IMPRONTA

Lo stato di salute, di vitalità e di resilienza dei sistemi naturali della Terra è ormai in condizioni che destano forti preoccupazioni per il futuro dell’umanità. Abbiamo profondamente modificato con la nostra azione l’intera evoluzione della vita sul nostro pianeta. Una recentissima e importante ricerca ha reso noto che la massa globale dei materiali prodotti dall’uomo ammonta attualmente a circa 1.100 miliardi di tonnellate e ha superato quella della biomassa vivente (costituita cioè da tutta la massa vivente nella biosfera) che viene calcolata in 1.000 miliardi di tonnellate.
Della massa vivente sulla Terra, la sola classe dei mammiferi cui apparteniamo è costituita per il 66% da animali domestici utilizzati dall’uomo (bovini, suini, caprini, ovini, ecc.), per il 30% dagli stessi esseri umani e solo per il 4% dalle specie selvatiche (dagli elefanti ai toporagni) (cfr. V. Smil, Harvesting the Biosphere: What we have taken from nature, MIT Press, 2012; Y. Bar On, R. Phillips, R. Milo, The biomass distribution on Earth, «Proceedings of the National Academy of Sciences», 15 (2018), pp. 6506-6511).
Nonostante la biomassa umana costituisca solo lo 0,01% circa di quella globale, quanto prodotto dall’uomo, a partire dal 1900, è andato aumentando in maniera incredibile con una crescita di circa 30 miliardi di tonnellate l’anno.
Ciò vuol dire che, ogni settimana che passa, per ciascun abitante del pianeta viene globalmente prodotto dalle azioni umane un peso superiore a quello del suo corpo. Se tale tendenza dovesse continuare con questi ritmi, si ritiene che la massa generata dall’uomo supererà i 3.000 miliardi di tonnellate l’anno entro il 2040 (cfr. E. Elhacham et al., Global human-made mass exceeds all living biomass, «Nature», 588 (2020), pp. 442-444).
Alcuni dati significativi: dalla rivoluzione industriale a oggi abbiamo rilasciato nell’atmosfera oltre 2.200 miliardi di tonnellate metriche di anidride carbonica, incrementandone il livello del 44%; all’inizio della rivoluzione agricola si stima che sulla Terra vi fossero 6.000 miliardi di alberi, oggi ve ne sono circa 3.000 miliardi; l’ammontare totale del cemento prodotto dagli esseri umani è tale da poter coprire l’intera superficie terrestre con uno spessore di due millimetri (cfr. T.W. Crowther et al., Mapping tree density at a global scale, «Nature», 525 (2015), pp. 201-205; S.L. Lewis, M.A. Maslin, Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene, Einaudi, 2019).
Oggi ci stiamo appropriando del 25% della produttività primaria netta (definita Human Appropriation of Net Primary Production, HANPP), cioè dell’energia dei raggi solari che viene trasformata dalla vegetazione terrestre in materia organica per renderla disponibile al resto della vita sulla Terra. Questa percentuale si ritiene possa raggiungere il 27-29% entro il 2050 se il nostro livello di impatto sui metabolismi naturali dovesse proseguire con i ritmi attuali, giungendo fino al 44% nel caso di un massiccio utilizzo di bioenergie prodotte dai suoli coltivati (cfr. F. Krausmann et al., Global human appropriation of net primary production doubled in the 20th century, «Proceedings of the National Academy of Sciences», 25 (2013), pp. 10324-10329).
In questo quadro si pone la definizione dell’Earth Overshoot Day (EOD), in italiano ‘Giorno del sovrasfruttamento della Terra’, che è la data in cui si colloca l’esaurimento delle risorse rinnovabili che il nostro pianeta è in grado di rigenerare nell’arco dei 365 giorni dell’anno e che cambia di volta in volta a seconda della rapidità con cui tali risorse vengono sfruttate. L’EOD è una data simbolica e viene calcolata dal Global Footprint Network (GFN), un’organizzazione no-profit internazionale, fondata e presieduta da Mathis Wackernagel, uno dei due studiosi che hanno elaborato il metodo di calcolo dell’‘impronta ecologica’, che individua tale giorno confrontando le esigenze dell’umanità – in termini di emissioni di carbonio, terreni coltivati, sfruttamento degli stock ittici e uso delle foreste per il legname – con la capacità del pianeta di riprodurre queste risorse e di assorbire il carbonio emesso dalle nostre attività.
Anche nel 2021, a livello mondiale, l’EOD è stato anticipato rispetto all’anno precedente: il giorno in cui la Terra ha idealmente esaurito le risorse naturali previste per tutto il 2021 è caduto il 29 luglio, rispetto al 22 agosto del 2020. In Italia il Giorno del sovrasfruttamento della Terra è stato calcolato per il 13 maggio 2021, in anticipo di un giorno rispetto all’anno precedente, anche se il rallentamento causato dalla pandemia sull’intera economia globale lo aveva generalmente posto più tardi del solito.
La riserva biologica che gli ecosistemi della Terra sono in grado di rinnovare in un anno viene definita dagli scienziati ‘biocapacità globale’. Si tratta dell’insieme dei servizi ecologici che la popolazione trae dagli ecosistemi locali, stimata attraverso la quantificazione della superficie dei terreni ecologicamente produttivi che sono presenti all’interno di quella porzione di territorio (che ovviamente può essere anche l’intero pianeta) presa in esame. Il bilancio ecologico di un’area ne rivela l’eventuale deficit o surplus e viene stimato mettendo appunto a confronto tale ‘biocapacità globale’ con la cosiddetta ‘impronta ecologica’ (Ecological Footprint, EF), che è lo strumento, molto maieutico, introdotto da Mathis Wackernagel e William Rees nel loro libro Our Ecological Footprint: Reducing Human Impact on the Earth, pubblicato nel 1996.
L’EF misura l’area biologicamente produttiva di mare e di terra necessaria a rigenerare le risorse consumate da una certa popolazione umana e ad assorbire i rifiuti prodotti. Per calcolare l’EF si mette in relazione la quantità di ogni bene consumato con una costante di rendimento espressa in chilogrammi per ettaro. Il risultato è una superficie espressa con l’unità di misura definita ‘ettaro globale’.
Ricorrendo all’EF è stato possibile, ad esempio, stimare quante ‘Terre’ servirebbero per sostentare l’umanità, qualora tutti vivessero secondo un determinato stile di vita.
«Come il denaro, l’impronta ecologica è uno strumento che pone una domanda fondamentale: quanta natura costa questo prodotto? Quanta biocapacità è necessaria per un bicchiere di succo d’arancia e quanta per un litro di gas naturale liquefatto? E possiamo spingerci ancora oltre: di quanta natura ha bisogno una persona? L’impronta di una persona è una ‘moneta’ che viene spesa per fornire servizi, per ricavare spazio per i nostri edifici, per produrre beni e smaltirli. L’impronta di una persona è la somma di tutto ciò di cui ha bisogno, e questa somma tiene conto anche dei suoi rifiuti (perché anche i rifiuti attingono alla natura). Quello che l’euro, il dollaro o lo yuan sono per il denaro, l’ettaro – o più precisamente l’ettaro globale – lo è per l’impronta ecologica» (M. Wackernagel, B. Beyers, Impronta ecologica, Edizioni ambiente, 2020, p. 45).
Il principale vantaggio dell’EF è che ogni valore (energetico o di consumo delle risorse) inserito nell’indicatore viene tradotto in termini di spazio, rendendo in maniera immediata e più universalmente comprensibile il consumo di risorse di una popolazione in base ai suoi consumi attuali. Lo svantaggio è che, in conseguenza di questi risultati intuitivamente più comprensibili, si possono però generare contraddizioni in termini comunicativi. Se, ad esempio, si dicesse che al passo dei consumi attuali sarebbe necessario un 30% in più di pianeta Terra si darebbe un messaggio incongruente, segnalando che si sta consumando più di quel che si ha già. Invece, il messaggio dell’EF è che stiamo consumando territori ‘avanzati’ o ‘risparmiati’ dal passato. Lo spazio della terra andrebbe interpretato come una superficie stratificata e quello in più corrisponde a uno spazio/tempo che le generazioni di oggi stanno intaccando attingendo alle risorse ereditate dalle generazioni precedenti.
Come ricordava Ugo Mattei su «Multiverso», Vuoto (Forum, 2020, p. 123), «se i nostri nonni avevano l’obiettivo di trasformare beni comuni in capitale, noi dovremmo trasformare l’eccedenza che abbiamo, il capitale, in un grande progetto condiviso che è quello di riportarci a un’impronta ecologica sostenibile. Per fare questo, dovremmo mettere in discussione anche tutte le nostre istituzioni, politiche, giuridiche, sociali, economiche, tecniche e di ricerca scientifica. Al contrario, i modelli che ci vengono indicati come modelli politicamente più desiderabili, sono i luoghi più insostenibili del mondo».
Il concetto di impronta ecologica rafforza quello dei ‘confini planetari’ (Planetary Boundaries) indicati sin dal 2009 da autorevoli scienziati che studiano il sistema Terra nel suo complesso, come quei limiti che l’intervento umano non deve superare, pena effetti veramente negativi e drammatici per tutti i sistemi sociali (cfr. J. Rockstrom et al., A Safe Operating Space for Humanity, «Nature», 461 (2009), pp. 472-475; W. Steffen et al., Planetary boundaries: guiding human development on a changing planet, «Science», 347 (2015), p. 736; J. Rockstrom, A. Wijkman, Natura in bancarotta. Perché rispettare i confini del pianeta, Edizioni ambiente, 2014; J. Rockstrom, M. Klum, Grande mondo piccolo pianeta, Edizioni ambiente, 2015). I confini planetari riguardano nove grandi problemi tutti fortemente connessi tra di loro: il cambiamento climatico, l’acidificazione degli oceani, la riduzione della fascia di ozono nella stratosfera, la modificazione del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo, l’utilizzo globale di acqua, i cambiamenti nell’utilizzo del suolo, la perdita di biodiversità, la diffusione di aerosol atmosferici e l’inquinamento dovuto ai prodotti chimici antropogenici.
Per quattro di questi, cioè il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, le modificazioni dei cicli dell’azoto e del fosforo e i cambiamenti nell’uso dei suoli, ci troviamo già oltre il confine indicato dagli scienziati.
Complessivamente, i nove confini planetari individuati dagli studiosi possono essere concepiti come parte integrante di un cerchio: in questo modo siamo in grado di definire l’area di sicurezza presente in ciascuno di essi come ‘uno spazio operativo sicuro per l’umanità’ (SOS Safe Operating Space). Il concetto dei nove confini planetari consente di evidenziare in maniera efficace a un vasto pubblico la conoscenza che abbiamo acquisito sui limiti biofisici della nostra Terra, mettendo quindi in discussione le concezioni tradizionali delle nostre impostazioni economiche e del mito della crescita continua materiale e quantitativa. Mentre l’economia convenzionale affronta il degrado ambientale come una ‘esternalità’ che ricade in gran parte fuori dall’economia monetizzata, gli scienziati naturali hanno letteralmente sovvertito tale approccio proponendo un insieme di limiti quantificati dell’uso di risorse entro cui l’economia globale dovrebbe operare, se si vuole evitare di toccare i punti di non ritorno del sistema Terra con effetti devastanti sull’intera umanità. Tali confini non sono descritti in termini monetari ma con parametri naturali, fondamentali per garantire la resilienza del pianeta affinché mantenga uno stato simile a quello del periodo abbastanza stabile dell’Olocene durante il quale si è creata la civiltà umana in cui tutti noi oggi viviamo.
La discussione scientifica e le applicazioni pratiche del concetto dei confini planetari si sono andate sempre più diffondendo e ampliando nei dibattiti di politica internazionale, incrociandosi ovviamente con le riflessioni di carattere sociale.
Kate Raworth, economista presso le Università di Cambridge e Oxford, ha allargato le ricerche e le riflessioni sui confini planetari inserendole in un Safe and Just Space for Humanity, uno spazio operativo giusto e sicuro per l’umanità (cfr. K. Raworth, L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo, Edizioni ambiente, 2017; cfr. anche il sito di Kate Raworth che presenta il sottotitolo Exploring Doughnut Economics, www.kateraworth.com).
Raworth ha infatti incrociato gli studi dei Planetary Boundaries legandoli all’individuazione dei bisogni sociali essenziali. Il benessere umano dipende oltre che dal mantenimento dell’uso complessivo delle risorse in un buono stato naturale, che non può scendere sotto certe soglie, anche, e in uguale misura, dalle necessità dei singoli individui di soddisfare alcune esigenze fondamentali per condurre una vita dignitosa e con le giuste opportunità. Le norme internazionali sui diritti umani hanno sempre sostenuto per ogni individuo il diritto morale a risorse fondamentali quali cibo, acqua, assistenza sanitaria di base, istruzione, libertà di espressione, partecipazione politica e sicurezza personale. Quindi, come esiste un confine esterno all’uso delle risorse, un ‘tetto’ oltre cui il degrado ambientale diventa inaccettabile, così esiste un confine interno al prelievo di risorse, un ‘livello sociale di base’ sotto cui la deprivazione umana diventa inaccettabile. In questo modo, per Kate Raworth, il cerchio dei Planetary Boundaries diventa una ciambella, da cui il termine ‘economia della ciambella’ (Doughnut Economics). Una corretta combinazione di confini sociali e planetari di questo tipo crea una nuova prospettiva di sviluppo sostenibile, entro la quale è possibile operare per l’umanità tutta.
L’SOS costituisce oggi un punto di riferimento ineludibile, un vero e proprio framework per declinare operativamente la sostenibilità nelle nostre società (per questo il WWF ha prodotto un manifesto lanciato nel 2017 sull’SOS aprendolo alla sottoscrizione di istituzioni, organizzazioni, imprese, che si riconoscono in questa impostazione; cfr. www.wwf.it/manifestosos).
L’approccio ‘per impronte’ nella prospettiva dello sviluppo sostenibile trova anche altri interessanti metodi di valutazione che focalizzano alcune dimensioni ambientali specifiche. Si pensi ad esempio alla cosiddetta ‘impronta idrica’ (Water Footprint, WF), un indicatore che mostra sostanzialmente il volume complessivo di acqua dolce utilizzata da una popolazione presa in esame per produrre beni e servizi. Anche la WF può essere definita su più scale, da quella individuale a quella di comunità, di un’organizzazione o anche di un intero sistema produttivo. Il consumo di acqua si calcola come volume di acqua evaporata e/o inquinata in una singola unità di tempo. Il concetto venne introdotto nel 2002 da Arjen Hoekstra e Ashok Chapagain allo scopo di costruire un indicatore economico dell’utilizzo di acqua basato sul consumo finale, in modo tale da fornire informazioni utili in aggiunta al tradizionale indicatore fondato sul settore produttivo. Per raggiungere tale risultato si considerano tre differenti tipi di acque: la blu – quantità di acqua dolce che non torna a valle del processo produttivo nel medesimo punto in cui è stata prelevata o vi torna, ma in tempi diversi; la verde – l’acqua che, dopo essere penetrata nel suolo, viene dispersa per evapotraspirazione o incorporata nelle piante; la grigia – il volume di acqua necessario a diluire gli inquinanti fino al ripristino degli standard di qualità delle acque. La WF fornisce una comprensione di come le scelte economiche e i processi impattino sulla disponibilità di adeguate risorse idriche e altre realtà ecologiche.
Particolare interesse ha inoltre suscitato la cosiddetta ‘impronta di carbonio’ (Carbon Footprint, CF) con i suoi evidenti riferimenti alle tematiche drammaticamente attuali dei cambiamenti climatici. La CF è un parametro che viene utilizzato per stimare le emissioni dei gas serra causate da un prodotto, da un servizio, da un’organizzazione, da un evento o da un individuo, espresse generalmente in tonnellate di CO2 equivalente (ovvero prendendo come riferimento per tutti i gas serra l’effetto associato alla CO2, assunto pari a 1). Questo tipo di approccio trova un riferimento applicativo molto diretto nella ‘analisi del ciclo di vita’ (Life Cycle Assessment, LCA). Si tratta di un processo oggettivo di analisi, quantificazione, valutazione e divulgazione degli impatti ambientali, economici e sociali associati a un prodotto. Il termine ‘ciclo di vita’ include tutte le fasi che caratterizzano la vita di tale prodotto: dall’estrazione delle materie prime, allo smaltimento in discarica o alla reintroduzione nel ciclo produttivo. La versione di LCA centrata sulle dimensioni ambientali è diventata un must have per qualunque azienda, non solo per l’ottenimento di certificazioni o per scopi di marketing, ma anche per il raggiungimento di un elevato livello di conoscenza di ogni singola fase in cui si articola la produzione del proprio prodotto. Conoscere quanto questo impatta sull’ambiente e quali fasi del suo ciclo di vita sono le maggiori responsabili è lo scopo della LCA. Il grande vantaggio di tale metodologia è che fornisce diverse chiavi di lettura di tale impatto, a seconda dell’obiettivo dello studio. Pertanto, si può andare a determinare quanto l’intero ciclo di vita di un prodotto (o una particolare fase del suo processo produttivo) contribuisca al riscaldamento globale, al processo di eutrofizzazione marina e terrestre, al consumo di suolo, al consumo di acqua, ecc. In genere, la chiave di lettura più utilizzata è il contribuito al riscaldamento globale, in quanto è noto che l’alterazione del clima produce effetti a cascata sull’intera biosfera e, di conseguenza, su qualunque risorsa naturale esistente. Tale contributo è espresso in termini di quantità di CO2eq (CO2 equivalenti) emesse in atmosfera. Una LCA che si concentra solamente sul contributo al riscaldamento globale è appunto la CF, una metodologia analitica estremamente utile al giorno d’oggi e, ormai, imprescindibile per il raggiungimento dei sempre più stringenti e ambiziosi obiettivi sostenibili imposti dagli accordi e leggi internazionali (Agenda 2030) e/o comunitarie (Green Deal europeo).

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