IMPRONTA

Cammino nella neve, e nevica. Vengo sbattuto da un forte vento sul monte Altissimo di Nago, cerco davanti a me l’ombra incerta di chi mi precede nella salita in una valle dietro le Odle, sono messo in crisi e confuso nelle nuvole basse di campo Pericoli dietro il Gran Sasso o, ancora, resto incerto nelle ombre della sera sopra il mio paese, in Molise; e questo è avvenuto dieci, trenta, quaranta o cinquanta anni fa. Ma il risultato non cambia: in tutti i casi, dietro di me non lascio traccia, voltandomi e guardando al suolo non leggo alcuna impronta. La neve cadendo o portata dal vento la ricopre immediatamente, e questa è, o meglio dovrebbe essere, la semplice e ragionevole spiegazione; ma ogni volta provo un senso di malessere, di incertezza: se non lascio impronta, allora forse non esisto, o non sono davvero in quel luogo, e forse è solo un’illusione quella che mi suggeriscono la fatica del cammino e la ricostruzione logica dei luoghi.
Le impronte che mi accompagnano nella traccia della memoria e che ho lasciato in quella degli altri, e insieme le altre impronte che ho seguito e che in me hanno lasciato gli avvenimenti a cui ho partecipato e le persone che ho conosciuto, sono l’unica ragione che mi induce a ritenere di essere vissuto davvero. Senza di esse non ne sarei affatto sicuro, e probabilmente sarei convinto che la mia vita non ha avuto e non ha alcun significato.
Quale sia il contenuto dei doveri da adempiere, lo si può leggere solo nelle impronte che si sono lasciate alle proprie spalle, alla vista di chi ci segue, ed in quelle di chi ci precede e che segnano il cammino da seguire.
È un peso a volte difficile da sopportare, quello di meditare sulle proprie tracce e su cosa rappresentano per gli altri, ad ammonizione o ad esempio, o sulle impronte che fatti e persone hanno lasciato in noi, perché le potessimo seguire. Come lo sono la memoria, la capacità di indignazione, la famiglia, il lavoro, la montagna, insomma il carico delle nostre fatiche. Certo, chi non sa non soffre, chi non ricorda non teme sensi di colpa, chi non combatte non viene sconfitto. E chi cammina senza guardare a terra forse arriva più lontano. Ma è un peso che si porta volentieri, perché dà senso a questo peregrinare, dà soddisfazione alla nostra pretesa di significato, costruisce noi stessi. Certo, è un peso, come la nostra vita. Non zavorra, bensì ricchezza.

Prima di tutto, le impronte che lasciamo

Esse non sono solo la testimonianza del nostro passaggio, in bella mostra per chi abbia interesse e disposizione a leggerne la direzione. Sono non il sintomo, ma la stessa sostanza della nostra esistenza. Perché noi non siamo (o almeno, non siamo solo) un pacco di miliardi di molecole che si sono messe insieme per caso, e che prima o poi dovremo restituire alla terra dalla quale le abbiamo prese in prestito; non siamo solo carne, ossa, acqua e altri composti chimici aggregati in una straordinaria cacofonia, funzionale solo alla propria sopravvivenza; ma siamo anche la storia e il ricordo di quello che abbiamo fatto, detto, scritto, o abbiamo omesso o mancato di fare, dire e scrivere; insomma siamo il romanzo della nostra vita. E poiché questa si costruisce sempre in una relazione con gli altri, siamo quello che abbiamo offerto in visione, dato e ricevuto, sperimentato e sofferto. Insomma, siamo le nostre impronte.
Sto parlando delle impronte che abbiamo lasciato, marcando ogni passo in misura diversa, e scegliendo più o meno liberamente il nostro percorso. Ma sulle implicazioni di tale premessa occorre essere chiari: libertà non è facoltà di vivere emozioni ed esperienze senza limiti né rischi, come vorrebbe la concezione oggi sempre più dominante che concepisce l’uomo come viaggiatore-consumatore, cercatore del puro godimento rapido, effimero e garantito. Libertà è facoltà di determinare in autonomia le scelte che ci riguardano, sia come singoli che come componenti di una collettività. È quindi indissolubilmente legata alla responsabilità, e ne costituisce necessario presupposto sotto due punti di vista: perché solo chi è libero di effettuare una scelta può essere chiamato a rispondere di essa e perché solo l’esercizio della libertà può abituare alla responsabilità delle proprie azioni.
E allora le tracce o le impronte che lasciamo costituiscono soprattutto fonte di responsabilità: perché chi ci segue, per caso, per scelta o per necessità, confida in esse, può supporre che lo conducano verso una meta, e dunque affida ad esse un significato. E non importa se alla fine non solo il nostro nome, ma anche quello che abbiamo fatto, detto, scritto e provato, è impresso sull’acqua o, al di più, sulla sabbia. Intanto, qualcuno ha letto, ha interpretato, ha seguito, o comunque è stato messo in condizioni di farlo.
E non importa se chi ci segue è legato a noi dalla corda dell’alpinista o se invece si è solo accodato da lontano al nostro esempio nella scelta della via: la responsabilità non è un fatto negativo, un prezzo da pagare. È invece la voce più importante nel conto complessivo di una relazione; con le persone, con le cose, con la vita.
Nel mio lavoro sono stato infinitamente fortunato. Il mestiere di giudice, come pochi altri, consente qualche momento alla creazione. In esso ci si può specchiare nella propria opera, misurarsi sulle proprie capacità, rimanere sgomenti per la propria inadeguatezza. La decisione viene raggiunta dopo udienze, riflessione, ricerca e approfondimento. La continua discussione con persone che la pensano diversamente è un arricchimento, perché consente di sperimentare meglio i propri argomenti. Come ricorda Levi, se si escludono eventi prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro, privilegio di pochi, costituisce la migliore approssimazione alla felicità sulla terra.
Ma in realtà fare esempi è difficile. Ricordo soltanto, perché si trattò di impronta profonda, il mio primo sopralluogo nella valle del disastro di Stava: mai come in quella occasione mi sono sentito inadeguato. Come per tante altre materie, ignoravo ogni rudimento di fisica meccanica, di geologia e idraulica, di ingegneria delle miniere; ma compresi che il problema non era solo mio: i periti e i consulenti si scontravano tra loro non solo per i rispettivi ruoli processuali, ma perché molti avvenimenti erano obiettivamente incerti e non potevano essere spiegati con sicurezza. Soprattutto, nessuno ha mai chiarito come sia avvenuto che un rilevato sabbioso, sia pure instabile e umido, in pochi secondi si sia trasformato in una enorme massa semifluida, capace di scendere a valle alla velocità di venticinque metri al secondo, seminando distruzione e morte. Questo era già avvenuto in altri Paesi, e quindi era fenomeno previsto e oggetto di studi tecnici; ma nessuno di questi studi andava oltre la sua descrizione e previsione: metteva in guardia gli addetti ai lavori, ma non spiegava per quali vie il fenomeno si poteva verificare.
Allora, come talvolta avviene, i giudici hanno (abbiamo) fatto, con fatica, il loro (nostro) lavoro; ma si sono limitati ad accertare le responsabilità penali, irrogando condanne che mai nessuno ha scontato; hanno distribuito risarcimenti del danno, costati alla collettività centinaia di miliardi di vecchie lire, che hanno arricchito soprattutto alcuni studi legali; hanno scritto pagine di diritto interessanti anche per la storia della giurisprudenza penale e civile. Si sono occupati dei problemi tecnici e giuridici, così alimentando l’impressione che quelli fossero i temi fondamentali: mentre così non è, perché invece essi avevano e hanno natura morale, o se si preferisce culturale. Tempo fa, li ho riassunti in un concetto tanto semplice: too many people think business is more important than life. Rispettando il nostro dovere istituzionale, non ci siamo pronunciati su questo e altri fondamentali argomenti; e anche per questa ragione, forse, nessuno ricorda più che a causare il disastro concorsero scelte politiche e amministrative: qualcuno decise di trasformare una valle alpina in una pattumiera.
Dei tempi più recenti ricordo altrettanto bene l’intervento che feci sulla mailing list dell’Associazione nazionale magistrati sulla vicenda dei magistrati turchi, perseguitati e privati dell’indipendenza. Nelle righe di colleghi impegnati, leggevo che la lezione che ne dovevamo trarre era che l’indipendenza della magistratura era bene essenziale; risposi allora, e credo ancora: «a me pare che l’insegnamento sia un altro, assai meno gratificante e molto più impegnativo: che la libertà, la democrazia, e una giustizia indipendente, non siano affatto dati acquisiti, ma fiori rari nella storia, che occorre mantenere con cura in buona salute e per cui, se occorre, vale la pena di combattere; che noi magistrati italiani siamo stati molto fortunati, e che forse dovremmo fare qualcosa di più per meritare tanta fortuna; il sangue versato da alcuni di noi è solo una delle spiegazioni, non possiamo rimanere legati alla condizione di parassiti di una sofferenza che molti di noi hanno dimenticato o non hanno neppure conosciuto; che per veder riconoscere l’importanza del nostro ruolo dovremmo prima riconoscere i nostri limiti istituzionali e declinare le nostre pretese tenendo conto prima di tutto dei nostri doveri; e che tutto questo non è affatto scontato, e anzi è quotidianamente contraddetto dalle modalità con cui le istituzioni più in vista conducono il loro lavoro, o dai risultati di questo». Nessuno mi rispose, se non una collega che mi diede ragione, perché avevo messo a tacere le infinite vanità dei colleghi ‘di sinistra’.
Alla fine, a salvarci sono l’amore e l’orgoglio, più che la forza e l’abilità. Se altri mi credono in cammino, ho il dovere di esserlo. Qualcuno mi ha scritto che non c’è progresso morale nel mondo: non c’è mai stato. Siamo maestri in distruzioni, stragi e annientamenti. E ora siamo vicini alla ‘soluzione finale’, auto inflitta in nome del progresso, delle comodità della nostra generazione, che condanna a morte le successive.
Almeno, che le nostre povere impronte indichino che la strada potrebbe essere un’altra. Del resto, but perhaps, neither gain nor loss; for us, it’s only the trying; the rest is not our business, diceva T.S. Eliot.

Le impronte che leggiamo

Abbiamo bisogno di guardare avanti, e in questo il tempo ci aiuta e sbiadisce i ricordi. Ma non ci riesce sempre e allo stesso modo: vi sono immagini, tracce, impronte che nonostante il tempo trascorso arrivano ancora nitide e vive. Sono infinite, annegano in messaggi acquisiti anche in modo inconsapevole, e ne sono state portatrici persone che hanno fatto, detto, omesso di fare qualcosa; oppure luoghi o vicende di vita che il caso ci ha fatto incontrare.
Dirò poche parole solo di un ricordo recente, ben marcato nella memoria. Il messaggio di un vecchio stanco e zoppicante – narrato a Roma sotto la pioggia torrenziale, dinanzi a una piazza dall’architettura sontuosa, ma vuota e inaccessibile – che ha recuperato il tesoro della memoria, quello che invece noi neghiamo ogni giorno, e che ha rivelato verità profonde anche a chi non le legge: abbiamo sbagliato a ritenere di essere sani in un mondo profondamente malato, dobbiamo scegliere tra ciò che conta e ciò che passa, tra quello che vale e quello che ha solo un prezzo. Ora leggiamo e capiamo che la storia non la fanno condottieri e politici, ballerine e calciatori, ma persone che da sempre trascuriamo perché appaiono in seconda linea: infermieri, medici, badanti, commesse; che è perdente e inutile la competizione per l’affermazione e il possesso, ma occorre trovare spazio ad altri significati.
Poi, altrettanto marcate ma di segno contrario, sono le tracce infinite della nostra vergogna. Perché siamo impastati di argilla e di spirito, di paura e coraggio, e accampando a scusa la nostra fragilità veniamo a patti col potere, dimentichiamo che il ghetto è cintato e che fuori il treno ci aspetta tutti. E la reazione è la vergogna di chi ha visto il male e non è stato capace di opporvisi. Un mese fa, ad esempio, mi ha emozionato rivedere Francesca Dendena, la grande testimone, con Manlio Milani, di un’Italia delle stragi di cinquant’anni fa. Sopravvissuti, testimoni scomodi delle ingiustizie che si sono consumate. Impronte della nostra vergogna.
Vi sono poi le letture, perché i libri, i racconti, le storie sono la fonte e il nutrimento da cui attingere consapevolezza, significato, emozione, motivazione e forse anche coraggio. E ci insegnano che le gerarchie non sono quelle tracciate dai codici. O non solo quelle.
E infine, sono state importanti le impronte lasciate dai luoghi frequentati, in montagna o sul lavoro. Le montagne riparano, difendono, ma insieme sfidano alla fatica, provocano desiderio di salirle e superarle, di vedere quello che c’è dietro; nel confronto con esse si vive l’esperienza del rischio, dell’appagamento come conquista difficile, della competizione con se stessi. Tra le montagne e la nostra vita non c’è molta differenza: entrambe sedimentazioni, residui e macerie, quello che resta di infinite possibilità selezionate dal caso e non certo dalla nostra volontà.
Infine, il luogo di lavoro. Anche qui sono stato fortunato. Ho avuto una certosa benedettina del XII secolo come sede di studi universitari. Poi a Trento e Rovereto sono stato in edifici di remota costruzione, luoghi sobri e austeri che apparivano destinati proprio al lavoro degli uffici giudiziari; il contrario di ‘non luoghi’ senza significato e senza storia, metafora di una collettività che rifiuta identità e memoria. Edifici che ricordano un’epoca in cui la costruzione delle opere pubbliche non era frutto di scelte determinate solo dalle scadenze elettorali, ma risultato di una strategia di lungo periodo, luoghi di esercizio amministrativo e allo stesso tempo simboli della direzione della cosa pubblica.
Tale messaggio era evidente anche nel caso delle vecchie carceri, luoghi di espiazione e quindi di dolore, ma anche immagine tangibile agli occhi di tutti i cittadini della condizione del detenuto, e perciò luoghi di ammonizione e insieme di condivisione. Ora, le nuove carceri, frutto di scelte razionali e moderne, sono lontane dai centri cittadini, segno di rimozione e indifferenza. Ci si reca in esse come si farebbe in un centro commerciale o, se si preferisce, in una base militare: la sofferenza di chi si trova in quel luogo sparisce e il visitatore aspetta solo di terminare il compito al quale sta assolvendo con burocratica puntualità. Ma chi per oltre trent’anni ha frequentato un luogo diverso, dedicato e speciale, alla ricerca delle ragioni di una sofferenza e di colpe che in quel luogo trovavano lo specchio, non potrà dimenticarlo.
Impronta radicata nella memoria, anche quella; come le altre.

multiverso

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