno riusciti, di illegalità trasformati in legalità, ce ne sono parecchi. Da gladio alla strategia della tensione, dalla P2 alle P3 e P4 di oggi: l’illegalità resa legale è sotto gli occhi di tutti. Contro chi, dunque, è giusto disobbedire? Il problema è davvero serio perché l’illegalità non è solo quella pubblica e politica, ma è dentro ognuno di noi. Con chiunque si parli, tutti si sentono il diritto di avere di più, il loro figlio deve andare avanti più degli altri o la madre deve avere la pensione più alta. Per essere felice, non devi pensare solo ai soldi, è meglio avere poco e coltivare un’esistenza che fai crescere giorno dopo giorno. L’obiettivo dei soldi deve sparire, altrimenti dell’illegalità non ce ne libereremo mai.

ULDERICO PESCE

Ulderico Pesce, attore e regista teatrale. Si diploma attore all’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa, poi regista presso l’Accademia d’Arte Drammatica di Mosca, ed infine consegue la laurea, con il massimo dei voti, in lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma. Oggi dirige il Centro Mediterraneo delle Arti, compagnia teatrale riconosciuta dal Ministero dei beni culturali. È inoltre autore, narratore e regista di opere teatrali, molte delle quali trattano temi cari alle popolazioni della sua terra, la Basilicata, e del Mezzogiorno in generale.