IMPRONTA

Andrea Lucatello intervista Mino Gabriele

Di fronte a un’impronta, possiamo fermarci a quello che vediamo oppure chiederci anche cosa possa comunicare e cosa possa significare. Succede per tutte le immagini ma, più in generale, cos’è un’immagine?

L’immagine è ciò che l’uomo vede (esteriormente) e ciò che immagina o sogna (interiormente); in entrambi i casi un’immagine è, e coincide, con il luogo spaziale, delimitato e commensurabile, che occupa con la sua forma. L’immagine dunque è una dimensione spaziale limitata, in sé autonoma e sufficiente, un ‘oggetto’ della ‘vista’ umana, come per esempio può essere la figura di un elefante, di una sedia, di una impronta di mano su un muro, della luna, di un fantasma in sogno o immaginato. Questa autonomia pone l’immagine come qualcosa di ‘altro’ da noi che con noi si rapporta, per cui è naturale chiedersi cosa ‘voglia dire’ la sua presenza, la sua comparsa, cioè cosa significhi rispetto a noi (pensiamo, ad esempio, al monolite in 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick). Questa domanda genera implicitamente e inevitabilmente una risposta per cui l’immagine è un qualcosa che deve avere un senso di per sé in rapporto con noi. In questa prospettiva qualsiasi immagine, all’inizio, non può apparirci che enigmatica e nello stesso tempo costituire l’esordio di un processo di domande e risposte teso a comprenderla nei suoi significati. L’impronta, intesa come traccia lasciata dal passato, è anch’essa un’immagine che mette in moto lo stesso processo per conoscerne il senso, in quanto invita a chiedersi ‘chi, cosa e come’ l’ha generata, per risalire così alla sua genesi e significato primo.

Come emigra un’immagine da epoca a epoca?

L’immagine artistica è un’idea (un concetto) visualizzata, per cui questa (il significato) e quella (il significante) sono indissolubilmente legati. Quando per motivi storico-culturali i più vari, l’immagine/idea si sposta o viene tramessa da un’area geografica a un’altra, ecco che si ha la migrazione. Il passaggio avviene per processi di assimilazione analogica, in cui una data immagine/idea, riconosciuta appunto analogicamente da un nuovo contesto culturale, viene da questo recepita e adattata alla sua comprensione, dunque catalogata nei limiti del proprio inventario. Nel passaggio la trasformazione può essere di vari generi, dipende da più fattori, ma la forma, il significante, non può alterarsi più di tanto perché è il veicolo visibile di riconoscimento che identifica la stessa immagine, mentre il significato può essere alterato, fino a esser sostituito da un altro (si pensi alla svastica indiana e a quella nazista). Seguire le tracce di queste migrazioni, non sempre facili da individuare, porta a scoprire il prezioso filo della contaminazione che arricchisce e feconda la mente e la civiltà di popoli diversi in epoche diverse (come nel caso dell’Ellenismo e dell’Impero romano); viceversa, il rifiuto di tali transiti testimonia l’aridità, la chiusura, come accade talvolta in contesti monocentrici, ultraortodossi o monoteisti.

Dalle impronte e dalle forme della natura, l’uomo ha ricavato molti dei suoi simboli che spesso si sono caricati di significati segreti. Che ruolo svolgevano i simboli nell’antichità?

Il simbolo ha svolto un ruolo rilevante nel mondo antico in quanto è un segno sintetico, un contrassegno (ma anche una parola, un oggetto, un gesto, ecc.) che evoca, richiama un concetto, un’idea determinata e concordata tra alcuni, tale da essere da questi stessi riconoscibile nel suo intimo significato, ma non da altri. Da ciò la valenza di riservatezza o di segreto che lo caratterizza. Questo aspetto pone il problema della sua interpretazione, ossia l’indagine intelligente che riguarda sia chi desidera scoprire il senso che occulta sia chi, pur sapendolo, vuole approfondirne le più alte accezioni. Difatti il simbolo, dovendo figurare qualcos’altro di sotteso e di nascosto da ciò che mostra, assume il fascino dell’enigma che accenna, richiama, ma non dice. Con questa autorità evocativa, svincolato da qualsiasi obbligo di compiuta aderenza a ciò che deve esprimere, ecco che il simbolo può elevarsi a mera immagine autonoma, a soggetto vero e proprio, assumendo in contesti religiosi aspetti mistici e cultuali quale signum sacrum, vicario a tutti gli effetti del mondo divino.

E oggi che ruolo possiamo attribuirgli?

Il mondo di oggi, rispetto a quello antico, è talmente desacralizzato che il simbolo, a parte quello tradizionale religioso, è per lo più ridotto a cartello stradale o a logo pubblicitario, o a popolare contrassegno di partiti. Pertanto viene del tutto invertito nella sua funzione originaria, ovvero invece di celare contenuti di alto profilo concettuale e speculativo, ora manifesta in chiaro, palesa ciò che rappresenta, richiamando volutamente l’attenzione su ciò che veicola. A questa sorta di declino simbolico segue il modesto livello dell’interpretazione.

Sacro e reale sembrerebbero due termini antitetici. Ma è dalle impronte del reale che si immagina il sacro. Che relazione c’è tra sacro e reale?

Per chi crede e vive il sacro anche la realtà è conseguentemente sacra (o perlomeno distinguibile tra sacra e profana) e non c’è antinomia: si tratta di una questione individuale, personale. Più in generale la realtà (se intesa come l’insieme concreto e manifesto di esseri e cose), per la complessità con cui si presenta e per i limitati strumenti sensibili e mentali con cui la percepiamo, interpretiamo e conosciamo, non ha bisogno, per così dire, di essere sacra o profana, è tale qual è, vera o illusoria che sia (esistente di per sé, creata da altro da sé o da noi stessi). Il valore di sacro (a cui va coniugato quello profano) è una qualificazione aggiunta dall’uomo, arbitraria e non necessaria.

Il mito delle origini ha da sempre accompagnato l’umanità. Che cosa significa cercare l’impronta primigenia?

Cercare l’impronta primigenia presuppone che vi sia ‘qualcuno’ o ‘qualcosa’ che per primo/a ha lasciato tale impronta, per cui cercarla vuol dire voler trovare quest’ultimo/a, in altre parole il ‘creatore’ o ‘demiurgo’ che, secondo diverse tradizioni e cosmogonie religiose, ha inizialmente plasmato il mondo. Certo, è possibile chiedersi con quale ‘strumento’ l’opera venne realizzata, perché di fatto è questo che ha lasciato l’impronta, e di conseguenza domandarsi quale sia stato il rapporto, la connessione tra ‘autore’, ‘strumento’ e ‘impronta’.

Le impronte stanno anche alla base dei nostri saperi empirici. Che rapporto ha la scienza attuale con l’alchimia che per prima ha studiato princìpi e tempi della natura?

La storia dell’alchimia è quella di un’arte, una dottrina scientifica e filosofica, che fin da tempi remoti, in Mesopotamia, in Egitto, in Cina, in India, ha cercato di comprendere le meccaniche della materia, le ragioni delle sue trasformazioni e ha cercato di riprodurle tecnicamente nel segreto di officine e laboratori. Teorie e prassi che nel corso del tempo si sono coniugate sovente, pur secondo diversi accostamenti, anche a concezioni mistiche, magiche e astrologiche. Un fenomeno complesso dunque, fecondo e discorde, rivolto specialmente al mondo lapideo e a quello vegetale, ma non solo, che per la sua eterogenea ricerca nella natura delle cose e annesse metamorfosi, ha scoperto e prodotto nuove sostanze utili all’uomo nei più disparati campi. Principalmente ha interessato la medicina, la farmacia, la metallurgia e la chimica: di questo insieme di saperi, pur in grado diverso, si può ritenere l’empirica, teorica e storica madre.

Ragione e spiritualità sono due aspetti delle nostre vite che possiamo considerare appannaggio la prima delle scienze e la seconda delle religioni. Entrambe, scienza e religioni (quelle monoteiste su tutte), hanno contribuito a costruire una visione della realtà che ha sempre scacciato tutto ciò che esce dalla loro pretesa normalità. Eppure, sono sempre esistiti pensieri e culture che si fondano su altri riferimenti, altri pensieri, altri presupposti. Cosa perdiamo con l’omologazione imposta da modelli costituiti?

La risposta più ovvia è che i dogmi o le verità precostituite, di qualsiasi natura siano, tendono a escludere tutto il resto, cioè la molteplicità delle cose come le altre visioni del mondo, che pure ci sono e sono ineludibili. Ogni modello determinato e immobile, specialmente quand’è religioso o ideologico, è un miope inganno, proprio perché va contro l’evidenza della variabile natura delle cose e della stessa loro conoscenza. Per fortuna questa arida modalità non sempre vince. Infatti scienza, ragione, religione o spiritualità non sono mai del tutto distinte e monolitiche, bensì vitali, piene di sfumature, complesse, tali che lambendosi, coniugandosi, convivendo, sfuggono o contrastano il dogma imposto. Personalmente credo che la verità non esista e che, se esiste, sia multiforme, si presenti con mille aspetti fra loro tramati intimamente anche se apparentemente diversi (tante verità, per così dire). Questione importante, mi pare, è allora vivere una conoscenza libera da ogni pretesa di verità, intesa come un processo capace di leggere e interpretare la molteplicità degli accadimenti che si incontrano, senza affermare l’esclusività del proprio sapere ma essendo pronti ad accogliere altre visioni, senza alcuna omologazione imposta.

Investigare significa trovarsi di fronte a qualcosa che si rivela ma allo stesso tempo non ci dice ancora tutto. L’impronta/enigma ci pone sempre delle domande e più è incomprensibile più ci appassiona. Vale per tutte le cose? Funzioniamo così? Quando il re è nudo finisce o comincia qualcosa?

L’impronta e l’enigma che l’accompagna sono il nutrimento dell’intelligenza perché, mostrando sempre un qualcosa di parziale dietro al quale si cela qualcos’altro, invitano a indagare, ad approfondire il senso di quella apparenza, dunque a intelligere. L’incontro tra questa umana facoltà e l’inconsueto, il desueto, qual è l’enigmatica impronta, produce inizialmente stupore e curiosità, che sono le chiavi che attivano l’intelligenza. Difatti la capacità di rimanere affascinati, attratti dall’imprevedibile, è una delle situazioni psicologiche più belle dell’uomo, perché è proprio nel momento in cui si è stupiti, sbalorditi, sorpresi da ciò che non si capisce, che può scattare l’intuizione intellettiva che apre la mente.

E cosa succede di preciso in quel momento?

C’è un’interruzione nello scorrere dei pensieri e dei ragionamenti, accade come quando sbadigliamo, piccolo evento che i buddisti descrivono come un attimo di sospensione. Nel pensiero, la sospensione è un momento di libertà assoluta, perché allora non ci troviamo intrappolati nel flusso delle parole e delle immagini. C’è la pausa, il silenzio del discorso. È lì che può sciogliersi l’enigma perché l’intelligenza, libera dal ragionamento, lo può cogliere direttamente, anagogicamente. Si dovrebbe fare più attenzione a questo processo che induce al silenzio interiore, perché è una condizione che ha fortissime capacità e potenzialità.

Anche la filologia e l’iconologia sono investigative, se e quando riescono a ricostruire l’autenticità dell’impronta. Cosa dobbiamo a queste discipline?

La filologia per le parole e l’iconologia per le immagini sono come due sorelle: entrambe cercano di risalire, ricostruendo con correttezza critica e attenzione storica, quel testo o quell’immagine e i loro significati e funzioni, sì da portare nuova luce interpretativa su fenomeni culturali del passato. A tale proposito, l’uso delle fonti e delle testimonianze a noi giunte costituisce il mezzo più efficace nell’indagine, ma anche il limite oggettivo dell’impresa. Infatti tali fonti (letterarie, figurative, archeologiche, ecc.) sono tutto sommato briciole del passato, in quanto del mondo classico, il bacino culturale per eccellenza di ogni studio, ci è giunto pochissimo rispetto a quanto prodotto. Dunque si indaga su ‘impronte’ fragili, bisognose sempre di confronti e conferme, sovente a loro volta interpretabili. Dunque un lavoro faticoso e pieno di dubbi, ma che tenta di ricucire fili di memoria preziosi per meglio comprendere la sapienza delle nostre radici.

Come si può valutare la grande diffusione delle immagini nel mondo attuale, così pervasiva grazie ai cellulari, ai video, ai computer?

Di immagini come di parole ci si può ubriacare, affidando passivamente ragione e intelligenza al vuoto della quantità ripetitiva. Oggi, siffatta quantità veicolata da tanti strumenti tecnologici (in se stessi neutri) come telefonini, video, media, ecc., sta soffocando le menti, omologandole nell’imbecillità (etimologicamente parlando). In questa prospettiva le vere fake news non sono, credo, tutte le false parole che dicono i politici, gli economisti o i militari, loro costante da secoli, bensì l’incessante afflusso di false immagini di qualsiasi genere. False perché senza respiro, false perché non chiedono risposta, false perché fatte per non dialogare. Infatti tale continuo non ha pause di riflessione né d’altro, è privo di silenzi. Privazione che impedisce i naturali tempi di ponderazione, di reazione ragionata, creativa. In effetti, se dovessi valutare e rispondere a una sequenza di immagini del telegiornale (dove si fa seguire la foto di un bambino morto sulla spiaggia all’ultima sfilata di moda) o di quelle pubblicitarie oppure di quelle che accompagnano le chiacchiere dei tanti chiacchiericci televisivi, non ne avrei mai il tempo sufficiente, né troverei il modo adatto. La sconfitta del silenzio o dei silenzi produce il rimbecillimento. Il vero convivio dell’intelligenza è dove si dialoga con le dovute pause, affinché il flusso delle parole o delle immagini abbia un senso. Gli ambasciatori veneziani nei colloqui ufficiali nelle sedi estere utilizzavano sempre un interprete pur conoscendo bene la lingua altrui: ciò dava loro, mentre il traduttore spiegava ciò che già avevano capito, i microtempi necessari per riflettere sulle risposte più opportune da dare. Recuperare spazi di silenzio può salvarci ancora.

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