IMPRONTA
Tre celebri impronte. E il mondo non fu più come prima
di Roberta Corbellini
Meteor Crater (Usa, Arizona)
Come definirlo? Un monumento della geografia terrestre, un puro oggetto scientifico studiato da geologi e astrofisici? Oppure è la sua impronta nell’immaginario che ci interessa, quella che ci fa tremare di fronte all’ignoto e cercare la misura del rischio annunciato?
Il Meteor Crater – un cratere lungo circa 1.200 metri e profondo 170 – conficcato da oltre 50.000 anni nell’arida pianura dell’Arizona è l’uno e l’altro. Attorno a questa fossa circolare e al suo materiale roccioso si è svolta una vicenda umana e scientifica molto singolare, tanto esaltante e allo stesso tempo frustrante per i protagonisti da aver contribuito alla sua fama.
Il sito è legato alla figura di Daniel Moreau Barringer, facoltoso ingegnere minerario che nel 1903 iniziava i primi sondaggi di superficie per comprovare la propria teoria sull’origine della depressione. Era sicuro che fosse stato prodotto da un impatto meteoritico e non da un’esplosione di vapore vulcanico come sostenevano gli scienziati, e che nelle parti più profonde giacesse sepolto un grande corpo ferroso equivalente a un giacimento di cento milioni di tonnellate del valore di circa un miliardo di dollari. Barringer voleva attirare investitori sulla nuova società che stava fondando per le trivellazioni, ma anche condividere con la scienza ufficiale conoscenze che aveva messo a punto nel corso della sua lunga esperienza mineraria. Era proprio un uomo con i piedi per terra, come si soleva dire: la sua fortuna economica, infatti, proveniva dai giacimenti di oro e argento che aveva scoperto in Arizona e stava sfruttando con ottimi risultati. Pertanto, nel 1906, dopo aver ottenuto dal governo la concessione per lo scavo, in una sala affollata riferiva agli accademici della US Geological Survay gli esiti dei primi due anni di lavoro. Aveva raccolto diversi frammenti rocciosi dal costone e nel fondo del cratere e ora invitava gli studiosi a riconoscere le caratteristiche eccezionali dei reperti e ad ammettere il fondamentale ruolo dei meteoriti nella storia geologica della Terra.
Qualcosa mancava comunque al suo lavoro, una cornice più ampia e convincente da offrire all’opinione pubblica. Mentre procedeva la perforazione, la stampa si attivava e le riviste di divulgazione popolare riferivano altre notizie che supportavano la teoria dell’impatto. Sia Barringer che i suoi collaboratori in più occasioni avevano citato tradizioni orali raccolte tra i Navajo e altri nativi, nella cui memoria si era conservato il ricordo di qualcosa di potente precipitato dal cielo in un tempo lontano, evocato da gesti e danze rituali durante le quali veniva cosparsa ‘polvere di stelle’ raccolta presso il cratere.
Con il passare del tempo, tuttavia, anche queste notizie costruite ad arte finivano per stingersi di fronte a una trivellazione che al quindicesimo anno raggiungeva i 400 metri di profondità senza aver trovato la massa meteoritica. Per tenere a bada gli investitori che iniziavano ad allontanarsi, nel 1929 Barringer contattava l’astronomo Forest Ray Moulton per una nuova consulenza scientifica. Il suo parere poteva essere decisivo per zittire scettici e denigratori e infatti avrebbe finito per esserlo, ma non come Barringer si aspettava. Se da un lato Moulton conveniva che l’origine del cratere non era vulcanica, dall’altro spiegava la sua teoria incentrata sulla frantumazione del meteorite durante l’attraversamento dell’atmosfera. Insomma, era inutile cercare ancora nelle profondità. Il grande catino era l’esito di una forza d’urto. Teoria e dato empirico coincidevano e bastava guardare il raggio di disseminazione dei frammenti nella vasta area circostante per accettare l’evidenza. Per Barringer la sconfitta tracimava dal bordo del cratere che aveva custodito tutte le sue ambizioni di imprenditore scienziato. Troppo frustrante, troppo fatale per la sua reputazione. Poche ore dopo aver letto il resoconto iniziava a sentirsi male e lasciava per sempre il mondo. Fine della storia. Invece no, perché dopo la morte di Barringer e la dismissione degli impianti un’altra esperienza umana e scientifica prendeva quota.
Per Harvey Harlow Nininger, insegnante di biologia del Kansas, precario e sempre in bolletta, non era il macigno da un miliardo di dollari a rappresentare il principale genius del luogo ma la massa di piccole e piccolissime rocce disseminate in un giardino cosmico-terrestre ancora inesplorato. Il piccolo batteva il grande e saliva alle stelle. L’eccezionale collezione di frammenti che, tra il 1932 e il 1948, Nininger riusciva a mettere insieme e a divulgare in congressi e su riviste riportava l’attenzione sulle incognite lasciate aperte dalle teorie di Moulton. Egli non aveva tuttavia l’autorevolezza di accademici come Frederick Leonard e Lincoln La Paz, docenti di astronomia alle Università di Los Angeles e New Mexico, i quali, dopo un periodo di amicizia e di buona collaborazione, diventavano inevitabilmente i suoi principali antagonisti, soprattutto La Paz. La leadership scientifica sui modelli di spiegazione degli scenari d’impatto, come la circolazione dei reperti cosmici o la validazione dei campioni meteoritici, era l’area strategica per una disciplina in formazione. Nininger doveva tenerne conto ed essere disposto a fare più di un passo indietro, senza per questo perdere l’inossidabile fortuna e la sete di notorietà del cercatore preparato. I frutti di questa competizione non venivano raccolti solo dall’astrofisica e dai suoi seguaci; negli anni Cinquanta i Barringer decidevano di conservare la proprietà del cratere per progettare il primo museo del mondo attrezzato a raccontare Meteor Crater come prototipo di studio e centro di divulgazione degli scenari di impatto. Nel 1967 l’Unesco dichiarava il sito patrimonio dell’umanità.
Mentre gli accademici limavano i loro discorsi, alcuni semi di questa storia erano già volati lontano, consegnando il materiale della scienza all’immaginario collettivo che provava a prendere da solo la misura del temibile rischio annunciato dall’impronta cosmica. Era questo, in fondo, che interessava l’umanità intera. Ci avevano pensato nel 1933 Philip G. Wylie e Edwin Balmer scrivendo il romanzo Quando i mondi si scontrano, ci avrebbe pensato poi il cinema degli anni Cinquanta con una drammaturgia molto efficace per posizionare buoni e cattivi davanti alla pallottola sparata dallo spazio, nella speranza di salvare la Terra. Si tratta di tòpoi narrativi più volte rivisitati che nell’ultimo ventennio hanno subito gli incantesimi della tecnologia virtuale. La drammatizzazione, perfezionata dagli effetti visivi, ha potuto spalmare suspense sul duello tra il bolide in arrivo e varie figure – lo scienziato organico e il free lance, il tecnocrate e il magnate, il capo politico e i generali, la popolazione inerme e la stampa – figure perlopiù impotenti, fino a quando, dal mucchio, un uomo comune si rivela capace di mettere in gioco se stesso per salvare il mondo. Ma nel procedere delle invenzioni visive, il fulcro della narrazione si è anche spostato dalla roccia canaglia ai comportamenti dell’umanità. Innestati sul racconto distopico, il degrado del legame collettivo e del suo valore, la manipolazione costante di uomini e cose per fare spettacolo si sono configurati come una profezia sulla reale capacità di prendere sul serio la fine del mondo. Da Armageddon a Deep Impact del 1998 fino a Warning, e soprattutto Don’t Look Up del 2021, il rischio dell’impatto imminente è dentro il mondo che stiamo costruendo con le nostre mani, è la nostra debolezza nel percepirci specie vivente e umanità capace di provare empatia.
Impronte lunari (Luna)
21 luglio 1969, ore 5,15, sono passate sei ore dall’allunaggio e pochi minuti dall’apertura del modulo spaziale. Neil Armstrong è già sceso e ha compiuto il primo passo sul suolo inviando al pianeta Terra il famoso messaggio vocale «Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità». Buzz Aldrin lo ha seguito e ha scattato la fotografia del proprio stivale sulla polvere lunare. Cosa c’è di più classico dell’impronta di un piede per scoprire dove è andato un essere vivente, da dove è ritornato e cosa di utile, di nuovo, di bello ha imparato viaggiando? La Luna è il punto più lontano mai raggiunto da un umano e ne ha ricevuto il segno. A chi si è chiesto se la prima impronta è ancora al suo posto nel mare della Tranquillità o, meglio, a 19 chilometri a sud-ovest del cratere Sabine, possiamo rispondere che da quella data all’ultima missione Apollo (1972) si può usare il termine ‘emigrazione’ con tutto quanto ne deriva. In molte zone della Luna gli astronauti hanno lasciato centinaia di impronte di spostamenti a piedi e su veicoli in movimento. Si sono comportati da migranti secondo la loro cultura e molti sono i ricordi del loro passaggio: kit di bandiere, strumentazioni e materiali per eseguire esperimenti anche curiosi come un martello e una piuma o una mazza e due palline da golf. Ci sono foto di famiglia con moglie e figli, targhe per ricordare i compagni caduti, vari effetti personali, compresi contenitori di feci e urina. Un catalogo di centinaia di oggetti che la NASA ha inventariato ma che di fatto sono residui abbandonati al degrado.
La Luna ha lasciato a sua volta un’impronta che ha marcato il cuore degli astronauti. Quando Armstrong e Aldrin, sostenuti dal primo passo si sono voltati per cercare con gli occhi l’orizzonte, sono rimasti sbigottiti. Vedere i ruoli invertiti era stupefacente: una falce di Terra avvolta da un azzurro commovente stava brillando in uno spazio buio e profondo. Nel silenzio di un cielo perfettamente immobile e privo di vento stava crescendo e appariva unica, insostituibile e di una complessità di cui tenere conto e preoccuparsi. Le immagini della Terra vista dallo spazio – come ha affermato il matematico inglese John D. Barrow – hanno un significato simbolico, hanno raggiunto milioni di persone e il messaggio subliminale che contengono non può che rafforzare la nostra cura per la natura e l’ambiente del pianeta. Grande passo per l’umanità.
Spettri nucleari (Hiroshima, Giappone)
Note con il nome di ombre di Hiroshima, sono le impronte di corpi prodotte dall’irraggiamento della bomba atomica. Alle ore 8,15 del 6 agosto 1945 la prima arma nucleare sganciata su una città di 250.000 abitanti fissava in questo tragico fermo-immagine l’ultimo gesto di normalità di un abitante di Hiroshima mentre la bufera nucleare avanzava. Altri corpi subivano la stessa sorte il 9 agosto a Nagasaki. Il bilancio delle vittime decedute all’istante e nei giorni seguenti è oggi stimato attorno ai 280.000 morti. Documentate al Museo della pace di Hiroshima queste ombre sono il simbolo di una tragedia collettiva e della paradossale scoperta fatta all’alba dell’era atomica: l’essere umano aveva creato qualcosa in grado di distruggere quello che lui stesso aveva costruito, aveva usato questo potere e aveva ripetuto l’azione distruttiva.
Nel 1947 scienziati dell’Università di Chicago avevano ben presente il salto di scala che era stato compiuto a Hiroshima e a Nagasaki. Alcuni di loro avevano partecipato alla progettazione della bomba e alla stesura del rapporto dell’11 giugno 1945, richiesto dal Segretariato alla guerra per valutare l’utilizzo immediato dell’arma ancora segreta. In Europa non si combatteva più da un mese, la Germania sconfitta non aveva la superbomba come si era temuto e nel teatro di guerra del Pacifico la fine del conflitto veniva cercata a tutti i costi e con tutti i mezzi.
Quel rapporto, noto con il nome di Franck Report, nel 1947 aveva esaurito la sua funzione, tuttavia c’era un postulato che giustificava la richiesta degli scienziati di pubblicarlo quasi integralmente sul «Bulletin of the Atomic Scientists». La scienza non poteva promettere alcuna protezione efficace contro i rischi di una guerra nucleare. Nulla poteva impedire che altre nazioni usassero teorie della fisica e conoscenze tecnologiche da tempo note agli scienziati. Dunque, gli Stati Uniti dovevano ricorrere al potenziamento dell’arsenale atomico, sapendo però che questa loro superiorità, raggiunta prima di altri, avrebbe esposto la nazione all’aggressività dei nemici, alla sfiducia degli alleati e dei paesi neutrali, scioccati dalla rivelazione della propria inferiorità difensiva. Persino l’opinione pubblica americana, tenuta all’oscuro sull’uso di un metodo così indiscriminato di distruzione, poteva opporvisi. La gestione dell’energia nucleare era dunque un problema esclusivamente politico e ogni decisione in merito non doveva dipendere dai tattici militari. Solo un accordo internazionale teso a contenere la corsa agli armamenti poteva aprire una prospettiva di sicurezza per l’intero genere umano.
Non sappiamo come venisse accolta dalla gente comune questa rivelazione che tracciava i contorni di un nuovo rapporto tra scienza e politica e tra scienza e società civile, né basta a dirlo il romanzo Red Alert di Peter George del 1958, che più tardi ispirava Stanley Kubrick per il celebre film Il dottor Stranamore del 1964. Ma il feed back su alcuni scenari del dopoguerra ci è ormai noto. Negli anni Cinquanta e Sessanta due superpotenze avrebbero detenuto il monopolio quasi esclusivo di nuove armi e, nel clima della guerra fredda, l’egemonia assoluta sui blocchi di influenza. Il dissuasore che ha agito come deterrente all’uso del potenziale atomico oggi viene chiamato con tanti nomi: tabù nucleare, equilibrio del terrore, Pax Atomica. Sono termini che sintetizzano la presenza di un’ombra nelle stanze dove la politica, la scienza, la tecnologia bellica hanno cercato di imprimere il loro ruolo sull’instabile ordine internazionale. Un’ombra talmente inquietante che gli scienziati di Chicago hanno ritenuto opportuno di dotarsi di uno strumento per misurarla.
Doomsday Clock è uno strano orologio tarato su una scala di minuti che calcola il tempo restante alla mezzanotte. Non è uno strumento di previsione dell’apocalisse ma di stima della capacità, o incapacità, delle istituzioni internazionali di rispondere al rischio di estinzione. Apparso per la prima volta nel 1949 con la lancetta puntata a tre minuti dalla mezzanotte, indicava la preoccupazione per le prime armi nucleari testate dall’URSS. Quattro anni dopo, nel 1953, avanzava ancora di un minuto in seguito a undici test di armi termonucleari compiuti dagli USA per aumentare la difesa contro un ipotetico attacco sovietico. Nel 1962, dopo la crisi di Cuba, Doomsday Clock iniziava a scendere indicando l’inizio di una distensione che, anno dopo anno, veniva monitorata con i suoi alti e bassi. Nel 1991 la lancetta segnava il minuto più lontano (!) – le 23 e 43 minuti – nel momento di maggiore sicurezza per il pianeta in seguito alla firma del trattato START con il quale, dopo precedenti negoziati sui missili tattici, USA e URSS stabilivano la riduzione degli armamenti strategici intercontinentali e dei loro vettori. Il movimento delle lancette, insomma, ha fissato sul quadrante i punti di ancoraggio, le ‘cerniere della storia’, i livelli di massima capacità di risposta dei responsabili della politica mondiale a nuove esposizioni di rischio.
Negli ultimi dieci anni, tuttavia, le rilevazioni hanno riammassato i minuti sempre più verso la mezzanotte quale preannuncio di una nuova fase di assetto del mondo. I tradizionali accordi bilaterali sul controllo delle armi si sono svolti, in effetti, dentro un quadro geopolitico diverso dal passato, condizionato da nuovi equilibri e dal consolidamento di stati indipendenti, alcuni nati dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Anche il criterio della deterrenza nucleare ha dovuto misurarsi con la dotazione del potenziale atomico da parte di Cina, Corea del Nord, India, Pakistan, Israele, Iran e con la proliferazione di nuove armi e tecnologie impiegabili nei vari focolai di guerre convenzionali. Le lancette ne hanno tenuto conto assieme alle crisi climatiche, ambientali, sanitarie, umanitarie che hanno spinto gli indicatori verso il fondo della scala. Il 20 gennaio 2022 Doomsday Clock è stato fissato a 100 secondi dalla mezzanotte dopo aver misurato i rischi riconducibili a scelte mancate e a nuove minacce: l’‘ecosfera corrotta’ dell’informazione che mina i processi decisionali, la mancanza di politiche climatiche attuabili, la tecnologia dirompente e l’insufficiente risposta mondiale alla pandemia. Chi e in quale congiuntura potrà riportare indietro le lancette?
Marzo 2022. Milioni di persone si rendono conto che l’orologio è stato sincero nel calcolare l’interdipendenza di fattori combinati tesi a produrre la rottura degli equilibri mondiali. Francesca Giovannini (Belfer Center, Università di Harvard) è tra le prime scienziate atomiche a mettere il dito nella piaga interrogandosi sulla reale tenuta del tabù nucleare nelle stanze dei bottoni. Nel suo articolo Una situazione di stallo dolorosa? I rischi dell’uso di armi nucleari nella crisi in Ucraina scrive «...ho celebrato le vittorie militari dei fieri e orgogliosi ucraini. Ho pianto per le immagini trasmesse in TV. Sono rimasta senza fiato nel leggere i messaggi del presidente Zelensky che confermavano più e più volte la sua incrollabile volontà di restare e combattere con il popolo ucraino fino alla fine. Ma sta emergendo uno scenario più inquietante e con esso un dilemma catastrofico sia per il presidente Zelensky che per l’Occidente. Più a lungo lui e l’Occidente resistono, più potrebbero involontariamente spingere Putin a considerare ulteriori escalation, anche fino alla soglia nucleare. Zelensky dovrebbe arrendersi e andarsene, sperando di placare la Russia? O dovrebbe continuare a combattere con il suo popolo, con l’aiuto crescente dell’Occidente, per difendere il suo diritto a vivere liberamente? La lotta per la libertà vale il prezzo di un possibile attacco nucleare? Questo è un dilemma esistenziale senza una soluzione perfetta, che nessuno dovrebbe mai affrontare. È un dilemma che potrebbe perseguitarci tutti presto, a meno che la sanità mentale non venga ripristinata da una diplomazia rinnovata» («Bulletin of the Atomic Scientists», 2 marzo 2022).