CRAC

Quando la Storia si spezza, irrompono sulla scena della rappresentazione delle vicende umane gli attori più antichi: l’avvenimento e il protagonista sconosciuto. Regni e imperi crollano per mano di uno studente con in tasca una rivoltella (Gavrilo Princip, Sarajevo, 1914), per un giornalista che rivolge una semplice domanda in una conferenza stampa ad un ministro (Riccardo Ehrman, Berlino est, 1989), per un funzionario della posta che riconosce un re in fuga (Jean-Baptiste Drouet, Varennes, 1791).

L’importanza delle azioni individuali era uno dei fili rossi che ordinava la trama della storiografia degli antichi, con i suoi cicli perpetui di nascite, crisi e crolli, con le ascese e cadute, le albe, gli apogei e i tramonti delle civiltà. Sull’uomo e sulle sue costruzioni governava però il caso, e la sua inumana giustizia.

Contro questa filosofia della storia la storiografia occidentale ha combattuto, e forse vinto, una lunga battaglia, per restituire ragionevolezza e intelligibilità alle cose umane. Non per un semplice omicidio politico si sgretolò l’impero austro-ungarico ma per l’incapacità di quel fossile multinazionale di affrontare la polveriera balcanica. Non perché un ministro in difficoltà autorizzò gli spostamenti da Berlino est cadde il muro ma per l’esaurimento di un regime che aveva da qualche giorno liquidato il suo stesso leader. Non per una semplice coincidenza Luigi XVI, travestito da mercante, dovette interrompere la sua fuga maldestra: la sua stessa condotta doppiogiochista lo aveva messo in un vicolo senza uscita.

Nel corso del Novecento, la pratica storiografica si è spinta fino a negare il concetto stesso di frattura, sostenendo che non sono tanto le crisi e le discontinuità a dettare i tempi della Storia, bensì le regolarità, le inerzie, i cambiamenti impercettibili che si perdono nella quotidianità. La Rivoluzione industriale? Una transizione lenta che per decenni non produsse effetti apprezzabili in termini di reddito e struttura produttiva. Quella francese? Un sommovimento generato dai ceti dirigenti per assestare nuovi equilibri interni ai medesimi gruppi sociali. Il cambiamento più rivoluzionario nella storia dell’uomo? La transizione neolitica, che impiegò tre mila anni e cento generazioni per diffondersi in Europa. Il fatto più rilevante del Novecento? La crescita demografica del pianeta.

Iniziata nell’Ottocento, la marcia delle macrocause alla conquista della spiegazione dei fatti umani è avanzata di successo in successo fino al secolo scorso. I popoli nelle storiografie nazionali ottocentesche, la lotta di classe e la distribuzione dei mezzi di produzione nel materialismo dialettico marxiano, la ‘massa’ nelle spiegazioni sociologiche di fine Ottocento, la ‘lunga durata’ e la ‘struttura’ nella storiografia della scuola francese di «Annales», tutti questi principi ordinatori della lettura del passato hanno avuto il loro momento di gloria ed hanno tutti, chi più chi meno, finito per emarginare l’evento e il ruolo del singolo individuo dalla spiegazione storica.

Sulla scia della crisi delle ideologie, negli ultimi decenni del secolo passato il pendolo dell’orientamento storiografico si è però di nuovo spostato dalla parte opposta, e la ricerca delle discontinuità, degli eventi singoli (casuali e non solo causali) è tornata ad intessere il discorso storico. Anche sotto la spinta degli assordanti avvenimenti del presente, dal crollo del regime sovietico all’11 settembre.

Sullo sfondo, rimane senza soluzione la questione più banale e dunque più importante. Di quali strumenti dispongono i contemporanei per percepire l’avvicinarsi del crollo, lo scoppio di una crisi? Due libri recenti (Quando crolla lo Stato. Studi sull’Italia preunitaria, a cura di P. Macry, e Catastrofi. Una storia culturale di F. Walter) parlano anche di questo.

La cultura dell’antichità, del medioevo e della prima modernità, ad esempio, aveva perfezionato un complesso sistema ermeneutico di segnali preannuncianti il disastro, in cui catastrofi naturali e avvenimenti eccezionali trovavano la loro spiegazione in termini escatologici. Per Lutero, ad esempio, il Sacco di Roma del 1527 fu il primo segno della punizione divina che si sarebbe abbattuta sulla Babilonia romana. La frana che nel 1618 in Valtellina inghiottì 900 anime venne subito messa in relazione con lo scoppio contemporaneo della guerra dei Trent’anni, un lungo conflitto estremamente sanguinoso. Secondo il medesimo meccanismo di ricostruzione morale degli accadimenti, per il reazionario De Maistre la stessa Rivoluzione francese era stata inviata da Dio per punire la mancanza di fede degli uomini del Settecento. Disponendo dei codici di tale analisi indiziaria era dunque possibile riconoscere (se non altro ex post!) i fenomeni che annunciavano il crac.

L’età della ragione e lo scientismo ottocentesco evaporarono una tale consapevolezza. Attraverso le pagine del Candide volterriano l’immane disgrazia del terremoto di Lisbona del 1755 contribuì alla desacralizzazione dell’universo e all’abbandono della semiologia indiziaria delle catastrofi. L’uomo si ritrovò, senza strumenti in mano, a cercare tra le pieghe della quotidianità i sintomi del crollo epocale. Così, nel 1940, fino a pochi giorni prima dell’invasione hitleriana, i soldati francesi schierati sul Reno passavano le giornate a fare il bagno nel fiume, giocare a calcio e ad assistere a spettacoli teatrali. E la scrittrice Berta Szeps, nei giorni precedenti alla fine dell’impero asburgico nell’ottobre 1918, annotava sul suo diario che l’attenzione generale era appuntata su chi doveva essere il nuovo direttore del Burgertheatre.

Ma il tabellone teatrale delle cose umane è nelle mani della Storia che talvolta si diverte ad apparecchiare d’improvviso spettacoli, a cambiare i nomi dei protagonisti e delle comparse. Crolli, crac e catastrofi sono spesso largamente prevedibili, ma non sui tempi della vita umana. L’unica scienza in grado di predire il futuro, verrebbe da dire, è il senno di poi.

multiverso

8-9