IMPRONTA

Passeggiamo e troviamo un’antica pietra: che significato ha? Quale storia l’ha portata ad essere lì sul sentiero che percorriamo? Ci imbattiamo in una lattina vuota di coca-cola abbandonata: anche non volendolo leghiamo quella presenza disturbante ai rapporti economici di dimensione globale. E così via, da spettatori preparati, attenti a dare un senso ad ogni segno che incontriamo lungo il cammino.
Eugenio Turri, Il paesaggio come teatro, Marsilio, Venezia 1998, p. 30.

Nel giungo del 1967 l’artista inglese Richard Long prese un treno alla stazione Waterloo di Londra in direzione sud-est, scese dopo circa trenta chilometri e, osservando i dintorni, si fermò di fronte a un prato: non vi erano recinzioni, segnaletica o edifici. Un campo come un altro, anonimo, perfettamente ‘vuoto’. Long iniziò a camminare, avanti e indietro, per un miglio, fino a creare un segno. Esattamente in corrispondenza dei suoi passi, che inizialmente lasciavano solo una labile traccia, piano piano, per effetto della pressione delle scarpe, si formò un’impronta, un calco che, per quanto effimero, disegnava una linea laddove prima c’era solo dell’erba alta. Nasceva così A Line Made by Walking. Lavorando en plein air si era rivolto al mondo esterno non per trarne ispirazione o riprodurlo, come i suoi illustri e famosi predecessori impressionisti, ma per imprimervi un segno, per quanto transitorio. Il suo corpo, i suoi passi, il suo essere in un determinato momento in un preciso spazio, diventavano così strumenti utili per abitare il mondo, per conoscerlo, per sperimentare l’ordinario.
Il camminare per Long e per diversi altri artisti e ricercatori prima di lui (le escursioni dadaiste nelle periferie di Parigi, il situazionismo di Guy Debord) e dopo di lui (Iain Sinclair con il London Orbital e il gruppo Stalker a Roma), è pian piano diventato un mezzo per stabilire delle relazioni teoriche e performative tra noi e il paesaggio o, in altre parole, per avviare dei processi di riconoscimento e di comprensione dei luoghi da parte dell’individuo.
Se Long lascia sul territorio una traccia (o forse una impronta?) volutamente minima, pronta a svanire al primo temporale o folata di vento, Eugenio Turri, uno dei geografi più importanti per gli studi sul paesaggio, ci ricorda che i segni ‘del’ e ‘sul’ territorio sono molteplici: possono essere volontari, frutto del tempo e del lavorio dell’uomo, o causati dall’azione della natura, possono essere inconsapevoli e involontari, possono avere un significato e un autore, oppure, allo stesso tempo, essere anonimi o quantomeno sembrarci tali. A renderli intellegibili è la capacità di comprenderne il significato, altrimenti verrebbero ignorati non perché un significato non ce l’hanno, ma per mancata cognizione. Nel caso specifico, vorrei riflettere sul camminare non tanto quanto capacità motoria e ancestrale di locomozione, ma quanto mezzo per ‘leggere’ le impronte del paesaggio: uno strumento a disposizione nella cassetta degli attrezzi del geografo e, più in generale, di ognuno di noi. Può essere scontato ricordare quale importanza abbia da sempre ricoperto il lavoro sul campo per molte discipline, dall’antropologia alla sociologia, ma con il suo stare nel paesaggio il geografo si avvicina e ‘sente’ il territorio nelle sue sfumature, ne capisce le pieghe, osserva i margini, abbraccia i paesaggi dello ‘scarto’. Dalla lattina di coca-cola, all’antica pietra, tutto può essere osservabile, che non significa comprensibile o significante. E a tal proposito, il paesaggista Gilles Clément ci fornisce un utile riferimento quando parla del paesaggio come di un grande giardino planetario dove «ogni frammento di spazio antropizzato può essere considerato come un palinsesto su cui si incidono e si sovrappongono le grandi visioni del mondo. […] Il giardino planetario deriva dalla combinazione tra l’osservazione nomade e un’ipotesi: si può considerare la terra come un unico giardino? E le si possono applicare i precetti del giardino in movimento? Il giardino planetario è un principio, e il suo giardiniere è l’umanità intera» (G. Clément, Nove giardini planetari, 22 Publishing, 1999, p. 25).
L’andare a piedi presuppone un interesse, o quantomeno una curiosità, per le ‘geografie altre’, i paesaggi incogniti, i territori occulti, le relazioni tra gli spazi dell’abbandono e quelli dissidenti. In pratica, significa prenderci il tempo per interrogarci sulle impronte che incontriamo. Non solo quelle spettacolari e appaganti ma anche quelle prossime, che fanno parte delle geografie quotidiane e che possono essere rivisitate e ‘riscoperte’ andando a piedi.


Il paesaggio e le sue asimmetrie informative

Quando osserviamo un paesaggio già lo ‘pratichiamo’. E, allo stesso modo, quando lo pratichiamo lo osserviamo. Il rapporto che instauriamo è di tipo negoziale, con una disparità informativa (o di competenza) tra le parti. Possiamo avere più o meno capacità di lettura e quindi il paesaggio ha più o meno informazioni da trasmetterci. Un’impronta lasciata da un animale su un sentiero può esserci indifferente o addirittura non essere nemmeno notata, ma allo stesso tempo può suscitare curiosità e farci pensare: «chissà che animale è passato» o, addirittura, può indurci ad affermare: «accidenti, è passata una volpe, eppure siamo a poche centinaia di metri dalla città». È un ventaglio di possibilità che il ricco palinsesto paesaggistico ci pone davanti e la sua lettura varia non solo in base alle nostre competenze ma anche in base alla specifica sensibilità che abbiamo sviluppato per le più disparate ragioni personali. Proprio per questo la geografia, come disciplina, è difficilmente separabile dalla sua dimensione emozionale, per quanto nel corso della sua storia si sia cercata una razionalizzazione del suo sapere. Le topografie della vita quotidiana, ad esempio, sono permeate di emozioni e sentimenti e il nostro vissuto è intrecciato a dimensioni spaziali, affettive e culturali. Sperimentiamo specifiche emozioni in distinti contesti geografici in base alle relazioni che abbiamo costruito e per questo motivo due persone che guardano lo stesso scenario non vedono la medesima realtà, non vedono gli stessi oggetti e non prestano attenzione ai medesimi segni come, e allo stesso modo, due distinti gruppi sociali non danno la medesima valutazione dello stesso ambiente in cui vivono. Quella che potremmo definire come la ricchezza polisemica intrinseca al concetto di paesaggio, da un lato ci offre innumerevoli e affascinanti opzioni di analisi, dall’altro ne rende complessa e problematica l’interpretazione.
In questo contesto, andando oltre il ruolo di quella che venne definita negli anni Ottanta del secolo scorso la ‘behavioural revolution’ in campo geografico, è utile sottolineare la sempre più rilevante attenzione che viene conferita alle azioni compiute dagli individui nell’ambiente, azioni che possono essere rivelate e analizzate solo se si indagano i processi cognitivi che le hanno causate. Non esiste, al netto di quegli elementi che potremmo definire condivisi, un ‘paesaggio oggettivo’ ma esistono molteplici ‘paesaggi e ambienti di comportamento o conoscenza’, tanti quanti sono i gruppi e le categorie di persone che ci agiscono, ci vivono e li interpretano: in ogni situazione, infatti, e in ogni comportamento nei confronti del paesaggio c’è un rapporto di continuità con il contesto anteriore di ciascuno di noi, sia esso di tipo conoscitivo che parte del nostro vissuto personale. Tali rapporti annodano tra loro le situazioni economiche, sociali e culturali che dei mutamenti del paesaggio sono il movente o il risultato.
Il rallentamento insito nell’atto stesso del camminare può aiutare la comprensione e la ricerca dei significati latenti dei luoghi, favorendo un approccio fenomenologico ai concetti spazio-temporali: là dove uno sguardo superficiale o poco attento (rapido, senza tempo) potrebbe indurci a vedere un semplice spazio, privo di senso, il ritmo lento dei passi ci costringe a ‘spendere tempo’, a indugiare. Grazie alla pausa, al fatto di dilatare temporalmente la nostra presenza, riusciremo forse a cogliere qualche sfumatura, a penetrare le pieghe e gli anfratti del territorio e, grazie ai dettagli che così raccogliamo, vedere o leggere dei risvolti del paesaggio che ci erano sfuggiti. La sosta può quindi diventare una ‘strategia di ricerca’ e non una interruzione nel nostro incedere.


Rallentando: l’oggetto e il suo contesto

Ritornando sui passi del nostro cammino e sulle molteplici letture e interpretazioni che ci offre quello che ci circonda, o su quella ‘asimmetria informativa’ cui abbiamo accennato, ci possono essere diversi atteggiamenti, predisposizioni o tentativi per cercare di colmare quegli intervalli informativi che ogni giorno incontriamo lungo le nostre strade. Questo non vuol dire che il mondo sia alla nostra portata o che sia necessario interpretare ogni minimo elemento: l’obiettivo, meno ambizioso ma utile, potrebbe essere quello di provare ad aggiungere delle coordinate per orientarci meglio e, per farlo, è utile conoscere la grammatica di ciò che osserviamo e dei luoghi in cui viviamo, magari anche affidandoci a un ‘maestro’ che ci supporti nel mettere insieme le note che compongono lo spartito paesaggistico. Una sorta di mediatore, che può prendere le sembianze del tecnico, della guida naturalistica, dell’accompagnatore culturale, dell’esperto di paesaggio. Non per mancanza di consapevolezza, ma proprio perché consci del fatto che non possiamo essere in grado di comprendere tutto.
Infatti, alcuni paesaggi possono parlare, altri invece tacciono, alcuni hanno le loro epifanie, altri sono inaccessibili. Le Dolomiti, ad esempio, o la Cascata delle Marmore, la Tour Eiffel o il Colosseo, parlano anche all’osservatore più distratto e grazie alla loro intrinseca eloquenza riescono a suscitare un senso di seduzione. Altri paesaggi, invece, hanno un loro spartito interno e riescono ad attirare solo chi è capace di riconoscere in labili tracce le impronte della storia e della memoria. Un cippo di pietra d’Istria o di cotto, con un numero inciso sopra, incrociato ai margini della laguna di Venezia, potrebbe sembrarci un semplice paracarro. Se però rallentiamo, ci fermiamo e sostiamo di fronte a quella pietra leggiamo ‘margine di conterminazione’. Se poi conosciamo la storia della Repubblica di Venezia quello stesso cippo assume un significato particolare e porta con sé la storia della formazione di quel territorio e del determinato momento socio-culturale che ne ha plasmato la fisionomia. Potremmo quindi parlare di due tipi di paesaggio e di due modi di leggerlo, utilizzando la distinzione introdotta per la cultura della comunicazione dall’antropologo statunitense Edward T. Hall (The Silent Language, Doubleday & Company, 1959): paesaggi ad alto contesto e a basso contesto. Il Colosseo, ad esempio, è un paesaggio ad alto contesto, dove non servono molte indicazioni, perché sono implicite: il messaggio arriva diretto, senza bisogno di indagare, mediare, o fare degli sforzi interpretativi. Il significato non risiede quindi tanto nel solo Colosseo, ma nel contesto in cui si trova e, se vogliamo aggiungere un ulteriore livello, anche nella predisposizione (psichica e culturale) di colui o colei in quel momento si trova in quel luogo (per volontà). Il cippo di conterminazione, invece, magari dislocato lungo una strada a Cavallino Treporti sui margini esterni della laguna di Venezia, è un paesaggio a basso contesto: è il cippo, e solo lui, a fornirci le indicazioni. L’informazione in questi casi è obliqua, sottile e ambigua. Siamo noi a doverci fermare, capire la situazione e mediare, grazie alla conoscenza, che in quella pietra c’è la storia della forma attuale della laguna.
L’andare a piedi è solo uno tra i molti metodi a disposizione del geografo per fare ricerca sul campo. Nell’ottica dei paesaggi a basso contesto, però, il fatto di passeggiare lentamente ci permette non solo di penetrare il territorio fisicamente, attraverso la nostra corporeità, e quindi di mettere in gioco la nostra sensorialità, ma aumenta anche le possibilità di comprendere ciò che attraversiamo senza relegarlo al solo visibile. Per dirla con Claudio Magris «conoscere, platonicamente, è spesso riconoscere» (C. Magris, L’infinito viaggiare, Mondadori, 2005, p. XXI): tornare sui propri passi, guardare con maggiore attenzione quello che magari abbiamo sempre ignorato o ci sembrava banale, ci mette in condizione di ‘accogliere’ quello che ci circonda e di provare a farlo nostro senza accettarlo passivamente o scartarlo. È un tentativo di comprensione del conosciuto, di quello che potremmo definire come ‘noto’ attraverso la seduzione cognitiva e interpretativa del ‘nuovo’.


Conclusioni: il senso del paesaggio

Il sentimento di spaesamento, la frustrazione, il leggero senso di nostalgia che oggi ci possono cogliere quando attraversiamo un territorio, sia esso urbano o rurale, non sono dovuti solo al rapido cambiamento di rapporti che ci sembrano, o sembravano, immutabili, o al limite destinati a cambiare lentamente, ma anche al fatto che viviamo sempre più in paesaggi a basso contesto dove le spinte globali che arrivano dal commercio, dall’urbanizzazione e dalla tecnologia dissolvono i punti di riferimento, cambiandoli continuamente e riadattandoli. Le regole del gioco non sono più le stesse e forse il vocabolario che abbiamo in tasca non è più sufficiente per darci le giuste coordinate per leggere i microcosmi del quotidiano.
Abbiamo ancora la capacità di interpretare i paesaggi ad alto contesto perché sono quelli meno soggetti alle spinte del cambiamento (conservati) e soprattutto perché nei loro confronti siamo solitamente stimolati da un lessico più pervasivo e ricco: dalla pubblicistica che si sofferma maggiormente su panorami eccezionali e luoghi spettacolari; dalla nostra predisposizione per concetti quali patrimonio, conservazione e cultura; dalla continua esposizione virtuale a immagini e immaginari che indugiano su elementi iconici e facilmente riconoscibili. Invece, siamo maggiormente disorientati da quello che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni o da quegli infiniti spazi che popolano e mettono in relazione le mete privilegiate. In particolare, mi riferisco ai paesaggi ordinari (e ai loro mutamenti) come i più complessi da interiorizzare e da metabolizzare, perché pur facendo parte della nostra routine, visiva e abitativa, li riteniamo spesso scontati e vi prestiamo poca attenzione. In questi luoghi il cambiamento non ci appare mai radicale, non procede per fratture, come può accadere ad esempio per un luogo lontano che magari rivediamo dopo vent’anni accorgendoci all’improvviso che non corrisponde più all’immagine conservata nella memoria. Le modifiche, però, ci sono anche nel contesto del quotidiano e possono anche essere maggiormente traumatiche perché hanno a che fare con la sfera dei sentimenti e delle emozioni (senso del luogo) e con quella che il geografo cino-americano Yi Fu-Tuan ha chiamato ‘topofilia’, l’attaccamento ancestrale e profondo per i luoghi (Yi Fu-Tuan, Topophilia: A Study of Environmental Perception, Attitudes, and Values, Columbia University Press, 1990).
Per cercare di avere più coordinate a proposito dei contesti ordinari dobbiamo ricordarci che oltre ad esserci infiniti modi di percorrere lo stesso itinerario (da casa all’ufficio o dal bar dietro l’angolo alla casa di un amico), anche il ritmo con cui lo facciamo può aiutarci a superare i limiti della consuetudine. Il tempo della nostra mobilità, infatti, ha un suo impatto su come visitiamo, viviamo, leggiamo e interpretiamo il paesaggio. L’andare a piedi, ad esempio, ci permette di prolungare la nostra presenza nei luoghi (la sosta) esponendoci a nuovi incontri e a nuove possibilità di osservazione, anche puramente casuali e fortuite, che ci possono portare a incespicare nelle frange del noto per scoprire che dentro quelle pieghe che consideravamo ovvie si può invece celare un’impronta che prima non avevamo mai scorto. Un po’ come ha fatto Richard Long grazie alla sua camminata in uno spazio qualunque, significandolo con la sua presenza e trasformando una traccia in una impronta, anche se effimera. Si tratta quindi di partire con pazienza dall’osservazione per trasformare la nostra wanderlust, la nostra voglia di girovagare, in riflessione, in memoria; si tratta di usare i sensi e la percezione (il caldo, il freddo, l’aperto, il chiuso, il visibile, il non-visibile ma udibile) per orientarsi, per dare senso al muoversi, alle cose, e per restituire leggibilità a quello che ci sembra non averla. Ma come fare a dare senso alle cose? Attraverso il nostro essere umani, quindi attraverso la nostra fisicità, affrontando la quotidianità senza imposizioni o preclusioni, ma con coesione e integrazione mentale e corporea. Muovendoci nel quartiere, in periferia, lungo una strada di campagna e provando a decifrare il cambiamento. Lavorando non solo sulla comparazione temporale (una volta era…), estetica (ma vuoi mettere la piazza del centro…) o sociale (il disagio di trovarsi di fronte a realtà altre…), ma anche sulla comprensione e sulle possibilità.
Dare senso al paesaggio vuol dire conferirgli un significato, chiamare quello che vediamo e incontriamo con il suo nome, o con nomi nuovi se quelli vecchi non bastano più, cercare di far corrispondere cose e parole, indugiando e camminando «…tanto da poter distinguere i particolari, tanto che nella confusione si rivelino le linee di fuga, tanto piano che il mondo vi appartenga di nuovo, tanto piano che appaia chiaro come il mondo non vi appartiene» come sosteneva Peter Handke (Attraverso i villaggi, Garzanti, 1984, p. 94). Passeggiare diviene quindi non solo uno strumento, ma un metodo per riconoscere e per riconoscerci, per non lasciare che le tracce si dissolvano ma possano concretizzarsi in impronte. Per cercare quella lattina di coca-cola abbandonata, sia essa sul ciglio di una strada, su una panchina in un parco, lungo il greto di un fiume e non vederci solo un segno della globalizzazione ma una impronta che ci parla di come abitiamo il mondo. Probabilmente non troppo bene, se non sta al suo posto dentro un cestino.

multiverso

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