MARGINE

Quelli che frequento non sono paesi di montagna, paesi d’altura. Le montagne sono un orlo lontano verso sud e verso ovest. Bisaccia è il paese dove vivo, Andretta è il paese dove faccio il maestro elementare. In mezzo c’è l’altopiano del Formicoso, che sembra una schiena piena d’aghi. È la terapia eolica, estrarre energia dal vento, estrarre denaro, tanto, e lasciarne assai poco a chi il vento qui da secoli lo prende in faccia.
Oggi ad Andretta ero con il mio amico Fabio Nigro. Gli ho detto che la paesologia è una risposta a una domanda mai formulata e quindi mai ricevuta.
Sono un pescatore di montagna. I laghi, i fiumi, le pozze della desolazione. Pesco seduto su una panchina, davanti a un bar, camminando per strada, nell’ufficio anagrafe, dentro un cimitero, in un vicolo, davanti a una villetta, sotto un albero, sotto un lampione.
Ad Andretta pesco facce, le facce delle donne che qui sembrano più antiche che altrove, la carriera della vecchiaia portata avanti gloriosamente, senza trucchi, senza abbellimenti.
Oggi non ho fotografato volti ma porte, il confine brutale tra le porte di alluminio anodizzato e quelle di legno. Andretta offre una serie di questi confini e anche nelle persone, a guardar bene, c’è il confine tra legno e alluminio. L’alluminio è il corpo pubblico, quello esposto. Il legno col lucchetto, con i buchi e con i tarli, è l’anima. Fare paesologia significa non rimanere con lo sguardo sulle porte. Trovato un confine, subito ne attraversi un altro.
A Fabio parlavo del mio essere morto. Gli dicevo che il mio funerale è già passato, è stato ieri, un mese fa, un anno fa. Forse vale per tutti, tutti già morti, già dimenticati. Facebook mi fa pensare a un cimitero, ogni profilo è una lapide, c’è tutto, la foto, i lumini, i fiori, c’è quello che serve per celebrare il rito quotidiano della nostra scomparsa.
Uno che scrive cerca di rigare la vita degli altri con la scrittura, ma la scrittura è un chiodo di pane, non scalfisce nulla, si sbriciola tra le mani.
Il cielo di Andretta ieri era come l’aula, come la lavagna, lo stesso colore. Il cielo di Andretta mi dice che non ci sono. Arriverò in me all’ultimo battito del cuore.
Ancora Andretta. Ecco una persona che una volta avrebbero chiamata la pazza del paese. La seguo verso il suo vicolo, le scatto una foto mentre entra in casa seguita dal suo e da altri cani. È lei il punto di animazione in una zona dove non è rimasto nessuno. Nel vicolo più sotto un vecchio porta la legna in casa. Fabio gli chiede se è per l’inverno prossimo. Lui risponde che non si sa mai. Siamo ad aprile, è il momento in cui l’inverno finisce e ricomincia, come un amore molto lungo che non riesce a placarsi nell’indifferenza.
Adesso non ho più l’umore di questa mattina. Le mattine a scuola hanno un senso di debolezza, un senso di tristezza, un senso di sconfitta. Poi la piega del pranzo, carboidrati, cioccolata, si viaggia con un altro carburante, la notte è lontana. I pensieri hanno un’altra vibrazione.
L’amarezza è il mio campo da gioco. Le mie giornate sono gite nell’amarezza, c’è sempre una montagna d’amarezza da scalare, sono felice della mia amarezza, sono infelice della mia amarezza, mi proteggo con la mia amarezza, mi annoio per la mia amarezza, la scalcio e la custodisco e la svendo, faccio errori e prodigi con la mia amarezza.
Certe cose non ci fanno morire, riattivano la morte che era già in noi.
Mia madre stasera senza la dentiera presenta la sua vecchiaia. I paesi come mostra permanente della vecchiaia.
Per qualche secondo la mia morte non mi fa più paura, non ho alcun bisogno della mia morte.
Oggi pensavo quasi con gioia al fatto che ci dissolveremo. Che bella soluzione.
C’è gente che ha quasi il terrore che qualcuno possa riuscire in qualcosa. Distinguersi, allungare il passo, smuovere il traccheggio, ecco le attività più insolenti. Il paese è il luogo dei gregari che controllano le fughe. Bisogna arrivare tutti assieme alla volata finale del fallimento.
Il confine tra la vita e la morte, tra l’intimità e la distanza, tra l’autismo e la condivisione, tra il bisogno di attenzione e quello di solitudine.
Il confine tra modernità e mondo contadino in alcuni paesi è marcato, in altri è sparito.
Qui è sempre il confine che domina, il confine tra un paese e l’altro, tra una porta e l’altra, il confine che corre adesso tra l’inverno e la primavera, il confine che mi costituisce, il confine in me, il confine dei miei confini, il non avere altro che confini, il mio essere confine, mangiare confini, prendere aria e forza dai confini, agitarmi sul confine, correre sui confini, tornare sui confini.
Il mio confine tra salute e malattia: l’ipocondria.
Pure l’ansia è un confine, l’ansioso è un animale di confine.
Io vivo di avvistamenti come una sentinella, sono sul bordo, nella mia vita non ho mai frequentato nessun centro.
Aprile è un mese di confine.
Contro la crisi abbiamo solo due armi: il sacro e la poesia. Sta finalmente arrivando il tempo dei percettivi. È un tempo che viene da sud e dai margini. Il centro del mondo è al buio. A noi fa luce il batticuore.
Orlo, bordo, confine, selve, monti, mare, alberi, zolla, cane, vigna, nuvole, vacca, Lucania, San Fele, Latronico, panchina, sole, alba, tramonto, e vento, neve, pioggia, e altro vento, e altra neve, e aprile, e il verde di maggio, e il nero di settembre, silenzio senza opinioni, luce senza commenti, non ho più voglia di parlare di me, di dire cosa faccio, dove vado, non ho voglia di vincere, di passare avanti, di essere il migliore, non ho più voglia di essere qualcuno, di arrivare a qualcosa, voglio solo che la vita sfili, se ne vada da dove è venuta, non la trattengo, non voglio trattenere niente, camminare, guardare gli alberi, non dire e non fare nient’altro che il giro dei confini, andare sempre più dentro a certi confini, non superarli, non mirare al centro, non mirare alle passioni di tutti, disertare, prendere confidenza col cielo, ma farlo senza vantarsene, non sputare parole sul mondo e sugli altri, camminare, uscire perché è uscito il sole, uscire, prendere un paese, passarci dentro, non dire nulla del giorno, non accostare niente alla solitudine, lasciarla intatta, lasciare che la solitudine faccia la sua vita, svolga la sua storia e così pure la tristezza e la stanchezza, essere stanchi tristi e soli è comunque una fortuna, i buoni sentimenti rigano il mondo come quelli cattivi, come le parole che diciamo e quelle che non diciamo, meglio andarsene in silenzio davanti al mare, in mezzo a un bosco, davanti al muso di un gatto, pensare alle volpi morte sotto la neve, alle fatiche delle formiche, al verde lucidato dal vento, alle nuvole dissolte, a quelle che arriveranno, guardare il cielo sul confine tra il giorno e la notte, guardare il cielo molte volte al giorno, è strano che la gente esca fuori e non abbia come primo pensiero quello di guardare il cielo, è strano questo andare verso gli altri a guerreggiare, meglio sarebbe andarsene dove c’è silenzio, passarsi la luce del giorno tra le dita, sentire la notte, prendersi cura della malattia, ma senza che questo diventi un’altra malattia, parteggiare per la propria gioia e per quella degli altri, andare, alzarsi e salire verso la montagna, scalare la montagna, annusarla, prendere il sole che prende la montagna, guardare le vacche, i cavalli, guardare le spine, le foglie, i ruscelli, guardarli senza pensare che siano altro che spine, foglie, ruscelli, non commerciare col mistero, con l’ecologia, col silenzio, con la pace, stare sul bordo, omettere il centro, attraversarlo senza fermarsi, c’è un solo centro possibile nella nostra vita, questo centro è la morte, dunque fin quando siamo vivi è solo questione di orlo, di bordo, di confine.

Questo testo riprende un brano tratto dal volume Geografia commossa dell’Italia interna di Franco Arminio (Bruno Mondadori, Milano 2013).

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