IMPRONTA

Angelo Vianello intervista Giorgio Vallortigara

Il tema che affrontiamo in questo numero di «multiverso», ‘impronta’, richiama la parola inglese ‘imprinting’, un termine spesso utilizzato nel campo delle scienze biologiche. Che significato assume questa parola in tale ambito, e quando fece la sua comparsa in questa specifica accezione? 

L’imprinting è un fenomeno di ‘apprendimento precoce in fase sensibile’, cioè una forma di apprendimento per esposizione che si verifica durante un periodo critico o sensibile. Lo si osserva in modo particolare nelle specie cosiddette a ‘prole precoce’ (o ‘atta’), cioè quelle in cui i piccoli nascono piuttosto maturi dal punto di vista sensoriale e motorio, a differenza di quel che accade nelle specie a ‘sviluppo altriciale’ o ‘inette’. Pare che l’origine del termine sia la traduzione in inglese della parola tedesca prägung (impronta, stampo), usata per la prima volta dallo zoologo Oskar Heinroth, uno dei maestri di Konrad Lorenz. La scoperta del fenomeno dell’imprinting, tuttavia, non va ascritta a Lorenz, bensì allo studioso inglese Douglas Spalding, il vero fondatore dell’etologia. Vissuto a metà dell’Ottocento e morto in giovane età, era uno studioso degli istinti e aveva messo a punto un piccolo laboratorio in cui osservava la schiusa dei pulcini. Descrisse per primo un fenomeno che chiamò ‘istinto imperfetto’: aveva notato, infatti, che la prima cosa che i pulcini vedevano, per esempio la sua stessa persona, veniva fissata come oggetto materno e seguita dagli animali. Questa è stata la prima descrizione del fenomeno dell’imprinting, anche se non ancora con quel nome, e venne pubblicata sul «Macmillan Journal», che sarebbe poi diventato la famosa rivista scientifica «Nature». Lorenz ha sempre riconosciuto la ‘primogenitura’ di Spalding nella scoperta dell’imprinting; d’altra parte, quasi certamente l’imprinting era già conosciuto al di fuori dei circoli accademici, soprattutto dagli allevatori del sud-est asiatico che avevano a che fare con animali domestici come oche, galline e tacchini.

Da quanto ci hai ricordato, l’imprinting è il frutto degli studi e delle esperienze di più di qualche studioso. Indubbiamente, tra questi si è affermato per ragioni contingenti Konrad Lorenz, che ha descritto il fenomeno dell’imprinting in specie diverse dalla nostra, facendo diventare lo studio di questi comportamenti animali uno dei temi più interessanti di una nuova disciplina, l’etologia. Ci si può chiedere: fenomeni dello stesso tipo sono riconoscibili anche nella nostra specie, homo sapiens

L’imprinting è un fenomeno molto generale: appartiene alla classe dell’‘apprendimento per esposizione’, in cui l’animale, che sia l’uomo o un’altra specie, impara qualcosa – visivamente, acusticamente od olfattivamente – grazie all’esposizione a uno stimolo. Peculiarità dell’imprinting, rispetto ad altre forme di apprendimento per esposizione, è il fatto che di solito è confinato a un periodo ristretto. È come se l’apertura di una finestra in una certa fase dello sviluppo fosse controllata geneticamente: la condizione di particolare plasticità del sistema nervoso permette di fissare quello che passa attraverso la finestra in quel determinato periodo di tempo. I fenomeni di imprinting, non necessariamente di tipo visivo, sono stati descritti anche nei mammiferi: ad esempio, l’imprinting olfattivo è stato ampiamente studiato nelle capre e nelle pecore. Quasi certamente ci sono fenomeni di imprinting olfattivo molto forti anche nella nostra specie, che mediano il legame fra la madre e il bambino, ma ovviamente ne esistono anche di tipo acustico e visivo. La particolare rilevanza che hanno il volto e la voce della madre è legata, per l’appunto, al fatto che c’è stata un’esposizione dell’infante a queste sollecitazioni durante una fase sensibile del suo sviluppo.

Stimolati da questi studi, numerosi psicologi evoluzionisti hanno indagato le modalità di apprendimento nei neonati e nei bambini con approcci simili a quelli descritti per gli animali, e i loro risultati sono effettivamente intriganti… Puoi descriverci qualche caso?

Quello che abbiamo capito a partire dagli anni Settanta è che l’imprinting non è totalmente libero, come credeva Konrad Lorenz. Lui infatti pensava che qualsiasi oggetto o stimolo andasse bene per l’imprinting, come nel famoso caso descritto ne L’anello di Re Salomone dell’ochetta Martina, che si ‘imprinta’ sui suoi stivali. Ovviamente, in condizioni naturali un’ochetta o un pulcino è esposto alla chioccia, e non agli stivali di un etologo, ma in assenza della madre qualsiasi altro oggetto artificiale sembrerebbe andare bene. Tuttavia, abbiamo scoperto che non è proprio così: se non c’è niente di meglio l’imprinting può avvenire anche su oggetti artificiali e bizzarri, ma in realtà tutti gli animali hanno delle predisposizioni a fare attenzione a certe classi e a certe categorie di oggetti, che guidano e canalizzano questo processo. Negli ultimi anni molti studi sono stati condotti in questa direzione, attraverso un confronto puntuale fra specie molto diverse. Per esempio, confrontando i pulcini, che appartengono alle specie precoci, con i bambini appena nati, sono stati trovati dei meccanismi del tutto similari. Per i neonati i volti hanno un rilievo particolare, ma in realtà questo interesse è legato a una ‘predisposizione innata’ a prestare attenzione a una sorta di ‘simulacro di faccia’. Infatti, si è visto che se si utilizzano stimoli estremamente semplificati, costituiti da un contorno rotondo con all’interno tre macchie ad alto contrasto disposte come in un triangolo a punta in giù per ricordare gli occhi e la bocca, si osserva una sensibilità specialissima per questa configurazione face-like (‘faccia-simile’) sia nei pulcini che nei neonati umani, ma anche nelle scimmie. Nei bambini, ad esempio, abbiamo recentemente misurato la risposta fisiologica con l’elettroencefalogramma (EEG) ad alta densità: ciò che si vede molto chiaramente, è che i neonati a poche ore dalla nascita hanno una spiccatissima sensibilità alla configurazione canonica, cioè il triangolo a testa in giù. Al contrario, se si fa vedere loro la stessa configurazione con il triangolo disposto a punta in su o con le tre macchie disposte a caso, la risposta elettroencefalografica diminuisce immediatamente. Lo stesso accade anche nei pulcini appena nati. Ci sono, quindi, dei meccanismi molto generali che la selezione naturale ha fissato e che guidano l’apprendimento. Lo stesso vale per il movimento biologico, il movimento caratteristicamente semirigido di un vertebrato: anche questo è qualcosa a cui sono sensibili in partenza sia i bambini piccoli sia i pulcini, pur essendo due specie così differenti. Questo ci dà un’informazione molto generale sulla natura dei processi di apprendimento. Ci si potrebbe chiedere: perché al cucciolo non viene fornita in partenza tutta l’informazione? La ragione è che non è possibile farlo, perché non c’è modo per i nostri geni di sapere come sarà il volto della mamma di quel particolare bambino, e non è neanche possibile dare la specificazione del movimento caratteristico di una gallina, di un’oca o di un essere umano. Inoltre, sarebbe molto costoso fornire tutta questa informazione in partenza. Quello che la selezione naturale fa è, in un certo senso, canalizzare i processi di apprendimento per far sì che procedano più speditamente (Lorenz parlava di ‘innata maestra elementare’). Quando si esce dall’uovo o dal grembo materno, ci sono un sacco di stimoli nel mondo. Per imparare quelli giusti usando solo un meccanismo di esposizione quale l’imprinting, ci si metterebbe molto tempo, correndo anche il rischio di ‘imprintarsi’ su un sasso o su una pietra, anziché sulla mamma o sulla chioccia. Ecco, dunque, che ci sono dei meccanismi che guidano questo processo: è come se alla nascita l’interesse del cucciolo fosse diretto seletticamente verso certi stimoli, per esempio le cose che assomigliano alle facce, le cose che si muovono con moto biologico o che si spostano con brusche variazioni di velocità: tutte caratteristiche che appartengono agli oggetti animati. Noi li abbiamo cercati dentro il cervello e abbiamo introdotto il termine ‘animacy detectors’ per descrivere i meccanismi preposti alla rilevazione di ciò che nel mondo è un agente animato. Questi meccanismi dirigono l’attenzione su determinate caratteristiche e permettono con elevata probabilità di impararle molto rapidamente.

In questo contesto squisitamente biologico, quale ruolo può svolgere ciò che potremmo definire ‘imprinting culturale’? Ovvero, quale ruolo può avere la cultura nel plasmare i nostri comportamenti sociali?

Io credo che, in generale, i fenomeni di imprinting suggeriscano che la distinzione che viene spesso posta, un po’ troppo rigidamente, fra biologia e cultura non abbia ragion d’essere: i fenomeni di imprinting culturale affondano profondamente nei meccanismi di tipo biologico e sono, in un certo senso, la continuazione della biologia con altri mezzi e strumenti. Consideriamo l’esempio di un fenomeno che è culturale e allo stesso tempo anche biologico, ovvero l’‘effetto Westermarck’, dal nome dell’antropologo finnico che l’ha descritto per la prima volta. Esso è legato, in un certo senso, a quello che si può chiamare imprinting ‘sessuale’, anziché ‘filiale’, che avviene successivamente: il tipo di esposizione che si ha nella fase infantile determina cioè le preferenze nella scelta del partner sessuale. L’idea di Westermarck è molto semplice: gli individui con i quali noi veniamo allevati, per il fatto di sviluppare nei loro riguardi una tipica familiarità, sono anche quelli che risultano essere sessualmente non attraenti. L’effetto Westermarck è, in un certo senso, il fondamento di un fenomeno molto studiato dagli antropologi culturali e spiegato in altri modi, per esempio relativamente al tabù dell’incesto, la cui spiegazione ultima è legata alla necessità di evitare l’incrocio fra consanguinei. Per fare un esempio concreto si consideri il problema che è sorto ad un certo momento nell’esperienza dei kibbutz israeliani, delle comunità ristrette e autosufficienti in cui c’è stata, e c’è ancora, una pressione molto forte a convincere i giovani a sposarsi fra di loro e a rimanere all’interno del gruppo. Ben presto ci si è resi conto che questa cosa era estremamente difficile e che i ragazzi e le ragazze cercavano le fidanzate e i fidanzati in altri kibbutz, fuori dall’ambiente entro il quale erano stati allevati. Cos’è questa: biologia o cultura? È un miscuglio di tutte e due le cose. In realtà accade che questi giovani, come tutti noi, vengono allevati con certi individui che con elevata probabilità sono i parenti, fratelli e sorelle, con cui condividono buona parte del patrimonio genetico. Dal punto di vista biologico è un’ottima strategia andare in cerca della slight novelty (‘leggera novità’), cioè di individui simili a quelli con cui sei stato allevato, ma non troppo simili, un po’ diversi ed ‘esotici’. In questo modo si ottiene ciò che in biologia viene chiamato optimal outbreeding: si evita il rischio di ‘inincrocio’, ma si mantengono i vantaggi che possono essere associati con il co-adattamento e la co-evoluzione di certi meccanismi genetici. Quindi, qui come in altre circostanze, la distinzione fra fenomeno culturale e fenomeno biologico si assottiglia: è sempre la stessa storia, una storia di apprendimento ed esperienza, che è resa possibile dal fatto che noi abbiamo una storia naturale e una storia biologica, che guidano la possibilità di apprendere, di socializzare e di sviluppare culture.

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