IMPRONTA

Paola Cosolo Marangon intervista Alberto Pellai

Il tema dell’impronta mi sembra piuttosto calzante se declinato con l’impatto che può avere un tempo come quello caratterizzato dalla pandemia su bambini e ragazzi. Ogni azione educativa, ogni contesto, ogni situazione lascia tracce di cui siamo più o meno consapevoli. Per riflettere su questo tema ho pensato a te e alla tua esperienza sia sotto il profilo professionale che personale, in quanto padre di quattro figli. Il tuo osservatorio privilegiato di medico e psicologo ti consente di avere un quadro della situazione in quest’epoca davvero particolare. Il Covid 19 ha lasciato tracce purtroppo pesanti e non ne siamo ancora fuori. Forse è ancora presto per parlare di impronta ma molti segnali ci dicono che una serie di danni è già evidente soprattutto per chi, come i più piccoli, è stato privato del tempo e dello spazio necessari per una crescita serena.


Se dovessimo dare una sorta di definizione dell’impronta che sta lasciando il Covid 19, a cosa penseresti?

A un’impronta che da una parte ci ha rimesso nella dimensione di esseri umani, fragili e vulnerabili, e che dall’altra ha probabilmente ridimensionato quell’idea, o illusione, di onnipotenza che qualsiasi cosa potesse essere gestita e controllata da un’umanità che si stava considerando ormai superlativa. Un’umanità apparentemente senza più bisogno di limiti, di confini, ma che in effetti, in quella percepita onnipotenza, aveva già prodotto molti problemi, a partire da quelli ambientali. Un po’ un ritorno al principio di realtà dove oltre ai propri punti di forza bisogna avere una consapevolezza anche dei propri limiti e delle proprie fragilità.


I bambini più piccoli sono stati segnati da questo tempo sospeso, dal non poter stare con i compagni, dal vivere dentro le fatidiche ‘bolle’ al nido e alla scuola dell’infanzia ma anche all’interno delle mura domestiche. Cosa rimarrà per loro di questo tempo?

Questo periodo lascerà di sicuro l’impronta di una vita diversa da come avrebbero dovuto viverla soprattutto nella fase iniziale del loro percorso di crescita, perché crescere vuol dire proprio aprirsi e loro invece hanno dovuto fondamentalmente imparare a chiudersi, a stare in spazi ristretti, in relazioni limitate, in esperienze confinate. Si sono dovuti confrontare costantemente con la dimensione della protezione, rinunciando alla dimensione dell’esplorazione.
La crescita è proprio quell’equilibrio sano in cui, avendo garantita la protezione che ti serve per sentirti al sicuro, ti butti e diventi un esploratore, qualcuno che va a cercare cosa c’è nell’altro, cosa c’è fuori, cosa c’è nel mondo.
Tutti questi aspetti sono rimasti inevitabilmente limitati. Il rifugio, il nido in cui crescere, è diventato lo spazio assoluto, le relazioni con i familiari diretti sono diventate le relazioni che hai frequentato di più e gli altri, soprattutto i tuoi coetanei, il gruppo, la squadra, sono diventati esperienze più rare, più limitate. Credo che quello che rimane ai nostri bambini e bambine sia una scarsa dimestichezza, uno scarso allenamento, una scarsa acquisizione delle competenze sociali e pro-sociali.
Chi è l’altro per un bambino e una bambina oggi? Molte volte è qualcuno da tenere a distanza, qualcuno che non puoi riconoscere – non conoscere ma ri-conoscere – perché spesso è nascosto dalla mascherina, un altro di cui perdi i connotati. Diventa una sorta di altro generico che indipendentemente dal ruolo, dal legame che ha con te, devi tenere un po’ a distanza perché è un potenziale portatore di problemi.
Pensiamo anche a gesti molto semplici che per i bambini sono automatici, come raccogliere un fiore e regalartelo, raccogliere una cosa che è caduta per terra e dartela, tutti gesti che non si possono più fare. Quei gesti che sono spontanei adesso sono fortemente bloccati, perché è come se avessero dentro, nonostante la competenza pro-sociale, un potenziale di rischio e pericolo per te e per l’altro, che ti lascia lì bloccato e congelato.
Dovremo tenere conto di tutti questi aspetti e direi che l’investimento da fare sarà ri-educare i bambini alle competenze esplorative: la vita non te la giochi nello spazio di protezione, ma molto più nello spazio di esplorazione.
Un altro elemento importante sarà la capacità di alimentare, costruire, facilitare la scoperta dell’altro, quella dimensione relazionale che senza dubbio è stata una delle cose più bloccate e ridotte pervenute nel percorso di crescita.


Il Covid ci porta inevitabilmente a parlare di un prima e di un dopo. ‘Prima’ cercavamo di tenere lontani i bambini dagli schermi, ‘durante’ li abbiamo lanciati dentro quegli stessi schermi per ore. L’esperienza della DAD cosa lascerà? Possiamo aspettarci dei ritorni di fatica per quanto riguarda la concezione di scuola fatta in questo modo a questa età?

Dovremmo ribadirci tutti che unire il concetto di DAD al concetto di prima e seconda infanzia è un ossimoro, è come parlare di ghiaccio bollente. Non ha senso, non può esserci apprendimento attraverso uno schermo. Lo sapevamo già prima del Covid: la relazione con questi dispositivi non può essere una relazione educativa e questo tipo di apprendimento, quando sei piccolo, ha probabilmente più effetti indesiderati e collaterali che effetti positivi. Nella vita di un bambino lo schermo deve essere divertimento e il meno possibile apprendimento, perché quest’ultimo rimane, soprattutto quando sei piccolo, una dimensione altamente relazionale che acquisisce significati solo quando tu sei con l’altro. I bambini imparano quello che vivono e vivere vuol dire essere con l’altro e non guardare l’altro dentro uno schermo.


La pandemia ha significato soprattutto un iniziale lockdown, con conseguente isolamento per tutti. È stato difficile per il mondo adulto ma ancor più per i più giovani che si sono visti togliere una delle cose per loro più importanti: la libertà di uscire e di staccarsi dal nucleo familiare. Uno dei compiti evolutivi dell’adolescente è proprio quello di imparare la separazione che significa anche gestirsi ‘fuori’, stare nel mondo. A mio avviso sono stati proprio loro ad aver avuto la peggio. Che impronta gli è rimasta?

Quella di una sorta di furto del loro diritto alla crescita e alla vita e, soprattutto nel primo lockdown, di un furto spinto da motivazione caotiche: tutti eravamo nel caos, si capiva poco e l’unica cosa che ci è venuta in mente di fare è stato dire a ragazze e ragazzi di stare zitti e buoni in un momento in cui invece avrebbero potuto essere parlanti e molto attivi. Li abbiamo chiusi in casa per tre-quattro mesi senza avere alcuna evidenza di quanto ciò fosse utile per loro. Nel primo lockdown non rischiavano niente, non erano né veicoli né vettori di trasmissione del virus, ma erano lì dentro, bloccati nelle loro abitazioni. Facendo così gli abbiamo anche restituito l’idea che non immaginiamo o pensiamo in alcun modo che possano giocare un ruolo attivo all’interno del loro contesto di vita e nelle comunità cui appartengono. Da sempre i ragazzi e le ragazze hanno un’energia, una forza vitale, che può essere utilizzata dentro le situazioni sfidanti non come parte del problema ma come parte della soluzione. Nessuno ha pensato a loro come soggetti.
Se guardo ai miei figli o alle storie delle famiglie che si sono confrontate con noi, cosa avrebbero dato i ragazzi per poter andare a fare la spesa per qualcuno, portargliela, consegnargliela! che, semplicemente, era anche un modo per essere mobili, visibili dentro il proprio territorio di vita. Abbiamo invece immaginato che il loro unico ruolo fosse quello di rimanere chiusi nelle loro stanze per non complicare il caos che già aveva invaso tutto.
Secondo me in questa visione c’è solo la percezione dell’adolescente come portatore di caos e non dell’adolescente come portatore di competenze che dentro al caos possono essere canalizzate, direzionate, tutorate, sostenute e che possono avere un ruolo molto positivo e costruttivo. Con il senno di poi ci dobbiamo chiedere se aveva davvero senso chiuderli completamente in casa per tre-quattro mesi e non assegnarli alcun ruolo, alcuna funzione, alcuna competenza. In confronto a quanto è successo, ad esempio, nel Canton Ticino, dove le scuole sono rimaste sempre aperte, le attività sportive non si sono mai interrotte e tutto è andato avanti, possiamo proprio dire che noi li abbiamo costretti a una reclusione, a una limitazione di libertà, semplicemente perché eravamo spaventati che facessero casino. In realtà hanno poi cominciato a farlo proprio perché non avevano ricevuto alcun ruolo. Si sono detti: forse gli adulti pensano che siamo scomparsi, guardate invece che ci siamo.


Un’altra impronta piuttosto pregnante è quella relativa alla morte, una morte vista sfilare in televisione ma non elaborata poi nella vita reale. Cosa ne pensi?

Penso che per noi genitori sia stato uno dei passaggi più complessi dentro questa pandemia che ha portato la morte all’interno delle comunità e all’interno dei percorsi di crescita. Era un tema del tutto rimosso, negato, su cui non ci siamo mai relazionati con i nostri figli. Come dici nella tua domanda, è stato un qualcosa di non elaborabile, non pensabile, perché non abbiamo mai permesso ai più giovani di poterlo elaborare, di poterlo pensare.
Nel primo lockdown, nei centri più colpiti, morivano moltissime persone, tutte le famiglie erano chiuse nel loro bozzolo e i genitori, quando ricevevano la notizia della perdita di un loro caro, erano disperati perché dicevano: «li abbiamo visti andare via così e non lo diciamo ai nostri figli che i loro nonni sono morti perché è un dolore per loro ingestibile, non attraversabile, e poi cosa glielo diciamo a fare se non c’è più neanche il funerale».
Direi che questa emergenza ha effettivamente rimesso davanti ai nostri occhi una parola che avevamo imparato a non affrontare più, a non pensare più come integrabile nel percorso di crescita dei nostri figli. Come se ci si fosse improvvisamente detti che questo aspetto, questo tema, va affrontato. Più in generale direi che proprio nell’area dell’educazione emotiva ci ha fatto vedere che nella nostra percepita onnipotenza – che non corrispondeva ad alcun principio di realtà – stavamo forse rincorrendo l’idea di rendere i nostri figli solo felici. La vita invece ci obbliga a crescerli anche con il diritto alla tristezza, con il diritto alla paura, che sono emozioni inevitabili nella vita e non devono essere negate o rimosse, ma devono essere attraversate, gestite e poi elaborate. Nella mia attività lavorativa questo elemento ha portato a sviluppare alcuni progetti legati proprio alla pedagogia della morte.
Paradossalmente questo tema è tornato fuori con una logica quasi delirante nella serie Squid Game che ha proposto una morte tutta finta, tutta inesistente. A noi, che eravamo in contatto con una morte vera, che causava dolore, hanno raccontato una storia dove la morte era la punizione per un gioco finito male, in cui non eri tu il vincitore. I bambini la mettevano in scena dentro all’imitazione di una serie TV che non avrebbe dovuto essere accessibile, e mentre noi non riuscivamo a parlare della morte vera, tutti loro continuavano a parlare di una morte finta, di una morte che non corrisponde assolutamente all’esperienza degli esseri umani.
Credo che dentro questo paradosso ci siano molte cose che la pandemia ha disvelato e che lasci a noi adulti una riflessione su che cosa significhi fare educazione, ma anche fare cultura, in un tempo e in una civiltà che si considerano estremamente progrediti ma che hanno perso un po’ le fondamenta di quell’umanesimo che ci appartiene.


Ti chiedo un’ultima suggestione: se dovessi definire con un’immagine l’impronta di questo Covid 19 che cosa ti viene in mente?

Ho due immagini che sono collegate alle storie con cui mi sono relazionato in questo tempo.
La prima è quella di due fratellini che hanno i genitori uno medico e l’altro infermiere: nel primo lockdown, circondati da tutta questa narrazione di morte e di paura, vederli andare in ospedale era per loro come vederli andare in guerra. La mamma ha raccontato che dalla settima-ottava sera hanno deciso che non avrebbero più dormito nei loro lettini separati ma insieme abbracciati. L’ho trovata un’immagine di una potenza incredibile, perché ci dice che cosa siamo in fondo noi esseri umani, che cosa ci fa sentire la nostra mente di fronte alla paura: ci fa sentire uniti, compatti, integri.
La seconda immagine è quella dell’arcobaleno che non vuol dire ‘andrà tutto bene’, ma significa che anche se non puoi evitare la tempesta, quando questa svanisce, se alzi lo sguardo e lo vai a cercare, trovi tracce di bellezza anche dentro tutto lo scompiglio che ha portato. Credo che l’arcobaleno sia un simbolo, un segnale che non puoi mai trovare prima o durante la tempesta, devi aspettare che passi e poi ti dà un’indicazione, una direzione verso cui dirigere lo sguardo. Per cercare l’arcobaleno devi sempre tenere lo sguardo in alto, non puoi abbassarlo. C’è sempre questa idea che nel cercare una linea dell’orizzonte, una prospettiva, un futuro che ci aspetta, c’è anche il motore principale per andare avanti. Guardare in alto è quello che dobbiamo fare in una pandemia che ha invece abbassato tantissimo lo sguardo di tutti. Il rischio enorme è che abbiamo ancora questa grande divisività del tutti contro tutti e questo continuo rincorrere le nostre certezze, le nostre speranze, le nostre relazioni nella scatola magica di uno schermo, allontanandoci dalla vita reale.

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