IMPRONTA
Franco Basaglia sulla luna
di Mario Colucci
Abbiamo visto tante volte le immagini di Neil Armstrong che scende dalla scaletta del modulo lunare pronunciando le fatidiche parole: «Un piccolo passo per l'uomo, un grande passo per l’umanità». Le impronte che lui e il suo compagno di missione, Buzz Aldrin, lasciano sul suolo sono le prime mai prodotte da esseri umani. Si dice che resteranno impresse per sempre nella sabbia lunare: in mancanza di un’atmosfera, sul nostro satellite non c’è vento né pioggia che possano cancellarle. Eterne, a meno che un meteorite non le spazzi via oppure un’altra missione di astronauti non le calpesti.
Si è persino siglato un trattato internazionale affinché nessun altro in futuro possa avvicinarsi al sito di quel primo storico allunaggio. Il fascino di questa storia sta nel carattere indelebile di quelle impronte. La superficie segnata dalle orme non sarà più la stessa. La storia ha sigillato per sempre quel sito come intoccabile.
La psichiatria ha affinità con la luna. Non è un caso che in inglese il termine lunatic indichi il folle e che anche in italiano lunatica è detta persona dal carattere strano, estroso, incostante, instabile nell’umore e facile ad alterarsi. Quale impronta ha lasciato Franco Basaglia sulla ‘luna’? Sappiamo che ha reso possibile un impossibile attraverso un gesto radicale che ha lasciato un segno indelebile sulla superficie della psichiatria. Chiudere il manicomio è stato come scendere dalla scaletta del modulo lunare e mettere il piede su un territorio sconosciuto. Nessuno lo aveva mai fatto, l’impronta di Basaglia è stata la prima.
Il punto è che, dopo la conquista della luna, la psichiatria è rimasta a terra. Certo, il manicomio è stato chiuso e tanti altri operatori della salute mentale continuano il loro lavoro sui territori. Ma la psichiatria sembra non staccarsi dal suolo, nuovamente rinchiusa nel recinto stretto di uno scientismo senza cultura. Scientismo, non scienza, perché incapace di basarsi sulle evidenze, tutte le evidenze. Sembra paradossale, ma quelle che emergono dalla storia personale, dal gruppo sociale di appartenenza, dall’ambiente di vita, dalla situazione politica contingente, non vengono tenute in conto. Solo le cosiddette evidenze neuroscientifiche sono considerate prove di verità. Questo almeno è ciò che ci propina la psichiatria accademica.
Per fortuna la salute mentale non è fatta solo dagli psichiatri.
Ci sono altre impronte che restano ogni giorno, quelle delle altre figure sanitarie e non sanitarie che compongono le équipes curanti, ma soprattutto quelle di chi attraversa l’esperienza della sofferenza mentale, e quelle dei loro famigliari, che oggi sempre di più fanno sentire la propria voce. Migliaia fra loro, in presenza e da remoto, si sono riunite per la Seconda conferenza nazionale per la salute mentale, il 25 e 26 giugno 2021, vent’anni dopo la prima storica edizione: operatori del settore, membri di associazioni di utenti e famigliari, rappresentanti di numerose società scientifiche e di cooperative sociali, nonché esponenti politici e istituzionali, hanno dibattuto intorno al tema della ‘salute mentale di comunità’. Tema scelto, come ha dichiarato il ministro della salute Roberto Speranza nel suo discorso di apertura, per ribadire la centralità di un’assistenza territoriale che sappia assumere la comunità come cornice di riferimento, che sia attenta a proteggere i diritti umani e la dignità delle persone con sofferenza mentale e che favorisca una presa in carico inclusiva e partecipata, in grado di migliorare la qualità e la sicurezza dei servizi a beneficio di utenti, famigliari e operatori. Il ministro si è soffermato anche su altri temi importanti: la lotta alla contenzione fisica in tutti i luoghi sanitari e sociosanitari, non solo nell’ambito delle strutture psichiatriche ma anche delle residenze sanitarie per anziani e per persone con disabilità; una maggiore attenzione da riservare alla salute mentale dei minori, degli adolescenti e dei giovani adulti; un miglioramento della presa in carico delle persone con disturbi mentali autrici di reato, verificando l’attuazione della riforma introdotta dalla legge 81 del 2014 che ha portato al superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari.
Tuttavia, la scelta di far partecipare all’incontro una platea allargata di protagonisti della salute mentale e di dare ascolto a esperienze molteplici e differenti della realtà sanitaria e sociale italiana, non è piaciuta a chi preferiva un evento dedicato solo agli ‘addetti ai lavori’. La Società italiana di psichiatria ha deciso di declinare l’invito alla conferenza, dichiarando che i temi erano trattati in modo autoreferenziale e che il mondo della ricerca e della formazione era stato escluso. Accusa infondata, vista la partecipazione di molte altre società scientifiche e di docenti universitari, la pluralità dei relatori coinvolti (centotrenta in otto sessioni) e la coralità dei dibattiti.
Verosimilmente, dietro questa polemica c’è una questione antica: se partiamo dal titolo della conferenza ‘Per una salute mentale di comunità’, si nota come non sia impiegata la parola psichiatria. Si badi bene che la distinzione non è soltanto terminologica: la salute mentale è questione ben più vasta della psichiatria e, soprattutto, non la esclude ma semmai la comprende. D’altronde, in Italia abbiamo assistito a partire dagli anni Sessanta a un capovolgimento radicale della prospettiva con il processo di deistituzionalizzazione avviato da Franco Basaglia e da altri pionieri in varie parti della penisola e culminato con l’approvazione della legge 180 del 1978, che ha portato alla chiusura degli ospedali psichiatrici (completata solo nel 2000) e alla costruzione di un sistema di salute mentale territoriale.
Il principio di base è la presa in carico della sofferenza psichica nel contesto della comunità di appartenenza, prestando attenzione non solo agli aspetti della clinica psichiatrica tradizionale (inquadramento diagnostico, trattamento farmacologico e psicoterapeutico), ma anche in modo ampio a una ‘clinica del legame sociale’, cioè a una cura dei legami del soggetto per ricostruire la sua appartenenza alla comunità, attraverso un intervento sui determinanti di malattia, sugli assi dell’abitare, dell’inserimento lavorativo e della socializzazione, e per sviluppare il capitale sociale collettivo, investendo sulle relazioni, sugli scambi, sulla negoziazione dei conflitti, sull’arricchimento dei contesti territoriali e sull’inclusione (cfr. F. Stoppa, Legame sociale, istituzione, comunità, «Fogli d’informazione», XXXI (198), luglio-settembre 2003, pp. 47-60; cfr. M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2013).
Ebbene, in Italia questo è ancora motivo di dissidio, nonostante più di quarant’anni di buone pratiche di salute mentale sul territorio senza manicomio rappresentino un modello conosciuto e apprezzato a livello internazionale. Ne fa fede il modello di Trieste (attualmente diffuso in tutta la regione Friuli Venezia Giulia) – rete di centri di salute mentale attivi 24 ore al giorno, che funzionano secondo i principi della porta aperta e del no-restraint – riconosciuto in una guida pubblicata nel giugno 2021 dall’Organizzazione mondiale della sanità (Guidance on community mental health services: Promoting person-centred and rights-based approaches, https://www.who.int/publications/i/item/9789240025707), come una delle organizzazioni più complete al mondo di assistenza incentrata sulla persona e basata sulla difesa dei diritti, insieme con i servizi di Lille in Francia e di Campinas in Brasile. Proprio l’esperienza di Trieste ha rappresentato in qualche modo l’innesco di una polemica che, come un incendio, è divampata improvvisa, anche se, con tutta evidenza, il fuoco covava sotto la cenere da molto tempo: a partire da un contestatissimo concorso locale per l’attribuzione di un posto di direttore di struttura, lo scontro tra ‘psichiatria’ e ‘salute mentale’ si è esteso poi in tutta la penisola e anche fuori, vista la risonanza che ha avuto sulla stampa nazionale e internazionale. *
Si è reso evidente un contrasto, amplificato dal dibattito mediatico, tra un modello di psichiatria, che si pretende portatore di innovazione e ricerca e che è centrato sull’insegnamento universitario di impostazione biomedica e sulla collaborazione con i laboratori farmaceutici, e un modello di salute mentale comunitaria, di gran lunga prevalente riguardo a numero di servizi e di utenti in trattamento, che porta avanti l’assistenza quotidiana sul territorio. Questo contrasto è stato artificiosamente descritto come uno scontro tra modernità e arretratezza, come se ci fosse da un lato una spinta all’innovazione, fondata su neuroscienze, brain-imaging, genetica e farmacologia e, dall’altro, un lavoro di assistenza territoriale poco sofisticato e disattento agli aspetti della ricerca e alle esigenze dell’accademia.
Si tratta di una lettura di comodo che deprezza un lavoro quotidiano all’interno delle comunità, teso a realizzare un’integrazione tra gli aspetti sanitari e quelli sociali della malattia. Va detto che purtroppo molti servizi comunitari non sono all’altezza e si dimostrano incapaci di garantire sostegno, continuità e una presenza forte e assertiva nei loro territori, esercitando solo una banale funzione ambulatoriale di prescrizione ed erogazione farmacologica. Il problema è causato da politiche sanitarie locali di inadeguata programmazione e costruzione dei dipartimenti di salute mentale con un’incongrua allocazione di risorse, spesso ancora centrate intorno alla funzione del posto letto nei reparti psichiatrici di diagnosi e cura in ospedale generale, a scapito dei centri di salute mentale sul territorio: la conferenza nazionale ha messo in luce i punti di fragilità del sistema di cura per la salute mentale, in primo luogo la riduzione dei finanziamenti negli ultimi anni, che ha portato a un progressivo impoverimento in termini di risorse umane e materiali e a un dissesto dell’organizzazione complessiva dei servizi e dei percorsi assistenziali. Va detto, infatti, che la spesa per la salute mentale in Italia non arriva al 5% della spesa sanitaria, valore ben al di sotto di quanto investito in molti altri paesi europei. Dunque, una maggiore disponibilità di denaro da impiegare per il rafforzamento della sanità territoriale va prevista e inserita nel Piano nazionale di ripresa e resilienza elaborato a seguito della crisi pandemica e finanziato dal progetto Next Generation EU che vede l’Italia come la maggiore beneficiaria in Europa. Va, inoltre, sviluppata la struttura ministeriale per la salute mentale ai fini di un miglior governo di indirizzo nazionale e un più solido raccordo tra le varie regioni, anche attraverso un uso efficiente degli strumenti informativi. Fondamentale risulta la collaborazione tra Ministero della salute e Ministero del lavoro e delle politiche sociali per consolidare le iniziative di integrazione sociosanitaria.
L’altra questione fondamentale riguarda la dotazione del personale e la sua formazione: i giovani operatori sono pochi e spesso non adeguatamente istruiti sui saperi necessari oggi per un buon lavoro sul territorio, che deve affrontare quella che Benedetto Saraceno, ex direttore del Dipartimento di salute mentale e abuso di sostanze dell’OMS, definisce la ‘sofferenza urbana’. Temi come la deistituzionalizzazione e l’integrazione sociosanitaria, le politiche sociali e le strategie di inclusione lavorativa, i progetti terapeutici riabilitativi personalizzati e il budget di salute, spesso sono esclusi dai programmi di formazione universitaria di psichiatri, psicologi e infermieri che andranno a lavorare nei servizi pubblici di salute mentale. Per questo rischiano di restare inascoltate le parole di Fabrizio Starace, presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica e fra gli organizzatori della Conferenza nazionale, che in un’intervista ha sottolineato quanto sia necessario nel lavoro di un professionista della salute mentale spendere tempo per parlare con sindaci, assessori, responsabili di strutture abitative e scolastiche, operatori di cooperative sociali e non solo nella classificazione dei sintomi, nella formulazione di una diagnosi o nella scelta di un trattamento. Per quanto la ricerca neuroscientifica e farmacologica resti fondamentale, per quanto la migliore conoscenza di un circuito neuronale o l’impiego di nuove molecole possano aiutare a correggere qualche sintomo, tuttavia non sono in grado di rispondere ai bisogni complessi di una persona sofferente, così come l’ascolto, la presa in carico psicosociale e i progetti di sostegno all’abitare e all’inclusione lavorativa.
Il problema è che la restaurazione in psichiatria di un modello esclusivamente biomedico, distante dalla salute mentale di comunità, avanza rapida anche in Italia; e purtroppo collude con politiche di organizzazione aziendale della sanità che si fondano su scelte prese da burocrati spesso lontani dalle pratiche quotidiane dei territori e dagli interessi autentici di un servizio sanitario pubblico. Come stiamo osservando in questi mesi in Friuli Venezia Giulia, la mancanza di una seria programmazione della salute mentale territoriale, associata al taglio delle risorse e alla mancanza di ricambio del personale, sta assestando un duro colpo a un modello di deistituzionalizzazione che negli ultimi cinquant’anni ha dimostrato non solo di poter cancellare le vergogne del manicomio, ma anche di poter avviare un’efficace politica d’inclusione sociale delle persone che attraversano l’esperienza del disagio psichico.
Così l’impronta di Basaglia rischia di giacere dimenticata sulla luna; e la terra di girare lontana nello spazio.
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