MARGINE

Quando si lavora sui sistemi del vestire e dell’ornarsi, là dove l’intreccio di funzioni pratiche e valori simbolici si fa particolarmente complesso, emerge con evidenza una caratteristica: l’ornamentazione preziosa dura (ori e gioielli) e soffice (ricami, merletti, passamaneria) mostra una sorta di vocazione a collocarsi sui ‘luoghi di soglia’ del corpo, là dove esso si apre all’esterno. Sui margini che definiscono l’identità personale, dove passa il confine fra il dentro e il fuori: copricapi, colletti e collari, polsini, pettorine, davantini, cravatte, orli, lembi replicati, rinforzi, così come orecchini, collane, catenine, pendenti, bracciali e braccialetti assumono il ruolo di ‘guardiani delle soglie’. Mi piace immaginare, in una rivista interdisciplinare come questa, il dialogo fra uno storico della moda e uno specialista di storia militare: potrebbero interrogarsi sulle ragioni profonde della coerenza, in alcune epoche, fra il moltiplicarsi delle opere di difesa e fortificazione sulle frontiere degli stati e l’amplificarsi ridondante di colletti, gorgiere, polsini, insieme col proliferare di amuleti religiosi e profani a contatto del corpo.
Sui margini si gioca in difesa. Ma solo in difesa?
I tessitori hanno inventato le frange in fondo a tappeti e tovaglie molto prima che i pittori di laguna sostituissero la linea con lo sfumato e secoli e secoli prima che geografi, linguisti e antropologi si accapigliassero sulla distinzione semantica fra confine e frontiera e si accordassero sul fatto che si tratta di entità permeabili che è meglio pensare comunque in termini di fascia piuttosto che di linea.
I ‘riti di margine’ sono entrati nella riflessione antropologica un secolo fa, a partire dallo studio «sulla rappresentazione collettiva della morte» di Robert Hertz (1907) e da I riti di passaggio di Arnold Van Gennep (1909). Il nucleo mediano, liminale, del modello sottostante alle sequenze cerimoniali che accompagnano il viaggio degli individui da una situazione o da una condizione all’altra, era pensato sulla base di uno schema topologico dedotto dai contesti di soglia e frontiera in abitazioni, villaggi o stati. Come si sono inventate gli spazi intermedi, le ‘terre di nessuno’, per rendere morbide le linee di confine, così le culture hanno introdotto, fra separazione e riaggregazione, la durata per darsi tempo là dove si è costretti ad affrontare la rigida frattura delle opposizioni binarie: i tempi graduali del lutto a spezzare la crudeltà del confine secco fra vita e morte, i riti della segregazione iniziatica, i tempi del fidanzamento, l’esperienza dei noviziati religiosi e laici, l’interregno, i carnevali dove si rovesciano i ruoli tanto economici quanto di genere.
La vita e la natura impongono confini, ma anche mutamenti e passaggi; i riti li marcano e li costruiscono; le fasi di margine all’interno del rito garantiscono la società dal rischio della destabilizzazione che la discontinuità necessariamente comporta.
Cinquant’anni dopo, la ricerca sul campo e l’analisi comparativa hanno rivoluzionato quell’interpretazione sostanzialmente conservativa delle strutture sociali e culturali, portata a pensare i margini esclusivamente come a un olio lubrificante. E il mutamento; e la dinamica delle strutture; e l’immaginazione del diverso? Dobbiamo a Victor Turner e a Mary Douglas l’avvio della riflessione sul potenziale creativo dei riti di margine, soprattutto dove essi assumono carattere performativo trasformandosi in specchi non solo riflettenti, ma riflessivi per i gruppi umani (V. Turner, From ritual to theatre, 1982). I margini: tempi e spazi a-strutturati, dove l’indeterminatezza, la precarietà, lo scardinamento dell’opposizione binaria di ordine e disordine possono trasformarsi in sperimentazione del nuovo, in combinazione inedita degli elementi familiari destrutturati, in prefigurazione dell’imprevedibile. Non vale solo per i ragazzini iniziandi Ndembu; vale anche per i ragazzi che sognano un futuro diverso attraverso le canzonette, coinvolti in un concerto rock, e per gli spettatori che si commuovono a teatro o leggendo un romanzo; vale per chiunque non si accontenti del mondo così com’è. La marginalità, ha scritto Edward Said, è condizione obbligata e propizia anche per l’intellettuale che vuol dire la verità.
Gli antropologi lavorano fra «residui, rimasugli, spazzatura» e varie bizzarre follie. Hanno toccato il fondo quando hanno scelto l’osservazione partecipante nei campi zingari. Nel mio personale viaggio verso la marginalità, restano un punto di svolta i saggi «di antropologia zingara» contenuti in Popoli delle discariche di Leonardo Piasere, giovane antropologo (allora, nel 1991) che aveva scelto di prendere alla lettera la nozione di campo come luogo obbligato per l’osservazione etnografica. Il titolo provocatorio fotografava con crudezza la forza e le conseguenze del preconcetto ‘cittadino’ che non sa pensare il rapporto spaziale centro-periferia (fino alla periferia estrema delle discariche abitate dai disperati, oltre le borgate e oltre le favelas, oltre ‘l’urbanistica del disprezzo’) se non come strutturato materialmente e mentalmente in termine di degradazione, frutto impuro dei processi di urbanizzazione forzata e di immigrazione, di espulsione e concentrazione di poveri e marginali; per loro, quando va bene e come ultima tappa della colonizzazione paternalistica, i servizi socio-assistenziali. Invece è lì, sui margini, che occorre andare a lezione di una logica più raffinata, quella dell’indeterminazione e dell’approssimazione felice.

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