MARGINE

Trovi il margine, prima o poi, quando ti muovi dal centro verso la periferia, da un territorio certo e conosciuto pieno di cose legittime e ben definite, verso una zona sfumata in cui non tutto, o non sempre, sembra avere diritto di cittadinanza là dove lo trovi, e presto ti convinci che camminando ancora un poco – ma non sapresti dire quanto – finirai per trovarti nell’altrove, anche se più avanti non dovesse esserci un vero confine, o una barriera discernibile.
Nel vasto mondo dei viventi, gli estesi continenti rappresentati dai grandi gruppi di organismi meglio conosciuti – i mammiferi, gli uccelli, i pesci, gli insetti, o le piante provviste di fiori – sfumano verso un margine lungo il quale, nelle nostre peregrinazioni attraverso i regni della natura, incontriamo creature mai viste prima: la loro identità è problematica o contraddittoria, la loro appartenenza all’uno o all’altro dei continenti rimane a lungo incerta, se non inquietante.
Corre l’anno 1798. Il capitano John Hunter, secondo governatore del New South Wales, manda in Gran Bretagna una pelle e un disegno di uno sconosciuto animale australiano. Ha il corpo ricoperto di pelo, dovrà essere pertanto un mammifero. Ma è privo di denti, ha invece un becco che suggerisce una sua appartenenza agli uccelli. George Shaw, che l’anno seguente ne dà una prima descrizione, confessa di nutrire dubbi sull’autenticità del reperto e Robert Knox ammette che potrebbe trattarsi di un falso prodotto da un abile imbalsamatore asiatico. Uno di quelli che davano forma anche a eterei ‘uccelli del Paradiso’ privi di zampe, abitanti di un margine fantastico a riguardo della cui inconsistenza lo stesso Linneo metteva in guardia i lettori del suo Systema Naturae.
Più tardi, nel corso dell’Ottocento, si saprà che l’ornitorinco depone uova, e questo potrebbe confermare la sua esclusione dai mammiferi. Ma si viene anche a sapere che la femmina è provvista di ghiandole mammarie e nutre di latte i suoi piccoli. È un mammifero, dunque, ma solo perché non c’è, nelle classificazioni zoologiche, una casella migliore dove sistemarlo. Un mammifero marginale, dunque, da relegare nel remoto limbo dei Monotremi.
E che dire della wolffia? Una pallina verde di un millimetro di diametro, che galleggia sull’acqua degli stagni. Con quel tanto di clorofilla che denuncia la sua appartenenza al regno delle piante, ma che potrebbe essere una semplicissima alga verde: un vegetale senza fusto, senza radici, senza foglie, senza fiori. Invece, la wolffia è una vera pianta a fiori. Anche se i fiori non li produce quasi mai e, quando proprio lo fa, non si spreca certo a produrre corolle colorate o riempire l’aria di profumi.
Wolffia e ornitorinco sono membri di diritto di un mondo eterogeneo e variopinto: quello che popola i margini delle nostre classificazioni, dei nostri schemi mentali. Classificazioni e schemi che sono nati e cresciuti per dare un posto agli oggetti che ogni giorno ci troviamo tra i piedi, e tra i quali dobbiamo perciò districarci, senza preoccuparci di quello che potrebbe esserci al margine del nostro continente, se non addirittura su un continente ancora da scoprire. Solo che un bel giorno l’olandese Willem Janszoon sfiora quello che oggi chiamiamo Capo York. È il 1606 e dieci anni più tardi il suo connazionale Dirk Hartog mette piede, primo fra gli europei, su quella che diviene allora la Nuova Olanda e che nel corso degli anni, prendendo nel frattempo il nome di Australia, invierà ai seguaci di Linneo una serie interminabile di creature – non solo l’ornitorinco, ma anche l’echidna e il canguro, il koala e il lupo marsupiale – che sembrano fatte apposta per togliere il sonno agli zoologi e per alimentare le riflessioni dei filosofi sulla natura, a priori o a posteriori delle nostre categorie mentali. Non a caso Umberto Eco accosterà, nel titolo di un suo saggio, proprio Kant e l’ornitorinco.
Mentre il margine ha una sua estensione, anche se generalmente indefinita e, forse, indefinibile, il confine non ha spessore. È una linea immaginaria, fissata da una definizione o da un atto legale e spesso approssimata da un segno tracciato sulla carta, che separa due mondi, due regimi, due fasi.
Lungo un confine, o almeno un tratto di confine, la separazione può prendere però spessore, concretezza fisica, stringenza di controllo, intimidazione di armi spianate o di insidie attese e però imprevedibili: dal confine siamo arrivati alla barriera. La quale però difficilmente è assoluta e può invece concederti a volte di passare, sollevando la sbarra dopo che hai pagato il pedaggio. Ma qualche volta, la barriera, devi essere tu a forzarla.
Quando sei giunto al confine, sottolineato o meno da una barriera, che ne è più del margine? Di quel margine abitato da gente che tutti i giorni va a comprare la benzina, o le sigarette, oltre il confine; di quel margine in cui la lingua quotidiana è piena di parole dell’altra lingua; di quel margine dove i geni delle persone e i nomi delle famiglie testimoniano di un’introgressione che si prolunga e si estenua lungo le valli, fino a rendersi impercettibile appena arrivi alla prima città, che ormai appartiene a tutti gli effetti alla terra di qua, oppure a quella di là, dall’ormai lontano confine, ed è ormai anche fuori da quel margine che ora, ripensandoci, riconosci come una fascia incerta ma dinamica e produttrice di novità. Come il margine continentale ricoperto di acqua bassa dove, secondo il paleontologo, hanno mosso i loro primi passi molti gruppi nuovi di animali marini che solo più tardi si sarebbero avventurati in acque più profonde. O come il margine che separa due specie – un margine di incroci che non vanno a buon fine, una barriera riproduttiva senza ritorno – che spesso però è tale solo nella rigidità semplificatrice delle nostre classificazioni, mentre in natura, dove le specie non sono nomi immutabili ma dinamiche realtà, c’è molto spesso spazio per i muli e per i bardotti, e perfino per qualche mulo o bardotto – maschio o femmina – capace di riprodursi.
All’uomo piace sottolineare i margini, abbellirli e impreziosirli con un pizzo o una frangia. Il margine diventa così il regno del ricamo, delle bordure di piccole piante perenni che delimitano un’aiuola o un giardino. Forse è questo il nostro modo per tenere lontane le inquietudini delle remote periferie, o per distrarre l’occhio da quell’angolo della carta geografica che registra il finis terrae, o l’ultima Thule.

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