IMPRONTA

Non pare che il 5 maggio del 2022 tireremo un sospiro di sollievo, sillabando: Ei fu, siccome immobile… qualunque significato possa avere per ciascuno di noi quella celebre strofa. Né, pensiamo e speriamo, che un’altra orma di piè mortale o impronta mortifera simile venga a calpestare la polvere cruenta di questo tempo e ci faccia, come duecento anni fa, vagare con i nostri pensieri sconsolati sui passi che vanno al nulla eterno, dove è silenzio e tenebre la gloria che passò. L’orma della guerra!
Napoleone come Putin? Ma dai, non scherziamo! Carlo Emilio Gadda derideva già quel personaggio chiamandolo il Napo, e trovò comico il ruggire dello spirito guerriero di Niccolò ‘Ughetto’ Foscolo, che del Napo aveva avuto tutt’altro concetto! Comunque l’impronta di quegli anni era passata come quella di una guerra totale e spinse molti intellettuali europei a riflettere sulla ‘rovina e decadenza’ degli uomini, messa a confronto degli infiniti spazi cosmici, e li indusse a meditare sulla fatal quiete che ci circonda e su una specie di apocalittica fine del mondo. Di questo piccolo mondo che un altro poeta chiamerà anni dopo ‘atomo opaco del male’.
Nel suo bellissimo film del 1962 Il piccolo uomo delle grandi pianure, il regista giapponese Akira Kurosawa fa dire al suo protagonista, il cacciatore siberiano Dersu Uzala, a un soldato russo della missione esplorativa nella taiga siberiana: tu sei un uomo grande e grosso ma sei sciocco come un bambino. Ti muovi nel bosco o nella steppa senza capire nulla, perché non sai osservare le impronte e i segni che gli animali, il tempo atmosferico e gli uomini lasciano dietro di sé!
Nella nostra Europa di quegli anni Sessanta e Settanta, e nel mondo della cultura, era di moda lo studio della pensée sauvage, che ha dato origine alla semiologia e antropologia contemporanee, e ha fondato sull’osservazione dei segni e delle impronte molti saperi validi ancora oggi. Dalla loro attualità il presente richiamo di Multiverso.
L’impronta, la traccia, le vestigia, il segno, il pulsus, il marchio da cui il glifo diventato sacro e cioè il geroglifico, vogliono rigore semiologico. Solo una casta di sacerdoti addetti era autorizzata nell’antico Egitto a interpretare, tracciare o incidere, i glifi o le lettere sacre e imprimerli. Imprimere, stampare, da cui il chiesastico nihil obstat quominus imprimatur, l’imprimatur, che era il permesso della censura per evitare a un testo di finire all’Indice dei libri proibiti, l’Index librorum prohibitorum. Quanto deprecata quella censura di allora, e quanto invece lieve e veniale ora che guerre e massacri si possono censurare e far scomparire – impronte, documenti e tutto – agli occhi e alla coscienza di milioni di uomini. Ma le impronte, i vestigia, non si possono cancellare quasi mai del tutto, e forse perciò sono ‘sacri’, hierà, in un senso nuovo, e oggi ormai se ci sono, sono irrinunciabili. Prima o poi vengono alla luce. Sono ‘documenti’. Si aggiungono ai nostri lasciti culturali. Essi sono oggetti essenziali come quelli che abbiamo ereditato dai secoli più remoti e che vanno dai nostri antenati preistorici, gli ominini, fino alle impressioni elettroniche di oggi: le impronte della verità e della vita. Attorno a queste impronte le varie epoche hanno mosso la fantasia ma hanno trasmesso anche paure, cautele e superstizioni. Ma ne son nate anche decisioni di individui e nazioni e valori di civiltà.
La nostra impronta, la pressione del piede sul terreno molle, è il vestigium latino, originariamente la ‘pianta del piede’. Questo termine si collega a una famiglia sterminata di sinonimi, metafore e metonimie forse fioriti quasi tutti da una prolifica radice indoeuropea ues-/ves- che comprende dalla dea Vesta, metonimia del focolare domestico, della caverna o dell’abitazione, giù fino a Venere, lat. Venus, e alle nozioni di vestito, vestire e investigare, dove poi con Poirot, o i cronisti di guerra, ci si ritrova con le impronte digitali per i piccoli delitti, e con i filmati, le foto e altre impronte più sconvolgenti per le stragi e i massacri di guerra. Ma nel sanscrito e nell’antico indiano vasati si estende dai concetti di vestire e svestire fino al ‘giacere con una donna’, e alle molte metafore sciamaniche delle impronte che facevano dire ai latini: deus adest. Si estende cioè alle soglie fra ciò che c’è o appare e ciò che da qualche segno o impronta vorremmo capire che cosa ci vuol dire in assoluto.
Nomi, metafore, circonlocuzioni misti a tabù linguistici, formano una panoplia di definizioni in tutte le lingue del mondo, cercando di afferrare il senso della traccia o dell’impronta: segni, vestigia che hanno indotto l’umanità fino ad oggi a interrogarsi e a riflettere… Sì appunto, riflettere, 1.000 volte, diceva mia Nonna Irene, prima di agire.

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