IMPRONTA

Nell’isola di Mactan, nell’arcipelago delle Filippine, due monumenti si fronteggiano a poca distanza l’uno dall’altro. Il più antico celebra Ferdinando Magellano, l’esploratore portoghese che trovando lo stretto che porta il suo nome attraversò il Pacifico verso ovest, finendo la sua vita nel 1521 trafitto dalle lance degli uomini del re indigeno Lapu-Lapu. A questo è dedicato il secondo, una statua che ritrae il sovrano con una grande spada e uno scudo in mano.
Il primo monumento, intitolato alle ‘glorias españolas’ (ma Magellano era portoghese, sebbene al servizio della Spagna), venne eretto nel 1869, quando le Filippine erano ancora una colonia spagnola; il secondo nel 1981, dal presidente Marcos, per celebrare «the first Filipino to have repelled the European aggression», come recita una targa.
I due monumenti, racchiusi nel Mactan Shrine (o Liberty Shrine, precisa Wikipedia), e la loro vicinanza – quindi i messaggi simultanei e antagonisti che trasmettono – invitano a riflettere sulla funzione simbolica della storia e delle sue tracce, sulla contrapposizione tra presentismo e storicismo.
Negli ultimi decenni si sono moltiplicate le voci di coloro che, con motivi eticamente validi, invitano a riconsiderare come nell’Occidente (e prima in Europa) la storia sia stata costruita sulla base dei crismi culturali su cui era basata la società. Per molti periodi e processi storici possediamo una ricostruzione del passato vista dalla prospettiva dell’uomo bianco, europeo, delle classi superiori, cristiano (o razionalista): insomma il canone eurocentrico della storia come cammino progressivo verso la civiltà, i valori su cui la parte ricca del mondo ha costruito nel tempo la propria supremazia. Una storia che in qualche modo serve da metro per considerare il resto del mondo, ‘misurato’, di conseguenza, in funzione di ciò che ha o non ha rispetto alla nostra civiltà (democrazia, diritti, eguaglianza tra i generi, ecc.).
Queste istanze di rilettura di un passato a una sola dimensione, conviene ricordarlo, hanno generato nel corso del Novecento importanti allargamenti di prospettiva: prima, ad esempio, si è scoperto che la storia era fatta anche della storia delle classi popolari, della loro vita, della loro cultura. Poi si è scoperto che anche le donne hanno avuto una storia, e fino a quando non si sono considerate un soggetto storico non si è nemmeno trovato il modo e le fonti per studiarle: con tutte le sorprese e gli avanzamenti che la gender history ha apportato. Infine si è provato a considerare il passato secondo il filtro di tutte le possibili ‘minoranze’ (emarginati, omosessuali, ecc.), oppure delle maggioranze oppresse, dai popoli nativi agli schiavi, ecc. Queste diverse prospettive hanno permesso di leggere in filigrana in maniera molto più ricca e utile il canone di storia tradizionale: hanno arricchito la nozione stessa di passato.
A un certo momento, questa spinta ad aumentare le chiavi interpretative di ciò che abbiamo alle spalle si è trasformata in una sorta di tribunale della storia, che finisce per emettere sentenze e cancella dalla nostra vista ciò che, sulla base dei criteri di giudizio del presente, non avrebbe dovuto esserci nel passato. Via allora le statue di Cristoforo Colombo da molte piazze d’America, basta insegnare che l’esploratore genovese ha ‘scoperto’ l’America (c’era già qualche milione di indios, pardon di nativi); largo all’insegnamento di scrittori più inclusivi di Shakespeare, che fa uccidere Desdemona da un generale moro, e così via. Questa smania di riscrivere il passato in modo che assomigli completamente a noi ha toccato forse il suo culmine in un articolo del «New Yorker» di pochi anni fa, in cui ci si chiedeva Why are so many fascist monuments still standing in Italy?, portando come esempio di «relic of abhorrent Fascist aggression» il Palazzo della Civiltà all’EUR, con in bella vista la sua scritta mussoliniana a lettere cubitali.
Questa idea che la storia serva ad affermare ciò che noi siamo oggi e che attraverso di essa si costruisca la nostra posizione nel mondo non è di certo nuova. Per certi versi è il motivo stesso per cui esiste la storiografia, è l’essenza in cui risiede il nostro bisogno di raccontare e trasmettere ciò che è avvenuto prima di noi: assegnarci una ragione di essere nello scorrere del tempo. Ciò che però sta rapidamente cambiando in questi decenni è proprio questo filo che ci lega con la storia. Se nelle società tradizionali prima, e nell’età della modernità poi, il legame con il passato era indispensabile, oggi, nella post-modernità, esso appare quasi superfluo. La nostra impronta è data dal presente o, al massimo, dal futuro.
Naturalmente si tratta solo di una tra le tante tendenze che emergono in questa fase di caotico cambiamento di ingresso in una nuova modernità digitale. Si potrebbe, come argomento contrario, sostenere che mai come oggi si parla, si discute, si guarda e si ascolta la storia. Basti vedere la montagna di romanzi storici che si accumulano (spesso invenduti) sugli scaffali delle librerie, a proposito dei quali, però, si potrebbe osservare che anche reinventare il passato attraverso la fiction è una maniera per disinteressarsene.
Stiamo dunque veleggiando inconsapevoli verso Un tempo senza storia, come paventa un bel libro di Adriano Prosperi? O stiamo semplicemente riordinando la cassetta degli attrezzi con cui giudichiamo il tempo dietro a noi, come è sempre successo nelle fasi di più veloce trasformazione?
Per intanto, l’auspicio è lasciare che il passato dialoghi con il presente e che le idee che hanno costruito l’uomo di ieri si confrontino con quelle dell’uomo di oggi. Chissà che Magellano e Lapu-Lapu, da un piedistallo all’altro, si parlino.

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