IMPRONTA

L’impronta è un segno di natura strana: rinvia a ciò che è stato ed è tutto quello che ne è rimasto. Attesta insieme che in passato qualcosa è stato certamente presente e il fatto che ora è assente. Trattiene il tempo breve di un passaggio già avvenuto: la zampa del capriolo, le prove del picchio nel tronco, il timbro sulla ceralacca riscaldata e brunita, le manine del Tommaso conservate nel cemento fresco. È spesso ambigua, una parte per il tutto, di preferenza una estremità: una incisione che deriva da scavo, scalfittura o pressione. Un indizio per sottrazione: è un vuoto, un’assenza, quasi una lesione seppure superficiale.
La visibilità, la riconoscibilità, la durata di un’impronta non dipendono da chi l’ha lasciata, ma dal substrato, dalla consistenza del supporto. Sono tanto più apprezzabili quanto più il materiale è fluido e malleabile: la neve della sera, la sabbia umida, il fango molle, la corteccia tenera. Il supporto allora sembra riprodurre fino al dettaglio il marchio distinto di un individuo unico, un’identità irripetibile. Poi il tempo la rapprende, circostanze fortuite modificano la forma e il contorno dell’incisione, il vento e l’acqua la erodono, nuove tracce si sovrappongono a confonderla, il vuoto si riempie e l’erba si risolleva. Così che il dettaglio si ritrae, si sottrae, scivola verso il generico: non l’individuale ma uno tra i tanti, un qualsiasi rappresentante della specie. Il sostrato che consente l’impronta sembra negarne insieme la possibilità: per essere impresso deve essere fine, granulare; per durare alla vista di chi sopraggiunge deve farsi solido e nitido come un fossile.
L’impronta è individuata e colta solo nel giusto intervallo – tra il recente passato e il futuro imminente – al tempo debito. All’incrocio di tre debolezze: di chi l’ha impressa e ora non è più qui; della sua conformazione destinata presto a svanire; della sorpresa dell’osservatore che la rinviene inattesa. Il senso dell’impronta è affidato al di fuori e al dopo: al cacciatore esperto e delicato – geologo o storico, naturalista o semiologo – che trova, osserva, compara, attribuisce e classifica. Se fortunato e scrupoloso la estrarrà dal substrato facendone un calco: una maschera funebre per la messa in scena nel museo dei reperti. Il lavoro di decifrazione di un piccolo testo che rimanda a un originale assente, una ricostruzione ipotetica del contesto per inseguire la matrice volatile.
Si tramanda nei secoli una favola singolare (proviene da un Oriente introvabile), dove si narra di un lenzuolo di lino incorruttibile che reca l’impronta di un corpo evanescente, impressa senza alcuno sforzo, solo sfiorando la tela sulla lastra del sepolcro.
C’è chi ritiene di riconoscere l’immagine, registrata come eterno inconfondibile sigillo di quel profeta solitario. Nulla al mondo di altrettanto complicato e anche semplice: il segno perfetto di quell’unico, la sua anima resa visibile, l’archetipo di ogni altra impronta sulla terra. Perché è l’immagine residua del suo sé, il corpo esterno e pesante che arretra e coincide col sé del corpo vissuto, è un’identità labile che si indovina nella sagoma tra le pieghe. Si smarrisce non appena la si guarda, si svela solamente ai devoti, a quelli che credono che il proprio sé si imprima nel corpo quando si decompone e si assenta nell’irrealtà.
E c’è chi incorre nella fatale ingenuità: i grandi uomini, rappresentativi di qualcosa, incedono nel cammino della vita con piglio ingombrante, con passo talmente pesante, nell’intento di lasciare un’orma più profonda. Malati di qualche ipertrofia del loro sé, ambiscono a marcare un segno indelebile e persino a tracciare una pista inconfondibile, che segnali o almeno suggerisca ai posteri la direzione del loro passaggio esemplare. Piuttosto ridicolo vederli pestare i piedi e affondare nel pantano, creare dei vuoti abissali, che saranno colmati dai cadaveri di nemici o di fedeli.
Tanto può l’ignoranza che non si contenta e che si dispiace di essere presente solo nell’assenza. Al punto da pretendere un’impronta permanente di sé (come antidoto all’incertezza), da pietirla, da trafugarla ai distratti.
Ma il sé è un’impronta molto lieve, accennata in trascurabili movenze del corpo: forse meglio affidarla al buon cuore di qualche interprete amichevole.


Letture consigliate

Roland Barthes, La camera chiara. Note sulla fotografia, Einaudi, 1980 e 2003.
Bernhard Waldenfels, Fenomenologia dell’estraneo, Raffaello Cortina, 2008.
Carl Safina, Al di là delle parole, Adelphi, 2018.
Giorgio Vallortigara, Pensieri della mosca con la testa storta, Adelphi, 2021.

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