IMPRONTA

«Nella scienza dell’investigazione non c’è nessun ramo tanto importante e tanto negletto quanto l’arte di individuare le orme», ammoniva Sherlock Holmes in Uno studio in rosso. Orme, tracce, impronte, marker sono infatti testimonianze fisiche della presenza di un agente, di un produttore, di un colpevole. Tracce intenzionali o prodotti casuali di un’attività non necessariamente finalizzata a lasciare quel segno. In tutti i casi, preziose evidenze dei comportamenti dell’autore, oltre che della sua mera presenza fisica, in un preciso momento e in un dato luogo. E così, da lungo tempo, l’investigatore delle tracce, l’icnologo, legge nelle impronte le trame che connettono i processi agli eventi. Ricostruisce dinamiche, individua gli agenti, delinea gli effetti.
Alcune di queste tracce sono massi affioranti nel fiume della vita. Approdi oggettivi, materici, della presenza umana che possono essere usati come punti di rèpere per raccontare la storia umana nel fluire del cambiamento evolutivo. Cosa raccontano le nostre tracce? Dove eravamo? Come eravamo? E di cosa ci siamo resi responsabili?
Seguendo il monito di Holmes, propongo una rapida investigazione sul ‘caso’ Antropocene, l’epoca della traccia umana impressa sul pianeta Terra, a partire dagli indizi di tre impronte epocali.

Laetoli, Tanzania

Sotto una coperta di sedimenti e tessuti tecnologici in questo sito della Ngorongoro Conservation Area sono custodite le più antiche orme di ominidi conosciute. Nel 1976, i membri della squadra guidata dalla paleontologa Mary Leakey, che nelle vicinanze avevano rinvenuto le ossa di ‘Lucy’ e di molti altri Australopithecus afarensis, si imbatterono in orme fossili di animali impresse su uno strato di cenere vulcanica; due anni dopo il paleoantropologo Paul Abell individuò nello stesso luogo una serie di 70 orme che ricordavano quelle di un uomo. Fino a quel momento le orme più antiche riferibili ad antenati umani contavano poche decine di migliaia di anni. Queste impronte erano state impresse da individui che camminavano in posizione eretta molto tempo prima: lo strato di cenere risaliva infatti a 3,7 milioni di anni fa.
Gran parte della storia di queste tracce è legata a un’eruzione del vulcano Sadiman e alla pioggia successiva che inumidì la cenere appena depositata. Su di essa avanzarono tre ominidi. Le dimensioni delle orme parlano di un maschio alto circa un metro e mezzo e di un secondo individuo, più piccolo, che camminava posando i piedi dentro le orme del primo; al loro fianco saltellava un terzo individuo, più giovane. Il paleoantropologo Ian Tattersall dichiarò che in quel momento si era presentato il ‘primo fossile di un comportamento umano’.
Le orme di Laetoli sono profondamente diverse da quelle degli scimpanzé. Gli autori erano bipedi e avevano gli alluci allineati all’asse del piede, arcuato e rigido: caratteristiche, queste, squisitamente umane (le scimmie antropomorfe possiedono invece alluci divergenti e piedi flessibili, strumenti preziosi per arrampicarsi sugli alberi e afferrare oggetti).
Sino alla scoperta delle orme di Laetoli, i resti scheletrici avevano dato scarse informazioni sul momento che vide i nostri antenati sviluppare un cammino pienamente ‘moderno’. Ma una questione rimaneva aperta: quanto era fluida la camminata, e quanto realmente ‘moderna’? Le analisi degli scheletri di Australopithecus afarensis avevano fatto presupporre che le impronte di Laetoli potessero somigliare a quelle di qualcuno che camminava con un passo simile a quello degli scimpanzé e non con l’andatura degli uomini moderni, ma le riproduzioni sperimentali di sequenze di orme lasciate sia in posizione eretta sia con il baricentro spostato in avanti, come nelle scimmie antropomorfe, non lasciarono dubbi: le impronte di Laetoli corrispondevano perfettamente a quelle di individui eretti. A conferma di tale ipotesi sono poi giunti nuovi ritrovamenti e reinterpretazioni di tracce fossili e reperti scheletrici, tra cui le nuove successoni di orme rinvenute sempre a Laetoli nel 2016 dai paleontologi delle Università di Dar es Salaam e di Perugia, o i resti ossei di Australopithecus afarensis rinvenuti a Hadar in Etiopia.
Le tracce di Laetoli dimostrano, quindi, che 3,7 milioni di anni fa gli umani camminavano nelle piane africane con postura e andamento del tutto simili a quelli odierni. Queste tracce marcano dunque un evento epocale che segnò l’avvio di un’epopea che porterà i discendenti di quei bipedi intraprendenti a camminare su tutto il globo, dirigendosi a più ondate dal continente africano verso quello euroasiatico e poi su tutte le terre emerse. Impronte dei nostri antenati che si intrecciano con quelle di oltre 7 miliardi di sapiens, unica specie sopravvissuta del grande cespuglio umano.

Lago Crawford, Canada

Nei fondali di questo stagno nel Canada occidentale alcuni geologi della Brock University, in Ontario, hanno recentemente individuato una successione di sedimenti adatta ad essere proposta quale GSSP, Global Boundary Stratotype Sections and Point, dell’Antropocene. Un GSSP è un marcatore geologico primario, un orizzonte fisico in una successione geologica che può essere correlato a orizzonti equivalenti, isocroni, in tutto il mondo. I GSSP sono dunque tracce, marker indelebili nella storia geologica, che vengono utilizzati quali orizzonti di riferimento per le suddivisioni della scala cronostratigrafica internazionale, il calendario geologico del nostro pianeta. Le successioni di sedimenti e di rocce rappresentano, infatti, l’evidenza fisica del tempo che scorre, depositandosi ritmicamente sui fondali di oceani e laghi, ma anche nelle formazioni ipogee, come nelle grotte, o negli accrescimenti mineralizzati in organismi quali coralli o molluschi. Ed è proprio nell’accumularsi dei sedimenti degli ultimi millenni che è possibile leggere l’impronta umana nella storia del pianeta. Un’impronta generata dall’azione che progressivamente si è fatta pervasiva sui cicli biogeochimici globali, registrata da un orizzonte, geologicamente quasi istantaneo, marker di una transizione ‘epocale’ in senso letterale: l’inizio di una nuova epoca per il pianeta Terra, l’Antropocene.
Il lago Crawford è uno dei siti che i ricercatori stanno studiando come potenziali GSSP per l’inizio dell’Antropocene, una designazione non ancora ufficiale ma che porterà, presumibilmente nel 2022, alla definitiva formalizzazione da parte dell’Anthropocene Working Group, un comitato di 34 ricercatori istituito dalla International Commission on Stratigraphy. Questo GSSP definirà dunque quando ha avuto inizio l’Antropocene, l’epoca dell’umanità. Una formalizzazione dalle vaste ricadute culturali che, tuttavia, dipende principalmente dalla possibilità tecnica di individuare un marcatore rappresentativo che identifichi il momento in cui l’attività umana è esplosa a una scala così massiccia e pervasiva da lasciare una firma, un’impronta indelebile sul globo. Viste le molte facce delle azioni umane, i marcatori potenziali sono numerosi: picchi nella concentrazione di composti azotati e solfuri legati alle attività agricole e industriali, tecnofossili quali plastiche e componenti elettrici, radionuclidi rilasciati dalle esplosioni nucleari e molti altri.
Le carote di sedimento estratte dai fondali del lago Crawford contengono alcuni di questi possibili marcatori dell’Antropocene che corrispondono ad altrettanti GSSP, potenzialmente diacronici. Le intenzioni dell’Anthropocene Working Group sono tuttavia oramai chiare, come confermano alcune recenti pubblicazioni e un voto interno alla International Commission on Stratigraphy: individuare il marker che consenta di collocare l’inizio dell’epoca dell’umanità alla metà del XX secolo. Questo periodo segna, infatti, l’inizio della Grande Accelerazione, una fase di transizione ecosistemica e socioculturale che, dopo la seconda guerra mondiale, portò la crescente popolazione globale a un brusco incremento del consumo delle risorse naturali e alla creazione di materiali completamente nuovi, eclissando persino le trasformazioni avvenute nel corso della rivoluzione industriale. È infatti a partire dalla Grande Accelerazione che sono state riversate nell’ambiente quantità senza precedenti di persistenti inquinanti organici, è aumentato bruscamente il tasso di estinzione della biodiversità terrestre e marina e si sono registrate trasformazioni ambientali di portata inusitata. E proprio nei decenni centrali del XX secolo si sono avute anche le prime esplosioni nucleari in seguito all’utilizzo a fini bellici delle testate nucleari e ai test effettuati nelle isole del Pacifico, che hanno rilasciato in atmosfera grandi quantità di isotopi di neoformazione, che poi sono precipitate su tutto il globo come parte del cosiddetto fall-out radioattivo.
Le tracce rinvenute nel lago Crawford consentiranno ai geologi del futuro di determinare quando l’impronta umana è divenuta una traccia geologica. Un orizzonte, se vogliamo, arbitrario, considerato l’impatto millenario delle azioni umane. Una traccia, tuttavia, già riconoscibile e permanente. Epocale. Un’impronta indelebile nella storia del pianeta.

Spazio interplanetario, sistema solare

È qui, fuori dal pianeta Terra, che possiamo trovare la più inaspettata delle impronte umane. Una traccia costituita da onde elettromagnetiche che conferisce all’Antropocene una dimensione galattica.
Tracce palesi della presenza umana nello spazio hanno la forma di orme di scarponi impresse sulla superficie lunare, tracce di ruote e cingoli dei mezzi di esplorazione spaziale inviati su altri pianeti, asteroidi e comete, oltre ai resti di una miriade di sonde lanciate nel cosmo e a quasi 9.000 detriti spaziali fluttuanti attorno alla Terra: satelliti ormai non più funzionanti, stadi propulsivi di razzi e oggetti vari (bulloni, coperture termiche, ecc.). Sono queste, tuttavia, evidenze puntuali di attività umane che, sebbene provino la nostra presenza anche oltre i confini planetari, non mostrano tuttavia le caratteristiche di permanenza né di riferimento cronostratigrafico che abbiamo riconosciuto nelle impronte umane di Laetoli e nel GSSP terrestre dell’Antropocene.
Vi è tuttavia un’altra traccia, un altro marker, che possiamo individuare da qui, nello spazio interplanetario, che ci rappresenta tanto fisicamente quanto iconicamente con l’impronta di un evento epocale.
Se da questa prospettiva spaziale privilegiata osserviamo la Terra dal lato assolato, esso avrà l’aspetto della celebre fotografia Blue Marble scattata dall’equipaggio dell’Apollo 17 nel 1972: un geoide blu (i vasti oceani), screziato di marrone e verde (le terre emerse) e velato di bianco (le nubi). Un pianeta che, se non fosse per quelle che appaiono come secondarie pennellate verdastre – immagine delle vaste estensioni coperte dalla vegetazione – potrebbe dirsi, al pari degli altri pianeti, disabitato o comunque non certamente alle prese con il dilagare pervasivo e impattante della storia evolutiva umana. Dallo spazio, di giorno, l’Antropocene è infatti praticamente impercettibile. Basterà tuttavia attendere qualche ora per osservare questo lato del pianeta entrare in ombra. Blue Marble muterà in una superficie nero-bluastra e le luci degli impianti di illuminazione artificiale, pubblici, industriali, militari e delle abitazioni, si accenderanno. Ecco allora che l’impronta umana si mostrerà anche da qui, un’impronta percepibile alla scala colossale di un intero pianeta e del suo calendario geologico.
Dallo spazio l’Antropocene, rappresentato dall’inquinamento luminoso notturno, brilla di una miriade di piccole luci espandendosi nel cosmo come in una sorta di estensione di sé che ha tutte le caratteristiche di un’impronta epocale, una traccia costituita da onde elettromagnetiche che irradiano dal nostro pianeta verso lo spazio cosmico.
Essendo la luce visibile null’altro che un intervallo di lunghezze d’onda nello spettro elettromagnetico, potremmo estendere la nostra indagine all’intera gamma di radiazioni antropogeniche
in viaggio attraverso lo spazio extrasolare per lo meno dall’epoca delle prime telecomunicazioni terrestri, nel XX secolo. Il concetto di fondo, tuttavia, non muterebbe: l’impronta umana si espande oltre i confini fisici del nostro pianeta in una sfera di segnali d’onda che possono e potranno essere captati e riconosciuti come marcatori dell’epoca dell’umanità potenzialmente fino al termine dell’evoluzione del nostro Sole.

Tre impronte, dunque. Tre indizi per il ‘caso’ Antropocene del quale siamo protagonisti dai molti volti: vittime e assassini, spettatori e complici. In tutti i casi, responsabilmente presenti. Una grande occasione per mettere a fuoco il nostro posto nel fluire della storia evolutiva osservando le orme dei nostri predecessori, consapevoli che le nostre tracce dovranno percorrere nuovi sentieri.

multiverso

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